
"Low And Loud" arriva a breve distanza da quel gioiellino che era “Préludes”. Ci puoi raccontare come è nato questo nuovo lavoro?
Tra un disco e l’altro faccio solitamente passare almeno due o tre anni, perché in qualche modo è quello il mio tempo fisiologico. Questo nuovo disco è nato, però, improvvisamente. Mentre suonavo hanno preso vita queste nuove melodie e, nel giro di una settimana, avevo pronti i brani. Mi sono detto: perché aspettare? Così, sono entrato in studio e in un paio di giorni, o meglio in un pomeriggio, ho registrato quasi tutto e successivamente ho fatto un bel lavoro di postproduzione. Quello che volevo realizzare è un omaggio al pianoforte in tutte le sue sfaccettature, sia dal punto di vista classico con i due omaggi a Pachelbel e Bach, sia da quello personale le riletture di Rolling Stones e Rino Gaetano con il quale ho collaborato nei primi album.
Inizialmente volevo chiamarlo semplicemente “Pianoforte” ma non mi piaceva molto, e del resto c’era già un disco con lo stesso titolo di Susan Chan. Reso in inglese il titolo avrebbe dovuto essere “Soft & Loud” ma il termine low riferito ad un suono rimanda al basso come frequenza e questa cosa mi piaceva di più. Il titolo “Low & Loud” funzionava meglio in quanto è un disco in cui ho sfruttato molto i suoni armonici e poi alcune composizioni presentano lunghe code. Il termine low richiama anche l’album omonimo di David Bowie che è tra i miei preferiti.
Ci puoi raccontare il processo creativo alla base dei brani di “Low & Loud”?
Dal punto di vista compositivo, i vari brani sono nati di getto ed ho deciso di lavorarci poco nella fase di sviluppo, cosa successa già con “Préludes” che però era un disco più elaborato con ventidue brani, ognuno con una sua strada e con la presenza anche di altri strumenti. In questo caso le soluzioni melodiche ed armoniche sono molto più contenute, hanno un filo comune e addirittura ci sono alcuni ritornelli che ritornano come nel caso di “Christmas Day” e “Mon Jardin” che presentano gli stessi accordi, e questa è stata una cosa voluta.
Hai fatto riferimento alla post produzione. Come si è indirizzato il tuo lavoro?
Ci sono solo due o tre brani in cui ho utilizzato anche un altro pianoforte in sottofondo, trattandolo, rovesciandolo e rallentandolo per usare tutte le frequenze. Ho utilizzato un pianoforte Fazioli tre quarti che ha un suono molto robusto e splendidi armonici ed è stato necessario fare in modo che entrassero ancora più in vibrazione.

Quali sono le differenze e le identità rispetto ai tuoi dischi precedenti?
Questo nuovo album è diverso da tutti quelli che ho fatto sin ora, ma ovviamente sono il meno adatto dirlo. Se dovessi individuare dei punti di contatto con il passato, citerei il secondo volume di “Flowers”. Questo disco, infatti, conteneva alcune riletture ed aveva un legame con la musica classica, ma dal punto di vista sonoro, invece, c’è una differenza sostanziale in quanto “Flowers” aveva un suono molto pulito e classico, anche se il pianoforte era registrato più da lontano. In “Low & Loud” c’è un pianoforte dal suono più robusto che suona come se lo avessi in faccia. Ogni nota è molto netta, scandita.
E’ un disco un po’ cupo, e questo non solo nel suono che, secondo me è abbastanza ovattato, ma anche perché riflette le mie paure e le mie nostalgie più di altri dischi. Se pensi all’iniziale “Tristes Vagues” sono onde tristi ed è come se pensassi ad un mare grigio ed oscuro. “La Vertigine del Tempo” racconta della mia ossessione per il tempo. Quando sei bambino questo tempo sembra regalarti chissà quali promesse, qualcuna la mantiene, ma poi ti prende in questo vortice dal quale non riesci a sfuggire e vedi solo questa sorte di buco nero che ti aspetta. “The Quiet Road To Sea” sembra una ninnananna dalle atmosfere irlandesi, ma è permeata da una atmosfera malinconica, la stessa che ritroviamo in “Christmas day” nella quale quale c’è il mio amore per il Natale ma anche quel senso di nostalgia per la mia infanzia. Un altro pezzo secondo me molto cupo è “Another Land” che nel titolo nasconde un omaggio ai Rolling Stones di “In Another Land” di Bill Wyman, contenuta in “Their Satanic Majesties Request”. E’ un brano tutto sul sol minore e il mi bemolle con il pianoforte trattato e rovesciato ad evocare l’oscurità di questo pianeta cupo che ho immaginato. Nell ultime note c’è la citazione di “In The Court of King Crimson” che avevo ripreso già “Flowers Vol.2”. Sul finale anche “Mon Jardin” non è poi così rassicurante con quella sua melodia un po’ ossessiva. Sai, però, sono io a vederla così ma magari a chi ascolta questi brani potrebbero comunicare tutt’altro.
A stemperare la tensione del disco ci sono anche composizioni più leggere?

Avevi citato prima l’omaggio ai Rolling Stones di cui sei notoriamente un grande estimatore…
I Rolling Stone li avevo omaggiati solo una volta con una versione elettronica di “Ruby Tuesday” ma non avevo mai inciso nulla dal loro repertorio in versione pianistica e per questo ho deciso di rileggere “Lady Jane” anche per rendere omaggio a Brian Jones. E’ uno dei brani più romantici dei Rolling Stones e sembra che Jones si sia ispirato ad una composizione del Seicento del grande Jon Dowland. Nella versione originaria c’era il clavicembralo suonato da Nick Hopkins, una chitarra acustica e addirittura una celesta. Era in buona sostanza un brano perfetto da rifare al pianoforte.
La scelta di ricordare Rino Gaetano è, invece, strettamente legata alla tua collaborazione con lui…
Quello di Rino Gaetano è il pezzo sul quale ho riflettuto di più. All’epoca partecipai alle registrazioni dei suoi primi dischi “Il cielo è sempre più blu”, “Mio fratello è figlio unico” e “Aida”, quindi sono tanti i brani a cui ho lavorato direttamente. Non avevo però lavorato nel disco di debutto “Ingresso Libero” dal quale è tratta “Agapito Malteni, Il Ferroviere”. Quando conobbi Rino, ai tempi de “Il cielo è sempre più blu” facemmo alcuni concerti prima di entrare in sala di registrazione

Sul versante della musica classica nel disco spicca “Fantasia su un Tema di J.S. Bach…
J.S. Bach per me è il gigante dei giganti, colui che ha scritto tutto prima di tutti. Nella sua musica c'è tutto il mondo che è venuto dopo. Da bambino avevo il 45 giri di “Happy Flowers” dei Mistici, un quartetto pianoforte, organo, basso e batteria, che rileggeva questa corale del compositore tedesco in una versione pop che sentivo continuamente. Prendendo come riferimento la partitura originale ne è nato uno studio che sfocia poi in un brano mio.
Parlando della post produzione hai fatto riferimento al “Canone in Re Minore” di J. Pachelbel che chiude il disco. Come mai hai scelto di rileggere proprio questo brano?
Partendo dal tema popolarissimo del “Canone in Re Minore” di J. Pachelbel ho voluto fare questo esperimento sostituendo il pianoforte, che è uno strumento percussivo, agli archi dell’originale, il tutto senza modificare praticamente nulla delle partiture originali.

Come proporrai questo disco dal vivo?
C’è un solo brano che crea problemi nell’essere riproposto dal vivo ed è proprio il “Canone in Re Minore” di Pachelbel. In concerto suonerò il disco seguendo lo stesso ordine e poi inserirò una piccola coda con tre preludi dal disco precedente e che ritengo vicini alle atmosfere di questo nuovo lavoro: “Come La Neve” che si avvicina a “Christmas Day”, “Lascio le spine alle rose” che si può accostare ad “Agapito Malteni” e “Gaiser” il mio omaggio all’Islanda che amo moltissimo.
Salvatore Esposito
Arturo Stàlteri – Low & Loud (Felmay Records, 2018)

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