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Qui Buriazia, Siberia centro-meridionale, territorio che bordeggia la costa orientale del lago Bajkal. Namgar Lkhasaranova è cresciuta nel piccolo e remoto villaggio di Kunkur, non lontano dai confini con Mongolia e Cina. Ha appreso canto e repertori dai nonni e dal padre mentre badava agli animali al pascolo. Dopo aver frequentato una scuola di musica, ha iniziato a cantare in un gruppo folk di Ulan-Ude, capitale della repubblica autonoma della federazione russa. Lì, ha incontrato Evgeny Zolotarev, diventato suo marito e partner nella band di residenza moscovita (formata nel 2001) in cui, accanto alla cantante e suonatrice di yataga (cetra a 13 corde) e khomus (scacciapensieri) e a Zolotarev, che canta e suona basso e chanza (liuto a manico lungo, tastato e dotato di 3 corde), figurano il figlio Timur (chitarra e voce), i russi Alexey Baev (batteria, elettronica, arrangiamenti e sound engineering), Gennady Lavrentiev (violino, chitarra e arrangiamenti) e il russo Andrey Pristavka (batteria), i norvegesi Fredrik Møller Ellingsen (chitarra, batteria, percussioni, campionamenti e arrangiamenti) ed Eivind Kløverød (batteria), il canadese Merlin Ettore (batteria, elettronica e arrangiamenti), i tuvani Radik Tyulyush (canto armonico) e Alexei Saryglar (credit per i campionamenti) e in un brano il padre di Namgar, Ayusha Lkhasaranov. In un’intervista Namgar (il suo nome significa Nuova Bianca) presenta il suo popolo, sé stessa e parla del suo progetto. Secondo T. M. Mikhailov (“National consciousness and mentality of the Buryats”, in “The Modern Condition of the Buryat People and views on its development”, Conference Papers, 1996), il termine buriato emerge come
categoria etnica alla fine del XIX secolo come etnonimo per delle comunità di lingua mongola della regione del Baikal. Ancora oggi, i Buriati mantengono forti legami culturali con la Mongolia e l’uso del termine BuriatoMongolo” come categoria di appartenenza non è inconsueta. La lingua buriata, appartenente al gruppo mongolico delle lingue altaiche, è considerata dall’Unesco tra gli idiomi a rischio di estinzione; Namgar paragona la perdita della propria lingua madre a una malattia, sostenendo che “un popolo senza una lingua è perso” (“Songlines”, #170), perché naturalmente dietro la lingua c’è un insieme di conoscenze.
Da tali considerazioni nasce l’urgenza di non disperdere questo patrimonio culturale, portandolo alle nuove generazioni. Namgar e Evgeny hanno ricercato negli archivi di Mosca, San Pietroburgo e Ulan-Ude, scavando tra le espressioni musicali tradizionali buriate e raccogliendo centinaia di canti buriati, quattro dei quali sono stati inseriti nell’album intitolato “Nayan Navaa” (Terra degli Antenati), magnetico tema che chiude un lavoro nella cui struttura pentatonica entrano elementi rock, jazz ed elettronici. I testi riprendono motivi tradizionali buriati e mongoli che riflettono la cultura pastorale itinerante, i cui temi sono canzoni di cacciatori, nuziali, sciamaniche, sulla vita nomade e danze in circolo (gli yokhor), come nell’iniziale corale e rockeggiante “Boori deeguur yabakhadaa”
(La canzone del cacciatore). Prosegue sullo stesso registro ritmico la successiva “Khadin khursa nogoondo” (Erba verde). Suoni d’ambiente, elettronica chitarre e khomus contornano gli arazzi vocali di Namgar (definita dai quotidiani anglo-americani la Björk buriata) nel canto nuziale “Urda uula” (Montagna del sud). “Tokhoi zandan emeelee” (Canzone in circolo dei Buriati della Steppa) è una danza rituale di caccia e adorazione del sole (tra l’altro la Buriazia è chiamata “repubblica del sole”: qui il sole splende quasi per tutto l'anno), che Evgeny ha avuto da molto tempo in repertorio. Inizio moderato e accelerato volo liberatorio nel finale. Va detto che negli anni ’90 il musicista russo, di estrazione urbana, ha trascorso un anno nella steppa a pascolare pecore con la sua compagna: insomma, una prova d’amore e al contempo un’immersione totale nell’ecosistema pastorale buriato. Nel tradizionale “Zakhyaa duun” (La canzone del padre), sorta di antico canto di partenza che poteva contenere anche consigli alla figlia prossima a lasciare la casa familiare per andare in sposa, la cantante duetta con suo padre: prima lei, poi lui, poi le due voci si intersecano. Segue un altro canto nuziale, “Ailshaluulaarai”, in cui con voce più intimista Namgar canta: “Se vuoi cavalcare un cavallo sfrenato lascialo andare alla mandria qualche volta, se vuoi essere un buon marito lasciami visitare mia madre qualche volta”; a metà del brano si sprigionano gli armonici prodotti dal canto difonico del tuvano Radik Tyulyush, la cui voce abbellisce anche il potente afflato folk rock della danza “Yaboo-Aidoo”. Invece “Geree sheneen gazarta” è un tema molto noto nel Paese, una danza rivisitata in forma di scura ballad segnata dai riff della chitarra elettrica. Ci si rivolge al repertorio degli affini e vicini della Mongolia interna con la ballata “Zandan khurer”, in cui Namgar dà ancora prova del suo estro vocale. “Unagan boriin khatarin” (Cavallo da corsa) ha visto la luce all’interno di un progetto internazionale che nel 2014 portò a collaborare musicisti siberiani, norvegesi e finlandesi. Il musicista norvegese Ole Jørn Muklebust ha composto la musica su una poesia tradizionale. Su un andamento psych-folk-rock, una ragazza descrive metaforicamente i suoi sentimenti per l’amato (“La melodia della voce del mio amato è come il suono di un flauto”). Dell’elogio dei vasti spazi della terra e del retaggio delle generazioni del passato, evocati nella traccia che chiude l’album, si è detto sopra.
Quella di Namgar è una voce che racconta storie e riti con piglio contemporaneo, condividendo un sapere musicale che è un patrimonio dell’umanità: vi invitiamo a fare conoscenza con questa figlia della steppa.
Ciro De Rosa
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