Bellanöva - Bellanöva (Felmay, 2020)

#BF-CHOICE
 

Del patrimonio musicale di quell’area transregionale di valli e crinali protesa lungo la dorsale appenninica, tra la Liguria e il Po, che dagli anni Settanta del secolo scorso si è iniziato a chiamare Quattro Province (PV, AL, PC, GE), identificandone i tratti culturali comuni in virtù degli studi di numerosi ricercatori, Stefano Valla (piffero e voce), genovese di nascita ma radicato e cresciuto nel borgo di Cegni (PV), e Daniele Scurati (fisarmonica e voce), frequentatore della località pavese e imbevuto di queste musiche fin da tenera età, sono i maggiori esponenti, nonché i prosecutori di un lungo cammino, e di una grande storia, di suonatori di tradizione. In magnifica simbiosi, la coppia eredita un patrimonio notevole di pratica sonora, mantenendo viva e diffondendo consapevolmente la considerevole cultura musicale di questa terra montana con concerti, balli, rituali, feste, stage e conferenze. Il loro è un lavoro non solo di memoria, ma anche di rispettosa innovazione e creazione, che incontra altre esperienze in diversi ambiti musicali facendo dialogare la musica delle Quattro Province con altre musiche di tradizione orale e con la contemporaneità. Del fascino dei timbri elastici del piffero e della fisarmonica che respirano insieme all’oboe d’ebano e bosso, e che cuciono trame armoniche, ritmiche ed improvvisative intorno all’oboe popolare di queste terre, si sono invaghiti Marcello Fera, compositore, violinista e direttore d’orchestra genovese, e il violoncellista trentino Nicola Segatta, figura altrettanto geniale, a sua volta anche compositore e liutaio. Ne sono scaturiti il progetto Bellanöva e l’album eponimo pubblicato dalla storica label Felmay.  La “bella notizia” è la grande capacità di queste quattro individualità di pensare e condurre un processo di confronto, mediazione, riscrittura e reinvenzione a partire dal repertorio vasto e articolato, che è tradizione viva. 
In più, un’eccellente, equilibrata e nitida qualità sonica aggiunge valore a questo lavoro con la registrazione effettuata presso l’Auditorium Roen di Bolzano dal tecnico Simon Lanz.  Con Stefano Valla e Marcello Fera ripercorriamo le motivazioni creative del quartetto.

Questo disco nasce dalla scoperta da parte di Marcello Fera del repertorio di Stefano Valla e Daniele Scurati. Quando è scoccata la scintilla e cosa, in particolare, ha attirato l’attenzione di Fera?
Marcello Fera - Questo disco è frutto di una lunga collaborazione in cui pratica e passione musicale, amicizia ed esperienze condivise si fondono e intrecciano. All'origine di questa collaborazione c'è effettivamente la mia “scoperta”, del patrimonio musicale delle quattro province all'inizio degli anni 2000. La forza e l'originalità del repertorio in mano a Valla e Scurati unitamente al ricco armamentario espressivo con cui viene declinato, mi ha immediatamente colpito e interessato nel profondo. Inoltre il mondo culturale e geografico da cui tra origine questa musica, mi appartiene essendo io un genovese ”terragno” emigrato da moltissimi anni. Da questo punto di vista si è trattato anche della riappropriazione emotiva di una parte delle mie origini. La scoperta di una “parte mancante” di cui conoscevo solo il contesto. Un altro elemento cruciale, in un rapporto con le musiche di popolo che ho sempre vissuto come fecondo e necessario, è l'oralità. Tema decisivo, musicale, politico e antropologico, su cui ci sarebbe molto da dire...
Stefano Valla - Una notte, di ritorno da un concerto, ascoltando alla radio uno spettacolo teatrale sulla resistenza (Sesta Zona) mi sorpresi con molto piacere notando come alcune melodie interpretate appartenessero al mio repertorio. Qualche tempo dopo, Marcello mi chiamò per propormi il progetto che oggi si chiama “Bellanöva”; mi fece molto piacere scoprire l’arrangiatore dei brani ascoltati alla radio e trovare in lui l’entusiasmo, il desiderio di intervenire e condividere idee sulla nostra musica. Sono sempre stato molto contento nell’accogliere proposte e collaborazioni con musicisti di altra provenienza e di altra esperienza. Considerandomi un suonatore di tradizione orale di “oggi” ho sempre cercato di corrispondervi in base alle mie capacità. Già dagli anni novanta con il gruppo “Une Anche Passe” di Montpellier guidato da Laurent Audemard e successivamente con Gianni Coscia, Umberto Petrin e molti altri musicisti ho avuto l’occasione di vivere esperienze che mi hanno arricchito e mi hanno offerto altri punti di vista. 
Con Marcello è nato da subito un legame affettivo molto intenso che ci ha permesso, considerate le grandi differenze di provenienza musicale, di trovare un linguaggio comune che ci ha permesso di percorrere questa strada insieme. 

Nel presentare la vostra musica parlate di “memoria attiva”. Cosa intendete?
Stefano Valla - Tutto è cominciato quando mi sono accorto di proiettare ogni pensiero nel presente, fino ad immaginare più avanti una memoria futura. In sintesi, tutto è intorno all’idea dello scorrere del tempo e nel confronto con la memoria che risulta essere inevitabilmente un gesto del e nel presente. Riuscire a dilatare il tempo: come? Attraversandolo vivendo il rito, la festa; ogni volta immerso in un gesto creativo e atemporale.  Qui nasce il rapporto con la propria memoria che in parte coincide con una memoria collettiva, di conseguenza, ci si pone un’altra domanda: cosa farne? Come viverla? Cominciando a distinguere tra quella passiva, che è solo racconto senza impegno e consapevolezza, e quella attiva. La memoria che obbliga a mettersi in gioco e a trasformare un messaggio del passato vissuto direttamente o meno come essenza nell’elaborazione di un linguaggio e soprattutto di un suono. Questo suono, che si forma in relazione al proprio vissuto ed alla propria esperienza, va però ricostruito e ricreato ogni volta nel presente, altrimenti non esisterebbe più. Oggi abbiamo a disposizione supporti sonori che ci permettono di fruire o di comunicare rischiando però di cristallizzare un pensiero e un’immagine del suono; ma il gesto del presente, creativo, rimane imprescindibile per ridargli ogni giorno la vita. 

I brani da interpretare in quartetto erano potenzialmente tantissimi: come è avvenuta la selezione dei dodici inseriti nell’album, in base a quali criteri? 
Come si sono sviluppati gli arrangiamenti e le scelte riguardo alle linee melodiche principali e di accompagnamento avendo a disposizione due strumenti ad ancia, due ad arco e quattro voci?
Stefano Valla - Abbiamo scelto alcuni brani preferendo quelli che hanno scatenato desiderio e idee da parte di Marcello e altri proposti da me perché rappresentano nei miei sentimenti qualcosa di molto evocativo. Una ricerca di equilibrio tra la forza delle melodie e la scrittura. Un lavoro che insieme a Daniele Scurati e Nicola Segatta ci ha portato a realizzare questo disco. 
Marcello Fera - I brani scelti corrispondono al programma da concerto che abbiamo selezionato nel tempo col quartetto. Tiene conto dei diversi filoni che compongono il ricchissimo repertorio della tradizione in oggetto: le danze più arcaiche, in questo caso due Alessandrine e una Piana, quelle di origine austroungarica come il valzer la mazurca e la polca che altrove hanno dato vita alle varie forme di “liscio”, le musiche della ritualità sociale come la Bella Növa e il “Levar di tavola”, le canzoni e il canto polifonico.

Rispetto a un repertorio di tradizione orale, che ruolo ha avuto nella preparazione e nell’esecuzione di quest’album il rapporto con la musica scritta e lo spartito?
Marcello Fera - Per quanto mi riguarda ho una lunga esperienza di rapporto tra scrittura e oralità. È un tema al centro dei miei interessi con cui nella prassi mi sono confrontato in più occasioni. In questo rapporto la scrittura deve farsi serva delle caratteristiche specifiche della dimensione orale che in fatto di “informazione contenuta” la sopravanza di molto. Occorre anche una forte cautela per cercare di scongiurare quanto possibile l’inevitabile “irrigidimento” con cui la scrittura imbriglia l’oralità. 
In termini pratici comunque io non ho fatto altro che rivestire con le voci per il violino e il violoncello, ciò che era già consolidato nel duo. Ho cercato e trovato gli spazi in cui la trama esistente consentisse di introdurmi con la mia scrittura. Questo vale soprattutto per le danze mentre per le canzoni ho fatto un lavoro molto classico di arrangiatore. Solo in un paio di casi invece ho sentito il bisogno di intervenire sulla parte di Daniele che tra i quattro rappresenta la figura ponte tra oralità e scrittura.

In che modo avete lavorato sui brani legati al ballo? Cosa distingue un approccio ad un ballo di gruppo da un ballo di coppia come la mazurka? E quali sono le specificità nel modo di suonare quest’ultimo ballo nelle Quattro Province?
Stefano Valla - Parlando da pifferaio militante vivente, condizione fisiologicamente inevitabile, ho sviluppato nel tempo idee e tecniche diverse relative ai vari repertori. Dal repertorio delle danze collettive, dove i fraseggi il ritmo e l’energia vanno messi in gioco quasi con un’intenzione rockeggiante inoltrandoci in una dimensione di trance anche per attraversare il tempo dell’esecuzione a volte molto lungo, alle danze di coppia nelle quali, con i valzer e le mazurche, si mettono in gioco pronunce e intenzioni più intime ed in alcuni casi più introverse. Per quanto riguarda le polche o le correnti l’energia e le pulsazioni ritmiche dei fraseggi sono fondamentali per permettere ai ballerini di giocare con i saltini che pur con le ovvie differenze caratterizzano anche lo stile delle mazurche più brillanti! Abbiamo inoltre il repertorio rituale dove la voce del piffero si intreccia nelle versioni più complete con la voce del cantante muovendosi tra un gioco di eteronomie ed una sorta di improvvisazioni. È molto importante lo stimolo reciproco tra la fisarmonica ed il piffero. Non con tutti i fisarmonicisti posso suonare nello stesso modo e con la stessa intenzione sia per l’energia che per la visione estetica. 
Con Daniele abbiamo sviluppato un codice a partire dall’esperienza dei vecchi maestri che mi permette di vivere il suonare in maniera completa rispetto a tutti i nostri repertori ed ai colori possibili che richiedono. Ho vissuto e assimilato “il sistema” che abbiamo portato avanti anche con i miei allievi fisarmonicisti con alcuni dei quali il piffero può esprimersi felicemente. Marcello ha saputo cogliere questo codice “pifferesco" ed inserirsi attraverso la sua scrittura e le improvvisazioni anche durante le sue partecipazioni alle feste.

E i canti come li avete scelti?
Stefano Valla - Considerata la vastità del repertorio canoro che abbiamo a disposizione qui nelle quattro province, a partire dalle polifonie, ai canti più arcaici e solistici, la scelta è andata verso alcuni brani che abbiamo ritenuto più idonei ed efficaci per le possibili interpretazioni cercando di attraversare le diverse forme in funzione anche del nostro organico strumentale e potenziale vocale.  

Chi pratica il ballo oggi nella vostra area? È un fenomeno intergenerazionale? Locale, metropolitano o di entrambi?
Stefano Valla - Oltre al pubblico locale ormai da tempo esiste una forma di “turismo culturale”, che non ha una connotazione squisitamente urbana e nemmeno esclusivamente italiana. È indiscutibile l’apporto di energia e qualità che molti di loro sanno esprimere con la loro presenza.

È musica a ballo ma ormai anche musica da ascolto: le due cose sono complementari nel costruire un brano?
Marcello Fera - Anche se ritengo che il repertorio di Stefano e Daniele sia autosufficiente in entrambe le dimensioni del ballo e dell’ascolto, credo che il senso di tutta l'operazione, per quanto mi riguarda, consista proprio nell’aver spostato l'accento sulla dimensione d'ascolto, di concerto. 
Una trasfigurazione dedicata a questo tipo di ricezione.

Sentite affinità con altre formazioni e progetti musicali?
Marcello Fera - Non saprei, presuntuosamente penso proprio che si tratti di un unicum.
Stefano Valla - Ascolto molta musica diversa pur non essendo uno specialista, dal barocco al jazz; nella musica barocca riconosco una relazione con il nostro repertorio più arcaico che mi evoca, attraverso le sue sonorità, un ambiente familiare; nel jazz e nelle sue evoluzioni improvvisative mi illudo di saper cogliere spunti di libertà. Ascolto molto musica di altre tradizioni della quale ammiro il rinnovamento e la ricchezza di idee. Questo accade con la musica bretone, con quella dell’Auvergne, con quella dal Mediterraneo all’Oriente per fratellanza strumentale e vocale; per esempio la polifonia della Corsica è molto vicina al canto che ho frequentato fin da bambino. Inoltre, seguendo il filo degli oboi popolari e delle infinite declinazioni della fisarmonica nel mondo mi sono reso conto del patrimonio straordinario al quale apparteniamo.

Cosa avrebbero detto i pifferai Giacomo ed Ernesto Sala ascoltando questo quartetto?
Stefano Valla - Il nostro grande maestro Giacomo “Jacmon” Sala (1873-1962), quasi novantenne, sorprendendosi dell’ora tarda ed invitato dai familiari ad andare a dormire, rispondeva dicendo “Stavo cercando di trovare quel bel giro (variazione) che faceva il Brigiotto” (Paolo Pelle 1861-1903 suonatore di piffero). Loro non avevano registrazioni o partiture, solo una grande memoria attiva. Nell’immaginare la reazione dei vecchi maestri alle nuove possibili interpretazioni o arrangiamenti credo che al di là del loro gusto personale potrebbero stupirci per la loro apertura e desiderio di contemporaneità. Non dimentichiamo che è attribuita a Jacmon l’idea di affiancare il piffero alla fisarmonica, abbandonando definitivamente la cornamusa con la quale aveva suonato per tanti anni, aprendosi così alla nuova sonorità e a nuovi repertori senza rinunciare al patrimonio preesistente.  La sintesi ideale è mantenere ed evolvere nello stesso momento. 
D’altra parte Ernesto Sala (1907- 1989), che io ho conosciuto fin dalla mia infanzia, esprimeva con grande malinconia un sentimento di inferiorità, rispetto ai maestri del passato, considerandosi un semplice esecutore senza capacità innovative, pur rimanendo per me una figura fondamentale per la trasmissione del nostro patrimonio musicale. Un esempio importantissimo è il mito della “chiave del suonatore” che rappresenta il riconoscimento del maestro verso l’allievo. Tre erano le condizioni per ricevere la chiave: la conoscenza profonda del repertorio ricevuto, l’accettazione di un ruolo come impegno di vita, e in ultimo la capacità di creare qualcosa di nuovo. L’altro mio maestro, Andrea “Taramla” Domenichetti (1915-1996), quando ascoltò il piffero accompagnato da una tastiera moderna rimase entusiasta dall’effetto e disse: “Queste cose vanno fatte”; d’altro canto il piffero aveva sempre suonato in chiesa con l’armonium. Sono solo coloro che si considerano puristi a non saper cogliere né il desiderio di contemporaneità dei vecchi maestri, né il bisogno di esprimere il nostro linguaggio nel presente.

Che vita ha oggi il piffero nell’area della 4 Province?
Stefano Valla - Il piffero vive ormai da tempo un rinnovato e grande interesse da parte di molti giovani, non solo del territorio delle quattro province, che desiderano avvicinarsi al repertorio e allo strumento, oltre a  coloro che praticano già da tempo e con impegno.

Stefano, quale didattica dello strumento proponi?
Stefano Valla - Al di là di questa esperienza con Bellanova, che considero entusiasmante e importante, rimane presente nel mio lavoro come progetto fondamentale la coppia piffero-fisarmonica che considero in continua evoluzione. 
Il mio sogno è sempre stato, come maestro, di vivere in un quotidiano nel quale si condivide un laboratorio permanente. Non ho mai amato tenere lezioni di un’ora e poi basta. Solamente quando ho fatto parte di una scuola organizzata ne sono stato inevitabilmente obbligato. La maggior parte delle mie lezioni si sono svolte e si svolgono in casa mia senza un limite di tempo prestabilito.  Forse ho voluto ricreare lo stesso ambiente che ho vissuto con il mio maestro Andrea “Taramla” Domenichetti, dove si suonava, si parlava, si mangiava insieme e si immaginava il futuro della nostra musica. La passione nel trasmetterla è figlia del mio bisogno di immaginare una nuova epopea e nuove strade percorribili e di conseguenza ho cercato di motivare, di sostenere chi avesse intenzione e desiderio di cimentarsi in questa avventura. Non ci sono mai stati tanti suonatori, più o meno consapevoli e capaci, nello stesso momento come oggi. Oltre allo strumento ho insegnato, danza, canto, le tecniche di costruzione delle ance per il piffero. Ho trasmesso ai fisarmonicisti il “sistema” di accompagnamento a partire dall’esperienza dei primi esecutori, anche se “accompagnamento” è un termine che considero riduttivo rispetto alla complessità del linguaggio e del codice. L’insegnamento avviene principalmente in maniera orale e volendo con l’aiuto di trascrizioni per chi sa leggere la musica; un percorso che si realizza frase per frase o modulo per modulo, per facilitarne la memorizzazione, prima con la linea fondamentale della melodia e poi con il tempo gli abbellimenti e le variazioni. Parallelamente con la ricerca del suono e dell’intonazione, nella trasmissione orale il canto risulta un elemento fondamentale. Si passa dalla consapevolezza del respiro al controllo del fiato, all’imboccatura e alla tecnica di utilizzo della lingua. È un percorso delicato dove vengono messi in pratica gli stessi elementi tecnico-musicali di altri strumenti a fiato e di altri repertori ma con un codice e pronunce in qualche modo unici. 
I fisarmonicisti sono da me sistematicamente invitati ad apprendere la tecnica di base da un maestro che possa dare loro un’impostazione corretta, per poi insieme a me lavorare sul ritmo, sulle armonie e le melodie con riferimento iniziale ai vecchi maestri inventori di questo genere, con alcuni dei quali ho avuto la fortuna di condividere tempo e feste. Tutto ciò che ho ricevuto e che cerco di trasmettere è basato sulla conoscenza e l’affetto, senza uno di questi elementi il passaggio risulterebbe incompleto e limitato; in questo quotidiano ideale il dono più grande è il tempo. I temi fondamentali sono l’interpretazione, il rapporto con la funzione in relazione al mio agire in pubblico. Tutto questo deve trovare un equilibrio attraverso il corpo, l’energia e la volontà comunicativa senza perdere di vista quel filo intenso che ci collega alla terra. Esiste una dimensione di appartenenza nella quale molti giovani allievi si ritrovano avendo vissuto come me fin da piccoli in contatto con le feste e la musica. Alcuni di loro sembrano aver già interiorizzato il codice prima ancora di saper esprimere in maniera compiuta questa forma musicale. Il nostro mondo non è mai stato chiuso ed ha sempre accolto gli appassionati che si sono avvicinati sia per la musica che per il ballo e il canto o per il piacere della festa.

Come proporrete questo quartetto dal vivo? A quali luoghi, eventi e festival pensate per i vostri concerti?
Marcello Fera - Come detto si tratta di un progetto rivolto principalmente alla dimensione dell’ascolto: quindi stagioni e festival sia di musica folk o classica, sia rivolti a più generi musicali


Alessio Surian e Ciro De Rosa

Bellanöva - Bellanöva (Felmay, 2020)
Da sempre sulla scia dei suoi maestri di tradizione, il “pifferaio” Stefano Valla ha inteso ampliare le possibilità dell’oboe popolare, conservandone “il suono e la voce“ sia in compagnia del fisarmonicista Daniele Scurati, musicista di formazione classica ma imbevuto da sempre della cultura sonora dell’appennino pavese, sia in tanti progetti italiani e internazionali (si pensi al trionfo di fiati di “Une Anche Passe” o più recentemente alle confluenze tra musiche liguri e turche del Mar Nero di “Cabit”). Con naturale audacia la coppia ha incontrato l’archetto di Marcello Fera, compositore direttore d’orchestra, e il violoncello di un altro versatile maestro quale Nicola Segatta, per confrontarsi sul repertorio tradizionale delle cosiddette Quattro Province. Non si tratta di un approccio nobilitante del mondo popolare, quanto di un dialogo costruito su un terreno paritario. Nelle note di presentazione del disco, scritte di suo pugno, lo stesso Fera rileva come la scoperta di questo tipo di musica sia stata una sorta di epifania. Cosicché le elaborazioni e gli arrangiamenti di Fera evitano quel facile rischio di imbrigliare la funzionalità espressiva dell’oralità, perseguendo un inserimento misurato attraverso una scrittura consona alla consolidata prassi strumentale della coppia piffero-fisarmonica. Pensate all’architettura complessa “ab origine”, per i suoi cambi di tonalità, di “Alessandrina in re”, la danza in cerchio, parte del locale repertorio coreutico più antico, che apre splendidamente l’album. “Levar di tavola”, invece, è uno di quei temi conviviali (era di solito suonato alla fine dei pranzi) che esaltano il linguaggio del piffero: negli oltre sette minuti della composizione i tre strumenti concorrono ad elaborare una cornice timbrica melodica, armonica e ritmica intorno alla voce dell’oboe. “Angiolina”, il cui tema è quello della coscrizione e del conseguente distacco dall’amata, è il primo dei brani cantati, il cui l’arrangiamento veste con discrezione il canto a più voci e si concede un finale strumentale. Trionfo polifonico in “Occhi neri”, motivo di solito eseguito in assolo, ma qui organizzato seguendo le procedure polivocali dell’area appenninica: il canto era intonato dalle ragazze nel giorno delle nozze nel lasciare la propria dimora. Con il set “Mazurca di Borgofornari / Mazurca d’Doro” e “Alessandrina in la”, quest’ultima una bella melodia ricca di micro-variazioni, ben si coglie la scrittura di Fera che si è imposto di tenere insieme la propensione danzante e l’accento sulla dimensione d’ascolto. Il “Valzer dei disertori” si compone di una prima parte polivocale (“Fuoco e mitragliatrice) e di una sezione danzante “pifferizzata” con le superbe variazioni del piffero e il resto dell’ensemble in gran spolvero. Valla è l’autore di “La neve va con il sole”, concepita in origine come improvvisazione per piffero che esalta i colori dell’oboe, ma qui in dialogo con il violino. Segue la storia di “Marcellina (Pianta verdolina)”, una canzone appresa da una versione di Zulema Negro di Cosola, messa in musica da Valla e Scurati, alimentata dall’apporto degli archi, che aprono la successiva “Piana bella” prima del potente ingresso di piffero e fisa: un brano che già di per sé possiede un colore unico, ma che diviene emblema della compenetrazione tra mondi e che porta a un livello davvero superiore questa arcaica danza in cerchio. Il timbro scuro del violoncello costituisce il collante armonico insieme alla fisarmonica nella tessitura dello stranòt “Bella növa”, brano cantato da Valla: un altro superlativo ritrovarsi del quartetto. Doveroso il commiato con “Polca di Ernesto”, tema caro al pifferaio di Cegni Ernesto Sala, compimento definitivo di questa unità nella diversità che l’inusitato quartetto, cogliendo appieno l’intimità della accoppiata piffero-fisarmonica, ha saputo infondere al repertorio di una delle tradizioni musicali più importanti della Penisola.


Ciro De Rosa

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