Arturo Stàlteri – Trilogy (Felmay, 2020)

Foto di Pietro Previti
Noto al grande pubblico per essere una delle voci di “Chi Ben Comincia” su RadioTre, Arturo Stàlteri è soprattutto uno tra i pianisti e compositori più colti e raffinati della scena musicale italiana, in grado di muoversi attraverso territori musicali differenti, spaziando dalle radici musicali prog dell’esperienza con i Pierrott Lunaire alla musica classica, passando per quella contemporanea. In particolare negli ultimi anni la sua ricerca musicale si è fatta sempre più intensa con lavori di grande spessore artistico come “Flowers 2”, l’omaggio a Franco Battiato di “In Sete Altere”, l’elegante “Preludes” e il più recente da “Low & Loud”. A quasi due anni di distanza da quest’ultimo, il musicista romano torna con “Trilogy” concept-album che ruota intorno alle simbologie legate al numero tre e che mescola suggestioni musicali differenti da Keith Emerson al Neapolitan Power, da Scarlatta a J.R.R. Tolkien, senza dimenticare i sempre amatissimi Rolling Stones. Abbiamo incontrato Arturo Stàlteri a Roma per farci raccontare dalla sua viva voce la genesi di questo nuovo album.

Parlando del tuo ultimo album “Low & Loud” ci avevi anticipato di aver in animo un disco dedicato al numero tre. Quella idea è diventata realtà con “Trilogy”. Ci puoi parlare di questo nuovo progetto?
Quando lavoro ad un nuovo disco mi piace sempre trovare una traccia extra musicale da seguire, un percorso che mi aiuta anche a comporre. Il tre ha tante valenze da quella simbolica a quella esoterica e la trilogia è solitamente quella che chiude un percorso e così ho pensato che sarebbe stato divertente giocare con questo numero. Ho elaborato alcuni brani che avessero a che fare con il tre sia attraverso tre brani ispirati ad uno stesso motivo musicale o che lo racchiudessero nel titolo. 
Foto di Stefano Albanese
E’ chiaro che è sempre una scusa per poter essere liberi perché non si può essere schiacciati dal motivo che porta a fare un disco. C’è, dunque, un trittico di brani ispirati a Napoli, tre composizioni ispirate ad Erik Satie, dei brani con il tre nel titolo e, poi, l’omaggio a Keith Emerson che, per me, è stato un grandissimo pianista.

Anche lui autore di dischi per piano solo… 
Certo, ha fatto delle cose bellissime sia di musica classica o ispirate comunque ad essa. E’ riuscito ad essere uno dei pochi artisti che ha portato la musica classica nel rock, senza finire per svilirla ma dandole una nuova veste. “Pictures at an Exhibition” di Modest Petrovič Musorgskij con Emerson, Lake & Palmer resta, per me, un capolavoro assoluto. E’ un artista che ancora oggi non è stato valutato per il suo talento. Ricordo che ero ragazzino quando comprai “Trilogy” di Emerson, Lake & Palmer e mi aveva colpito molto questo pezzo che, però, nella versione originale è cantato. Io ne ho fatto una versione per piano solo, partendo dallo spartito ufficiale e ho giocato su quello per farne una versione mia. Ti posso assicurare che suonandolo mi sono accorto di quando fosse bravo e di quanto fosse scomodo dal punto di vista pianistico. Coloro che parlano male di Keith Emerson hanno dei problemi nel capire il talento. Ho visto Emerson, Lake & Palmer al Flaminio negli anni Settana e suonavano “Takus”. Ricordo un assolo di organo di Emerson pazzesco con una serie ribatuti a due mani  che non ho ancora capito come abbia fatto. E’ pur vero che negli ultimi dischi le sue composizioni si fanno meno interessanti, ma nell’album pianoforte ed orchestra c’è tutta la musica inglese del Novecento. Purtroppo era una persona molto tormentata… 

Foto di Enzino Vic
Si può ben dire che nelle tue vene scorra ancora del sangue prog…
Certamente perché per chi ha studiato musica classica il prog rock è l’anello mancante con il rock. E’ il modo migliore per mettere le conoscenze di musica classica nel rock. Ancora oggi lo faccio anche se mi sono ammorbidito. “Trilogy” è sicuramente il disco più prog degli ultimi anni. Acusticamente prog…

Quali sono le identità e le differenze con i tuoi dischi precedenti?
Rispetto agli ultimi due lavori in questo disco sono presenti Federica Torbidoni che già aveva suonato in “Preludes” in un brano e Laura Pierazzuoli al violoncello che non suonava con me da moltissimo tempo. Ho inciso tutti i brani per conto mio in studio con un Fazioli Gran Coda che ho suonato per la prima volta perché in passato ho usato sempre un tre quarti. Aver suonato questo strumento pazzesco mi ha dato grandi possibilità espressive. In casa ho inciso poi gli altri strumenti e successivamente ho lavorato molto sui suoni del pianoforte anche se meno rispetto a “Low & Loud” che è un disco molto più elaborato dal punto di vista tecnico. Quello era un lavoro sperimentale che si inseriva nella scia di “In sete altere” dedicato alle composizioni di Franco Battiato, mentre “Trilogy” è un disco più classico. 

Come hai scelto i brani che compongono le tre parti ideali in cui è suddiviso il disco?
Mi sono trovato ad avere una rosa di brani che sembravano riempire idealmente la durata di un disco. Volevo mettere un pezzo classico, come faccio sempre. Nel precedente c’era l’omaggio a Bach e a Pachelbel e qui ho voluto rendere tributo a Scarlatti. Volevo che ci fosse qualcosa legato al pop e quindi ho scelto Tony Esposito con “Rosso Napoletano” e poi al prog con Keith Emerson. 
Foto di Dario Nardacci
Insomma mi sono trovato con sessanta minuti di musica, quasi senza rendermene conto e ho pensato che potessero completare il progetto. C’è anche un ulteriore omaggio a Keith Emerson, ora posso svelarlo. Finito il disco, dopo tre minuti esatti, c’è una traccia fantasma in cui ho trattato il suono iniziale di “Tarkus” e del loro primo disco omonimo. 

C’è anche un omaggio ad un altro trittico ma questa volta pittorico con “Il giardino delle delizie” che è ispirata all’opera omonima di Hieronymus Bosch…
Negli anni Settanta, quando ero un ragazzino avevo un gruppo di rock duro e ci chiamavamo Trittico del Fieno che era un quadro di Hieronymus Bosch che avevo visto in una specie di pubblicazione con tutte le sue opere. Era un artista straordinario e fuori dal comune. Forse prendeva delle droghe perché realizzava opere visionarie. Questo suo quadro ci ispiro la nascita del nostro gruppo ed allo stesso modo ho fatto con questo brano. Lui faceva questi trittici enormi ed è stato quasi naturale pensare a “Il giardino delle delizie” ma musicalmente non ha molto a che vedere con il pezzo che ho scritto che ha una trama quasi jarrettiana, ben lontana dalla musica del Cinquecento. Bosch lo avevo ritrovato ne “Le notti difficili” di Dino Buzzati, un libro che raccoglie una serie di racconti e tra questi uno narra di un pittore che, di notte, veniva posseduto da Bosch e faceva quadri pazzeschi. Questo brano è stato un po’ l’occasione per recuperare questo ricordo da ragazzo…

Il cuore magmatico del disco è rappresentato dal “Trittico Napoletano”…
Da tempo volevo dedicare qualcosa a Napoli perché ogni volta che ci andavo a suonare qualcuno mi chiedeva di incidere un brano dedicato a questa città. Ho pensato che “Trilogy” fosse l’occasione giusta per farlo e ho scelto di raccontarla attraverso tre brani. Il primo è legato alla Napoli di Domenico Scarlatti, uno di più grandi musicisti di tutti i tempi, vissuto nel momento in cui questa città era il cuore della musica. Tra il Seicento e il Settecento, tutti andavano a Napoli per studiare musica e le cinquecentocinquantacinque sonate che ha scritto sono dei capolavori e sono tutte una diversa dall’altra. Poi volevo rendere omaggio al Neapolitan Power che per me è stato un momento importantissimo per la musica in Italia. 
Foto di Domenico Bressan
E’ stata un’altra parte del progressive che era originalissima. All’epoca al Cenacolo conobbi Tony Esposito che mi diede il vinile promozionale bianco di “Rosso Napoletano”. Devi sapere che il Cenacolo era un posto dove la RCA aveva istallato dei registratori quattro tracce per fare i provini dei dischi. Si fittava lo studio per due giorni e si aveva a disposizione questi TEAC per registrare i provini da far ascoltare successivamente. Lì incontrai Tony Esposito che stava registrando cose nuove e mi diede questo disco, sottolineando come con quel disco voleva dare una svolta alla batteria. Effettivamente è andata così. Da ultimo c’è “Vesuvius”, un brano nato per caso da un’idea di un amico Gianni Colini Baldeschi che fa il medico ma si diletta anche a suonare il pianoforte. Una sera sono stato a casa sua e mi fece ascoltare questo tema un po’ alla Radiohead. La cosa strana è che chi non sa suonare bene il pianoforte solitamente usa i tasti bianchi, mentre lui aveva utilizzato il Si bemolle minore. Mi piacque molto quel tema e l’ho utilizzato per rappresentare il Vesuvio che è un vulcano ancora attivo e, per questo, l’ho messo al centro del disco. In quel brano c’è anche un po’ la mia storia perché mia madre era di origine napoletana, mentre mio padre era siciliano. 

Anche in “Trilogy” non manca un addentellato con la tua passione per la trilogia de “Il Signore degli Anelli” di a  J.R.R. Tolkien con “Tre Anelli ai Re degli Elfi”…
Questo brano è ispirato alla “Poesia dell’Anello”. Chi ha letto la trilogia sa che nel primo volume c’è questa poesia che racconta la storia dei tre anelli e Tolkien sarà presente anche nel mio prossimo disco, lo posso già dire, dove ci sarà anche un pezzo sui Rolling Stones.

Foto di Fabbrio Giuffrida
Qual è il punto di contatto a livello musicale tra questo brano e i dischi che hai già dedicato a J.R.R. Tolkien…
E’ lo stile musicale perché ho sempre pensato alla musica legata a Tolkien come qualcosa che andava molto dietro nel tempo e che rimandasse alla musica rinascimentale, a quella nordica. E anche in questo caso accordi, strutture musicali e melodie legate a quel periodo. “Tre Anelli ai Re degli Elfi” avrebbe potuto stare tranquillamente in “Rings” dove c’era Laura Pierazzuoli al violoncello che comprare anche in questo brano. 

“Brian e Anita” è ispirata alla storia d’amore tra Brian Jones e Anita Pallenberg …
Anita fu il grande amore di Brian Jones. La loro storia fu molto burrascosa e si concluse quando lei lo lasciò per mettersi con Keith Richards, nonostante ciò ha avuto sempre donne che le somigliavano. Anita era un personaggio straordinario e comunque un elemento fondamentale nella storia dei Rolling Stones, infatti, lo stesso Keith Richards ha continuato ad amarla anche dopo la loro rottura. Sembra che, qualche anno fa, quando Anita è morta per epatite contratta a causa della sua tossicodipendenza, negli ultimi giorni di vita è stata a casa di Keith che, con la moglie, l’ha accudita. Musicalmente è un brano dallo stile un po’ anni Sessanta con questo giro un po’ alla Beach Boys perché, in fondo, la loro storia fu tra il 1966 e il 1968 e poi ho voluto mettere le loro voci alla fine. La cosa singolare è che Brian Jones dice: “Il mio futuro nei Rolling Stones” è molto incerto e lo diceva nel 1965, quasi si sentisse che non ce l’avrebbe fatta a stare più con loro. Lui era stato un po’ tradito perché voleva fare un gruppo blues. Brian non aveva una facilità di scrittura come Keith e Mick che presero il sopravvento. 
Foto di Domenico Bressan
Lui scrisse solo le musiche per il film “Mord und Totschlag” con Anita Pallenberg che è molto bello ma si tratta di composizioni non semplici, lontane dalla forma canzone perché non ci sono melodie. 

“Three Pianos” mi ha colpito per la sua costruzione musicale…
E’ dedicata ai Sigur Rós, altro grande amore, ma che negli ultimi tempi, purtroppo, non stanno producendo granché. Ho amato molto i loro primi quattro dischi e avevo riletto “Hoppipolla” in “Flowers 2”. In questo caso mi sono ispirato a “Fjögur píanó” che chiude il loro sesto album “Valtari” e in islandese vuol dire quattro pianoforti. In “Trilogy” sono diventati tre. Naturalmente la melodia è mia, ma ho utilizzato un piano trattato sul loro stile.

Chiude il disco “Anu, Enlil, Ea”…
E’ un gioco per parlare delle tre divinità babilonesi Anu, Enlil, Ea. E’ un'altra scusa per poter giocare sul numero tre. E’ una composizione un po’ misticheggiante dalla trama ipnotica e ripetitiva. 

Prima hai accennato al tuo prossimo disco…
Molti mi hanno fatto notare che ormai sono più di quarant’anni che faccio musica e che sarebbe il momento giusto per tornare al passato, andando a recuperare i pezzi che mi hanno influenzato. L’idea è quella di non fare un disco antologico ma di rileggere a modo mio i brani che hanno ispirato il mio stile musicale. Ci saranno degli ospiti anche di ambito musicale differente. A breve termine ho in progetto un vinile con brani inediti degli anni Settanta. 



Arturo Stàlteri – Trilogy (Felmay, 2020)
La produzione discografica di Arturo Stàlteri si è sempre caratterizzata per un profondo sostrato culturale alla base dei vari dischi che, spesso, presentano alla base un ben preciso concept, sia esso una semplice idea centrale da cui si dipanano le suggestioni che caratterizzano i vari brani, oppure un tema unitario intorno al quale si muovono le varie composizioni, aprendosi a molteplici letture. Non fa eccezione “Trilogy”, album che raccoglie undici brani, di cui due riletture, più una bonus track, incisi con la partecipazione di due eccellenti strumentiste come Federica Torbidoni al flauto e Laura Pierazzuoli al violoncello. L’ascolto svela quella che può essere definita una delle opere più ambiziose di Stàlteri, un ideale viaggio attraverso i significati simbolici del numero tre e ai diversi artisti che allo stesso si sono ispirati, caratterizzato da influenze musicali diversificate che vanno dal prog-rock alla musica contemporanea, il tutto impreziosito dalla peculiare cifra stilistica del pianista romano. Ad aprire il disco è il trittico “Trois Morceaux en Forme de Pomme”, ispirato nel titolo alla notissima composizione “Trois Morceaux En Forme De Poire” di Erik Satie e che racchiude il raffinato minimalismo di “Amour Oublié” in cui spicca il violoncello della Pierazzuoli, l’introspettiva “A Beautiful Solitude” impreziosita dal flauto di Federica Torbidoni e la gustosa “Brian e Anita” nelle cui trame i Rolling Stones incontrano Wim Mertens. L’onirica “Il giardino delle delizie” che nel titolo rimanda all’omonimo dipinto dal pittore olandese Hieronymus Bosch, ci introduce alla sontuosa suite “Trittico Napoletano” in cui incontriamo la musica napoletana dei Seicento della Sonata K466 di Domenico Scarlatti riscritta in “Fantasia su un Tema di D. Scarlatti”, la brillante e magmatica “Vesuvius (Intro, Theme and Variations)” su una melodia di Gianni Colini Baldeschi e la superba versione per pianoforte, flauto e knotdrum di “Rosso Napoletano” di Tony Esposito. Se in “Tre Anelli ai Re degli Elfi (to Bo Hansson)”, il Fazioli Gran Piano di Stalteri ci riporta alle amate pagine del “Signore degli Anelli” di J.R.R. Tolkien, nella successiva “Trilogy” viene reso omaggio ad uno dei brani di punta del repertorio di Keith Emerson. Le gustose “Three Pianos” e “Anu, Enlil, Ea” chiudono un disco prezioso che non mancherà di affascinare quanti vi dedicheranno un attento ascolto.


Salvatore Esposito

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