
I tuoi esordi come musicista nei primi anni settanta, vantano importanti esperienze come fondatore e tastierista dei “Pierrot Lunaire”, una delle formazioni più curiose della nostra ricca scena Progressive. Dopo due ottimi album e svariate collaborazioni come sessionman per Rino Gaetano e Grazia Di Michele, tra i molti, hai iniziato il tuo percorso da solista… Come e in che contesto è nato il tuo storico debutto discografico “Andrè sulla luna”, c’è un filo conduttore tra questo progetto e le tue precedenti esperienze musicali?

“Blogfoolk” ha recentemente raccontato il tuo nuovo lavoro “Préludes” pubblicato da Felmay Records nel 2016, oggi però spostiamo le lancette dell’orologio indietro tornando al tuo secondo album da solista. Il primo settembre 2017, l’etichetta italiana “Soave” ha ristampato in vinile “...e il pavone parlò alla luna”, un album con una genesi particolare, ascoltandolo si percepisce un’energia nuova, sembra che l’impeto di “Andrè” abbia lasciato spazio a una nuova consapevolezza, vorresti raccontarci cosa ti ispirò e come si sviluppò il tuo secondo progetto?
Album assolutamente non programmato! Dopo il diploma in pianoforte (Giugno 1979), decisi di dedicarmi interamente alla musica classica, approfondendo la tecnica e il repertorio. Mi concessi però una pausa di due mesi e, nell’agosto dello stesso anno, partii per l’India. È stata un’esperienza sconvolgente, non avrei mai voluto tornare in Italia! A Mumbai (a quei tempi Bombay) acquistai tanpura, tabla e harmonium indiano (il sitar lo avevo già, ma non l’ho usato nel disco).

“… e il pavone parlò alla luna”, cosa ti ha suggerito questo titolo? Esiste forse un “concept” o un filo narrativo che lega le sette tracce dell’album?
Una notte (ero a Jaipur), venni svegliato da uno strano miagolio. La mia stanza era a pianterreno e si affacciava su un grande giardino. Incuriosito, uscii dalla camera e vidi un bellissimo pavone, con il collo teso verso la luna (una luna gigantesca); emetteva uno strano suono, quasi un canto ipnotico e ancestrale. Mi colpì moltissimo. Direi che senza dubbio il filo narrativo, a parte pochi brani, come “Morceau” e “Mulini”, è la ricerca di una dimensione interiore libera dai condizionamenti della civiltà occidentale.
Una curiosità; qual è il processo compositivo che in generale adotti in questi primi brani, prediligi la scrittura o lasci anche spazio all’improvvisazione…?
In realtà sono brani molto “pensati”. L’unica composizione quasi completamente improvvisata è “Raga Occidentale”.

No, il disco mi convinceva, infatti lo proposi alla IT e alla Ascolto, ma non suscitò interesse. La Cramps aveva detto di sì, ma poi cambiò idea. La stessa cosa fecero l’etichetta tedesca SKY, la giapponese Belle Antique (che ne aveva tra l’altro già annunciato la pubblicazione sulla rivista Marquee, ma poi ci ripensò) e una label statunitense di cui ho rimosso il nome, che mi fece perdere un sacco di tempo.
Il disco è dominato da pianoforte e organo, ci racconti qualche curiosità riguardo a quelle sessioni, dove e come hai registrato i brani ?
Ho registrato in due periodi e in due luoghi diversi. Tra Gennaio e Marzo incisi a casa mia, e Walter fu il tecnico della registrazione. Tra Maggio e Luglio invece mi trasferii nello studio di Dante Majorana, e lì aggiunsi gli ultimi strumenti. Il lavoro venne però definitivamente mixato solo nel 1987 a Firenze, nello studio di Maurizio Pieri, che mi aveva messo in contatto con Roberto Donnini della LYNX, il quale poi pubblicò il disco, con una copertina da dimenticare.

“Goa di Fronte all’oceano” è un pezzo che ho molto apprezzato, spesso ho un po’ di nostalgia per questi suoni, qui e in altri brani mi sembra di riconoscere chiaramente un Farfisa, è possibile? Quali tastiere hai utilizzato?
Avevo un organo Farfisa VIP 233, che permetteva una grande varietà di combinazioni timbriche. Adoperai anche un organo Crumar 203, un sintetizzatore ARP SOLUS, un pianoforte mezza coda KAWAI e, ovviamente, l’Harmonium Indiano.
Nello stesso periodo Philip Glass utilizzava il Farfisa di frequente se non erro… Tu che a Glass nel 1998 hai dedicato “Circles” in cui esegui suoi pezzi per pianoforte ed elabori nuovi arrangiamenti appositamente pensati per lo strumento, cosa ne pensi quando i tuoi primi lavori vengono accostati al “Minimalismo”? Secondo te al tempo in Italia, c’era una reale consapevolezza condivisa dagli artisti che coscientemente o meno vi si accostavano, o si trattava semplicemente di un’etichetta?

Oltre a Glass, quali sono i musicisti, o più in generale le persone che ti hanno ispirato per questo progetto e che magari continuano a farlo tuttora?
Oltre al già citato Terry Riley, in quel periodo ascoltavo un disco pubblicato dalla SHANDAR, di Vincent Le Masne e Bertrand Porquet, si intitolava “Guitares dérive”. Mi piacevano molto anche le “Inventions for electric guitar” di Manuel Göttsching.
Oggi, come artista maturo e con un bagaglio di esperienze vasto che tocca ambiti più disparati, ascolti ancora i tuoi primi lavori? Riescono sempre a stupirti e magari a insegnarti qualcosa?
Non ascolto neanche l’ultimo disco che ho inciso.
Arturo Stàlteri – ...e il pavone parlò alla luna (Soave, 2017)

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