Marcello Murru è uno dei più grandi cantautori che l’Italia abbia all’attivo in questo momento. Non ha la notorietà che meriterebbe, e quello che più conta è che purtroppo solo una parte di un certo tipo pubblico - quello più raffinato, amante del bello, della poesia, del fascino della voce, dei rimandi, delle assonanze – ha la fortuna di conoscere i suoi lavori, i suoi cinque album, la sua produzione. Sardo e nato ad Arbatax, Marcello è testaccino d’adozione e non a caso il suo brano più noto si chiama “Testaccio”, recentemente cantato dall’artista in un cameo del film di Francesca Comencini “Amori che non sanno stare al mondo”; il video del singolo “Diavoli storti”, brano che dà il titolo all’album di recente uscita in digitale, è stato girato proprio dalla Comencini e questo nuovo progetto discografico è stato possibile grazie a un crowdfunding degli amici di Marcello, che si sono “tassati” per consentirgli di entrare in studio di registrazione insieme con il pianista Valerio Vigliar, che ha scritto le musiche e ha arrangiato e prodotto il lavoro. Blogfoolk lo ha incontrato in un caffè di San Saba, non distante da Testaccio, in una di quelle belle mattinate che solo Roma sa regalare. La parola che più veniva alla mente a chi domandava era “poeta”, la stessa parola che tutti ripetono a Marcello Murru, creandogli costante imbarazzo. Glielo diceva anche Lilli Greco che ha creduto in lui e lo ha aspettato e supportato nel momento in cui una brutta malattia lo ha tenuto lontano dall’arte. E prima ancora, a credere in lui era stato Vincenzo Micocci, era stata l’RCA. Nel 1984, con altri due artisti, Marcello ha partecipato anche a Sanremo, presentando una proposta molto innovativa e interessante: “Mondorama”, apprezzata anche da Renzo Arbore. Insomma, una storia affascinante, che abbiamo provato a farci raccontare.
Come nasce una canzone di Marcello Murru?
Ho sempre lavorato insieme, ma le canzoni sono sempre nate da qualcosa ispirata dai miei testi; il rapporto con i musicisti con cui ho scritto i miei brani partiva sempre dalla lettura. Subito dopo accadevano delle cose; sono quindi canzoni che nascono da un insieme, anche se poi è capitato che siano nate da sole. Per esempio in questo ultimo album, l’ultimo brano in sardo, “Liberos”, io l’ho registrato al telefono una mattina: sono andato a prendere un caffè all’alba e tornando a casa a un certo punto mi è venuta una specie di... mi sono dovuto fermare come un cretino e chi mi avrà visto avrà pensato: “quello è un pazzo” e io l’ho cantata dall’inizio alla fine; avevo chiesto a un mio amico di Bitti di aiutarmi a capire se dicevo bene in sardo; lui mi ha preso in giro e mi ha detto: “ma tu sei un poeta e non devi rompere i coglioni: ti puoi permettere tutto; in Sardegna ogni paese ha il suo idioma e la sua cadenza e quindi prenditi le libertà che vuoi” e allora quella mattina io me la sono cantata e quando ho fatto ascoltare il brano a Valerio Vigliar, a quel punto è servito solo ripetere le note che io avevo dato; in genere comunque le parole che scrivo hanno sempre un tempo musicale e c’è sempre un qualche cosa per cui già me le canticchio; sono totalmente atipico.
E come sono nate le altre canzoni di Diavoli Storti? Chi sono i musicisti? come è andato l’incontro con Vigliar?
I musicisti sono: batteria e percussioni Fabio Rondanini degli Afterhours; chitarra Daniele Fiaschi, che negli ultimi album suona sempre con Daniele Silvestri; basso Matteo Pezzolet che io non conoscevo e poi Valerio Vigliar col quale, appunto, ho composto; tutto è nato dal mio incontro con lui. A parlarmene erano stati due discografici che mi dicevano sempre che avrei dovuto conoscerlo. Sono passati dieci, dodici anni e non lo avevo mai incontrato, poi un giorno un amico mi ha invitato ad ascoltarlo, perché faceva un piccolo concerto al Mattatoio; alla fine ci siamo presentati, mi ha detto che viveva a Testaccio, ci siamo fatti un caffé e così è andata. Un giorno mi ha detto: “mi piacerebbe che tu mi leggessi qualcosa” e così gli ho letto un testo che poi è diventato un brano dell’album: “Spingendosi più in là”, quello che parla del bambino che non sapeva ancora nulla dell’amore. Valerio l’ha memorizzato e dopo tre giorni mi ha comunicato di aver avuto un’idea, ma non sapeva se quello che gli avevo letto vi rientrasse. Ci rientrava benissimo e così è inziata e andata.
Mi ricordo di quella volta che a Lilli Greco dissi che volevo fare un disco di reggae a Londra dove mi ero trasferito. Si era sciolto il gruppo sanremese di “Mondorama” e il primo disco da solo fatto con Vincenzo Micocci non era andato molto bene. Ero tornato a Roma perché dovevo prendere dei soldi in RCA. E appunto lo incontrai e mi disse: “ma che stai a fa’” e quando gli ho detto del disco di reggae lui mi ha detto: “ma te che c’entri col reggae? Con le cose che scrivi? ma sei matto?” e allora io gli risposi: “Siete tu e Micocci che vi siete messi in testa questa cosa, ma io voglio tornare a Londra e fare questa cosa”. Avevo pure conosciuto Kym Mazelle, la cantante dei Soul II Soul; aveva un successo enorme in Inghilterra e voleva cantare con me in questo disco. Ma Lilli mi disse: “offrimi un piatto di spaghetti a casa tua stasera e ne parliamo”. E quella sera mi ha convinto.
Una serata nella tua casa di Testaccio, vero?
Sì. Sono arrivato a Testaccio negli anni Settanta e mi sono innamorato di questa specie di isola, anche se poi in quegli anni era una isola molto particolare, un po’ pericolosa, con la banda della Magliana in giro, omicidi, eccetera... però si pagava molto poco, noi eravamo studenti senza una lira. Io mi ero segnato all’Università e facevo Scienze Politiche. Non sono stato un bravo studente e ho dato pochi esami, ma mi ricordo di aver fatto l’esame di Diritto Costituzionale Italiano e comparato con Aldo Moro. Insomma, vivevo con altri studenti e poi ho trovato la piccola casa dove mi trovo tuttora.
E hai scritto la tua canzone simbolo, “Testaccio”, prodotta da Lilli Greco e suonata con Fausto Mesolella.
Sì, I primi provini ... Testaccio era un provino che avevo registrato prima della malattia; ne avevo registrati tre, tra cui Testaccio, poi gli altri brani li ho realizzati dopo. In alcune canzoni suona Fausto e in altre Peppe D’Argenzio. E grazie a “Testaccio” tutto è successo tra me e Lilli. L’avevo all’inizio registrata per strada un po’ come è successo con “Liberos”. Non c’erano i telefonini ma usavo un Walkman. In realtà giravo con dei foglietti su cui mi appuntavo le cose. Per Testaccio cantai ispirato da un brano di un gruppo che si chiamava Balanescu Quartet, che mi affascinava. Cantai sopra questa melodia.
Quando parli di tutto questo sembri ancora stupirti, se ti si chiama “poeta” abbassi lo sguardo con imbarazzo. Sembra quasi che ancora oggi tu dubiti delle parole di Lilli per te.
Quando mi chiamano poeta sì, mi imbarazzo e a Lilli dicevo in effetti che in fondo io non ero nemmeno come tutti gli altri, non suonavo nemmeno uno strumento. Pensa, a proposito, lo sai con chi prendevo lezioni di chitarra? Con Roberto Gualtieri! Era bravo. Viveva a Testaccio anche lui. Ma per tornare a Lilli, lui mi diceva che le mie parole erano già di per sé musica e allora...
Prima di Lilli però era arrivato Micocci ed era arrivato anche Sanremo nel 1984. La proposta di Sanremo era interessante e il pezzo è modernissimo.
Ho pubblicato sulla mia pagina facebook un articolo di Renzo Arbore dell’epoca, che ci considerava una delle proposte migliori: ci metteva al terzo posto; quell’anno vinse Eros Ramazzotti tra le nuove proposte; poi c’era quell’amica mia, che non vedo più: Nicoletta (Patty Pravo) che cantava “Per una bambola”; fra gli ospiti c’era Boy George, c’erano i Queen.
Che cantavano tutti in play back, come voi del resto!
Sì, cantavamo in playback; noi ci eravamo preparati per cantare veeramente, ma poi accadde qualcosa nelle ultime settimane e alla fine tutti in playback; infatti quando sono andato al Tenco ho dichiarato che era la prima volta che cantavo a Sanremo. Ed era così, perché al Festival avevo fatto solo finta.
Era il 1998 quando sei stato ospite alla Rassegna della Canzone d’Autore. Un invito e un riconoscimento per te, arrivato dopo la tua malattia che ha bloccato la tua carriera artistica e dopo il tuo intervento complesso e importante. Molti testimoni hanno raccontato che il tuo set è stato bellissimo. Che ricordi hai?
In effetti, il trapianto avvenne nel ‘97. Nel ‘98 Lilli Greco fece ascoltare al Tenco, in particolare a Enrico de Angelis, del materiale che avevo registrato; lui mi ha voluto sul palco e devo dirti la verità: non avrei potuto andare, perché i medici me lo vietavano... ma siccome sono sempre stato incosciente e Lilli Greco era più pazzo di me, alla fine decidemmo di andare. Dopo l’esibizione ricordo una cosa, anche se non so se fosse vera, ma me la disse Lilli: “guarda che ti hanno fatto cantare quattro brani, mentre al Tenco se ne cantano solo tre, però il pubblico ha risposto con entusiasmo” e allora io gli chiesi: “non è che hai sparso la voce di quello che mi è accaduto?” In effetti ero fragilissimo. Mi ricordo che in quell’anno feci altri tre concerti, poi mi fermai. Uno su invito di Massimo Cotto a Asti; anche lì feci un concerto breve, di cinquanta minuti, e dopo finii all’ospedale, perché il pubblico mi creava una cosa interiore che non so spiegare, ma si rifletteva sul cuore, mi dava problemi cardiaci. Anche a Sanremo sono finito al Pronto Soccorso; poi una volta a Roma ho fatto due giorni di ricovero all’Isola Tiberina... i medici non sapevano dei miei concerti, ma sai Elisabetta: io volevo vivere e non mi importava fosse un giorno, una settimana; la malattia mi aveva colto all’improvviso dall’oggi al domani in maniera gravissima e ho atteso tanto prima dell’operazione...
A proposito di questo e del Tenco, sul social, in occasione degli ottanta anni di Guccini, hai raccontato un aneddoto molto bello su di lui.
Sì, me ne sono sempre ricordato perché arrivare al Tenco e incontrare una serie di artisti di quella levatura era importante e bello. Tutto accadde perché era ospite del Tenco un gruppo sardo (i Tenores di Neoneli) che a un certo punto invitarono a cantare in coro sul palcoscenico e allora Guccini mi avvicinò e mi disse: “perché non ci vai tu Murru che sei sardo?”, ma io non ero tanto per il canto corale; invece alla fine ci andammo entrambi. E quindi da qui l’aneddoto del vino, perché sai che al Tenco c’è questa cosa del bere, ma io non potevo, e non avrei più potuto farlo per tutta la vita.
Guccini mi raggiunse in camerino, mi chiese dove fossi stato nascosto fino a quel momento, stappò un rosso, ma quando dovetti rifiutare lui ci rimase male. Allora Lilli intervenne e gli spiegò del trapianto dieci mesi prima. Guccini posò la bottiglia, mi abbracciò e scoppiammo a piangere entrambi.
Una storia bellissima, Marcello.
E sì. Pensa che poi non lo avevo mai seguito fino in fondo. La mia grande passione giovanile era stato Tenco, perché al Liceo, un giorno, un amico più grande, che andava già all’università, me lo fece ascoltare: lui ne andava pazzo. Si chiamava Mario. Un’altra cosa che mi cambiò la vita fu il primo disco che acquistai a Roma; era un disco di Piero Ciampi che poi mi è stato rubato, nel senso che un amico se lo è portato via da casa e non me lo ha mai restituito. Una volta andai al Teatro Intrastevere – dove adesso c’è il cinema con lo stesso nome - ad ascoltare Ciampi, ma lui non cantò, perché arrivò completamente ubriaco. Mi ricordo di una lite furibonda con qualcuno che non so se fosse un suo manager, o un amico. Era qualcuno che tentava di occuparsi di lui.
Torniamo ad oggi e a questo album. Come è stato tornare a scriverlo?
Io non pensavo di fare un album, anche perché comunque ho scritto tanto in questi anni e poi è tutta la vita che scrivo e non ho mai smesso; scrivo e conservo; credo di avere decine di migliaia di fogli bianchi scritti a penna.
Ma a una pubblicazione cartacea hai mai pensato?
C’è stato un tentativo qualche anno fa ma poi mi sono tirato indietro; io vivo al limite, sono insicuro e quando rileggo le cose non mi convincono. Anche le canzoni hanno una loro provvisorietà e mi viene il dubbio quando le sto cantando: “questa avrei potuto dirla meglio”; nei concerti mi è capitato di cambiare qualche parola.
Ho un rapporto particolare con le parole; non ho ancora capito se sono io a sceglierle, se si fanno scegliere o se sono loro che scelgono me. Paolo Conte mi ha raccontato che Lilli Greco diceva sempre che a volte doveva spiegare ai suoi artisti quello che cantavano. A me però diceva anche: “Sei come Francesco, sei come Paolo”; sempre questi paragoni faceva, ma ho avuto ben altre fortune! Lui però lo sosteneva convinto. La verità è che a volte non sono nemmeno io sicuro delle cose che scrivo; ci sono delle parole che hanno la capacità di unirsi tra di loro sui fogli; scrivo rigorosamente a penna e ormai da anni vado a cercare anche il tipo di carta sulla quale scrivere: una rizla che ha un certo peso. Non so perché, ma io le parole ho bisogno di scriverle e poi di guardarle. Mi piace proprio l’idea di averle davanti a me, scritte. Sono figlio di un’altra epoca.
Marcello Murru – Diavoli storti (Rea/Concerto Music, 2021)
Se si ascolta di seguito e tutto d’un fiato “Diavoli storti”, l’ultimo album di Marcello Murru, ci si sente in mare; in un mare di parole avvolte dalle note. Marcello Murru è il navigante che tiene il timone, anche se ogni tanto sembra quasi lasciarlo andare. I nove brani del disco sembrano onde di questo stesso mare. O, per uscire dalle immagini ed entrare nel merito, più semplicemente possiamo dire di trovarci di fronte a un discorso poetico che non ha inizio e non prevede fine – un discorso in perenne movimento interno e interiore – che note e arrangiamenti sanno fermare con intelligenza e calore. È come se il cantautore sardo ci aprisse delle finestre per guardare all’interno della sua mente e ci consentisse di scoprire, attraverso i suoi occhi, incanti vissuti, ma anche sconfitte, paure, ricordi, disillusioni, decadenze umane e civili. Riusciamo quasi a vederlo mentre osserva il mondo e il cuore e prende appunti sui suoi fogli bianchi di un certo peso, comprati in una vecchia coloreria del centro di Roma. Tutto questo commuove e impedisce anche di entrare nel merito, di analizzare, scomporre e sezionare qualcosa che fluidamente si muove insieme. Come il mare, appunto, che è il migliore esempio di andamento “analogico”. E questo è Marcello Murru: un navigante analogico. Usiamo questo aggettivo, rubandolo a uno dei brani, ma capovolgendone il senso. Perché se è vero che “si vive in digitale, si muore in analogico”, è vero anche che i poeti, come Marcello, sono gli unici che possono permetttersi, in analogico, anche di viverci. E per quanto riguarda la morte, beh, i poeti non muoiono mai. E se i testi di queste nove canzoni vivono da soli senza in effetti bisogno di altro – e questa è una delle rare eccezioni che confermano la regola delle canzoni d’autore, che sono delle opere d’arte solo nell’insieme di musica e parole – è vero anche che le melodie e gli arrangiamenti di Valerio Vigliar (complimenti davvero), vestono perfettamente le parole e, come già detto, permettono di fermare il flusso, di dargli un senso puntuale, brano per brano, in un viaggio che va dalla pioggia su tutti i diavoli storti delle nostre vite complesse, fino ad arrivare a “Liberos”, l’ultimo toccante brano in sardo, così commovente, così trascinante anche solo per il suono della voce. Ed è forse proprio la voce di Murru a fare da collante tra musica, parole e ascolto: una voce roca, non puntuale, talvolta storta anch’essa come i diavoli, e sempre intensa, vera, mai – è questa la cosa stupefacente – in contrasto con la delicatezza e la dolcezza dell’anima da cui proviene. “Diavoli storti” è un album imperdibile, da assaporare di sera, per la strada, appena toglieranno il coprifuoco.
Elisabetta Malantrucco
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