Conclusasi l’esperienza con i Pierrot Lunaire, Arturo Stàlteri debuttò come solista nel 1979 con “André sulla Luna”, un album pieno di fascino che rappresentava la sua personale prosecuzione del percorso di ricerca musicale intrapreso nel 1974 con il polistrumentista Gaio Chiocchio e il chitarrista-bassista Vincenzo Caporaletti. Erano stati anni intensi in cui si erano segnalati al grande pubblico come una delle realtà più innovative della scena prog-rock dando alle stampe l’omonimo nel 1975 e “Gudrum” nel 1977, in cui spiccava la partecipazione del soprano gallese Jacqueline Darby, due album in cui gli stilemi tipici del genere si sposavano con la sperimentazione elettronica. Lo scioglimento della band aprì nuovi orizzonti al pianista e compositore romano che si ritrovò a muoversi in piena libertà tra elettronica, minimalismo e la mai abbandonata musica classica. Il 1979 rappresentò, dunque, un anno importante per il percorso artistico di Stàlteri non solo per il suo esordio come solista ma anche perché conseguì il diploma al Conservatorio di L’Aquila e fece un viaggio di due mesi in India. Al suo ritorno, ritornò in studio per fissare in musica quella forte esperienza e il risultato furono tre brani ed una suite in cinque brevi movimenti. I nastri rimasero però nel cassetto, così come accadde con due tracce provenienti dalle sessions del suo secondo album “… e Il Pavone Parlò Alla Luna” del 1987 che a quel viaggio erano legate dal punto di vista ispirativo. A distanza di oltre quarant’anni dalle prime registrazioni, queste composizioni vedono finalmente la luce nell’album “From Ajanta to Lhasa”, pubblicato in digitale e su Lp da Soave in una serie limitata di trecento copie di cui cento con il vinile di colore arancione. Composto da dieci tracce, il disco vede Arturo Stàlteri destreggiarsi tra diversi strumenti (pianoforte, piano elettrico, organo Farfisa, arpa synth, chitarre elettrica e acustica, bouzouki, balalaika, sitar, flauto, percussioni e clarinetto indiano) con l’aggiunta di Fabrizio Diofebi alla voce narrante in “Studio N.6”. Sia sotto il profilo concettuale che quello prettamente musicale, l’album è sorprendentemente omogeneo nonostante le composizioni provengano da periodi differenti e tutto ciò si sostanzia in un tratto sonoro che evoca la mistica indiana. Il disco si apre con la title-track, una lunga suite rimasta fuori da “… e Il Pavone Parlò Alla Luna” dall’atmosfera meditativa e dalla struttura cliclica, quasi mantrica, con organo e tastiere che tessono una trama sonora le cui coordinate vanno ricercate nell’opera di Terry Riley e che rimanda ai giorni trascorsi Ajanta alla scoperta delle sue pitture rupestri. Arriva, poi, il flash back alle session del 1979 con le sperimentazioni distopiche di “Nu Atrest Lebe Ich Mir” dal “Palästinalied” del poeta alto-medievale tedesco Walther von der Wogelweide che fa da preludio ai cinque movimenti della suite “The Sun” (“8.3 Light Minutes”, “Solar Wind”, “Solar Flare”, “Sun Spots”, “Solar Spicula”), cinque temi di organo e synth in cui i pattern musicali ripetuti rimandano alla meditazione che eleva lo spirito dell’uomo alla trascendenza. Se “Studio N.6” è giocata sulle dissonanze tra corde ed elettronica in cui si inserisce la voce di Fabrizio Diofebi, la successiva “Matmos” si dipana tra atmosfere siderali riportandoci alle sessions del 1987 con “Floating Moon” che anticipa di qualche anno le atmosfere di dischi come “Flowers”, “Low & Loud” e “Trilogy” con il pianoforte di Arturo Stàlteri a raccontarci la bellezza della luna indiana sul mare di Goa. “From Ajanta to Lhasa” è, dunque, un documento prezioso consegnandoci un bellissimo esempio dell’avanguardia musicale italiana tra anni Settanta e Ottante. Da non perdere. Il disco è disponibile su Bandcamp.
Salvatore Esposito
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