Paolo Benvegnù – Delle inutili premonizioni. Venti anni di misconosciuto tascabile vol.1 (Blackcandy Produzioni, 2021)

Ogni epifania della tanto citata canzone d’autore non è mai solo musicale, ma - proprio per sua stretta natura - anche profondamente letteraria. Nella canzone d’autore, le parole sono importanti tanto quanto i timbri musicali e gli arrangiamenti che le accompagnano. Anzi, spesso sono proprio le stesse parole a “trainare” la musica, o, quantomeno, a dettarne la fisionomia. Un indiscutibile artigiano di questo saper rendere perfettamente lo zeitgeist delle sue canzoni accordando testo e musica è Paolo Benvegnù. Del resto, lo era già all’epoca della sua militanza in quegli Scisma che, assieme Estra, Massimo Volume e Virginiana Miller furono alfieri di una vera e propria rivoluzione letteraria, a tratti più visionaria e narrativamente “distaccata”, del circuito del rock indipendente degli anni Novanta. Affinatasi nel tempo attraverso i sei album in studio come solista, questa sua capacità, emerge in tutta la sua potenza in “Delle inutili premonizioni. Venti anni di misconosciuto tascabile vol.1”, un vero e proprio vademecum della produzione del nostro, undici canzoni pescate dalle sue prove soliste più una canzone presa da un Ep degli Scisma, riarrangiate in chiave acustica. “In dissolvenza”, che apre il lavoro arriva da “Vive le roi”, Ep degli Scisma datato 1999, e qui resa da un brumoso strumming di chitarra, segnato da accordi aperti e da un riverbero che allarga l’atmosfera. La prima prova solista di Paolo fu “Piccoli fragilissimi film”, anno 2004, lavoro che contiene giù due pezzi da novanta, è il caso di dirlo, del repertorio del cantautore milanese. Comincio da “Cerchi nell’acqua”, la cui rivisitazione acustica, qui sorretta da un delicato arpeggio, riempito da un elegante ricamo di archi, synth ed elettronica, finisce per sottolineare la scrittura fotografica e, per certi versi, incomunicabile, di quel “E fermarsi un attimo per considerare che il respiro è un dettaglio che ci rende uguali, come cerchi nell’acqua che non sanno nuotare e si infrangono”. Una tempestosa alternanza fra arpeggio e pennate scandisce, poggiata su un disteso tappeto di archi, “Il sentimento delle cose” che, con le sue pulsioni quasi leopardiane, mette in risalto una delle tematiche preferite della poetica di Benvegnù, il rapporto, spesso contrastante, fra l’uomo ed il circostante. “Le labbra”, anno domini 2008, è la seconda prova solista del nostro e da cui sono tratte “La schiena” ed “Il nemico”. La prima con quel suo “Perché Dio non guarda, Dio bestemmia e alle volte non si applica”, qui vestito da una chitarra che comincia pizzicata, esplode in uno strumming che parte giocando su bassi e palm-muting e finisce deflagrando al crescere in climax del brano, adagiata su un dilatante tappeto di elettronica, rende perfettamente la capacità che ha Benvegnù di tirar fuori versi che sono cazzotti in piena faccia. “Il nemico” è scandita da un ondivago alternarsi di arpeggio e strumming, che poggia su una non meno acquosa base di elettronica. Elementi che, uniti ad una voce riverberata, rendono perfettamente l’atmosfera quasi straniante di quel “Hai troppe cose a cui pensare, ad esempio che gli alberghi sono navi senza movimento”. Segue una terna tratta da “Hermann”, del 2011, aperta dalla tensione cosmica di “Avanzate, ascoltate”, che trova nel suo vestito, cucito dall’incontro fra chitarra ed elettronica, una dimensione onirica e dilatata. Continuiamo con i toni bui di “Io ho visto”, il cui crescendo, scandito da una tempestosa concordanza di archi ed elettronica, oltre che dall’alzarsi dell’ottava vocale, finisce per sottolineare la dimensione praticamente definitiva del testo, con quel suo “E poi ho visto l’istante e l’immenso, assordante, accecante silenzio delle anime arrese, tendere gli archi trafiggendo i poeti”. A chiudere la terna ci pensa “Andromeda Maria”, la cui veste scarna (sempre con chitarra acustica ed elettronica in primo piano) accentua, in realtà, la carnalità letteraria del pezzo. Da “Earth Hotel” (2014) troviamo una nuova versione di “Nello spazio profondo” e di “Sempiterni sguardi e primati”, con la prima (ed il suo iconico “E le parole sono pietre ambiziose, vizio di forma innaturale, grondano miele nel vuoto assurdo, siderale”) cadenzata da uno strumming secco e teso che poggia su un dilatatissimo tappeto di synth ed elettronica, e la seconda che si muove languida e sinuosa fra un morbido strumming ed un tenue sfondo di elettronica. La tensione, a tratti mistica, verso l’infinito, accompagnata da una costante sensazione di fuga dalla materialità, ritorna prepotente in “Olovisione in parte terza” (da “H3+”, del 2017), che fa accompagnare quell’incredibile “O forse non ci sei, sei nelle radiofrequenze di passaggio, l’assoluto e il miraggio irraggiungibile” da un arioso strato di warm pad, su cui poggia una struggente chitarra ritmica. A concludere il disco è “Nelle stelle”, tratta da “Dell’odio dell’innocenza”, lavoro dello scorso anno. Qui il tappeto di elettronica e synrh è denso, quasi viscoso, sottolineato dal leggero delay della voce, e, successivamente, squarciato dallo strumming della chitarra, la perfetta veste sonora per un brano che fa di una serie di immagini talmente accecanti da sembrare flash (“Parlami di come sfioriscono gli aerei, parlami di come sia geometrico volare, parlami di come anche vendicarsi può far male. Hai mai visto un incendio gridare? E un idiota cantare?”) la sua quota letteraria. In conclusione, ci troviamo di fronte ad uno splendido breviario di poesia e capacità evocativa in forma di canzone, un percorso acustico che attraversa le pieghe poetiche di una delle nostre penne più visionarie, capace di creare un universo letterario a sé stante, armonico e raffinato, in continuo equilibrio fra onirismo e pragmatismo. 


Giuseppe Provenzano

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