Appunti musicali da Ungheria e dintorni

Le ballate dei briganti raccontano sempre di destini dall’epilogo tragico e pure quella di questo contadino non sfugge alla sorte. La sua camicia e i suoi pantaloni di tela fiorivano di sangue mentre pregava il cielo di nasconderlo affinchรฉ un sole nero non lo inghiottisse. Si nascose nella piana di Acsad, in mezzo ai rami di un albero. Anche da quelle parti per i morti, come dappertutto, suona la campana ma per lui nemmeno quella: non rimase che il mormorรฌo della verde foresta e il tubare del picchio a ricordare il sorriso di Barna Pรฉter. I canti dei briganti della pianura danubiana sulla tipica cetra ungherese (o spinetta), possono contenere musicalmente stacchi, iterazioni o brandelli di citazioni di Liszt o di Chopin oppure essere scalcinate, rozzamente strimpellate, con un canto anche sciatto e dimesso. Restano comunque drammaticamente espressive e non saranno mai transeunte. Come la mitica ballata che ricorda le gesta di Ilju Haramia, brigante macedone che entrรฒ nella leggenda per aver distribuito ai poveri quello che rubava ai ricchi. Parallelamente alle musiche rituali ecco l’aspetto sentimentale e delle relazioni umane in genere, dei matrimoni in primis. Una delle zone in cui sono piรน abbondanti i canti di questo tipo รจ quella che un tempo comprendeva il cosiddetto “Principato di Nitra”, alle pendici del Monte Zabor, nel territorio dell’odierna Slovacchia. 
I testi delle canzoni sono tutti di origine ungherese e testimoniano perfettamente le antiche usanze. Come quelle dove la ragazza piange la fine della sua giovanile libertร , a cui segue la danza lenta dei due fidanzati e una melodia da corteo nuziale mentre ci si incammina, prima verso la chiesa e poi alla casa dello sposo. “Gli alberi sono fioriti, la testa della fidanzata รจ coronata ma i fiori appassiranno, la ragazza deve sposarsi”. E arrivati alla casa inizia la vera festa durante la quale i musicisti cantano frasi ritmiche, umoristiche, nate dalla gioia della danza, le “csujogatรกs ” (chiacchiere). Si ballano “csรกrdรกs” dove la coppia รจ legata stretta, dall’inizio lento e dal finale frenetico, un ballo nato nelle osterie, dalle infinite variazioni improvvisate dai danzatori a partire da qualche formula di base e con l’accompagnamento di strumenti a corda. Oppure la “karikรกzรณ”, tradizionalmente eseguita solo dalle donne e con accompagnamento a cappella o ancora il medioevale “ugrรณs” (ballo a salto), soprattutto nel sud dell’Ungheria, in numerose variazioni sia per coppia che per danzatori solitari. Nelle campagne e nei villaggi rurali, i porcari non disdegnano l’uso di bastoni, scope, asce, bottiglie per l’esecuzione, al posto di cetre e cornamuse. Altre danze come la “hรฉjsza” sono in cerchio e provengono dai “Csรกngรณ” (Ciango) o come la “juniper” che invece introduce il Carnevale a Tatrang, Zajzon e Purkerecz durante i gelati giorni di gennaio. 
I Csรกngรณ sono una minoranza etnica ungherese nella regione Hรฉtfalu, ai piedi dei Carpazi, sconfinata nella Moldavia (nell’attuale Romania). Vivono isolati e senza denaro, sono di religione cattolica e lingua ungherese, abitano un centinaio di villaggi sparsi, almeno dal XIII° secolo lungo il fiume Siret e utilizzano il violino, suonato da un uomo e il gardon suonato dalla donna. Il gardon รจ una specie di violoncello contadino tipico di questo luogo che serve da base ritmica e anche armonica, si battono le quattro corde con un bastone e si solleva la quarta con un dito. A questi canti tra sciamanesimo e arcaica cultura, Bรฉla Bartok e Zoltรกn Kodรกly dedicarono particolare attenzione nel loro appassionato e impagabile lavoro di etnomusicologia. Nei decenni recenti in occidente ne abbiamo udito echi anche negli spettacoli di Goran Bregovic. In tempo natalizio si sentono poi gli “uralas”, canzoni moldave portate di casa in casa o nelle strade al cadere del solstizio d’inverno, soprattutto da bambini, dove le parole conservano evidenti tracce di un mondo in sparizione, l’accompagnamento รจ con corna, campanacci, fruste. Sono canti di questua come ovunque se ne ascoltano, dall’estremo nord Europa al sud Italia e che terminano con la richiesta di latte, uova o pane per combattere dal rigore della stagione. Questi villaggi sono nel distretto di Braศ™ov, che secondo alcuni significa “fortezza” e secondo altri “acqua grigia”, perรฒ nel decennio 1950/60 cambiรฒ il nome in “Cittร  di Stalin”. 
Esiste anche una chiesa evangelica tutta nera chiamata “Biserica Neagrฤƒ ” che un tempo era cattolica e sembrerebbe essere la piรน grande chiesa gotica di tutta l’Europa orientale. Risale alla fine del 1300 e dopo che รจ andata a fuoco nel 1689, ai suoi muri esterni anneriti dal fumo, deve il proprio nome. A proposito di nero, nella cittร  di Brasov c’รจ una straziante canzone popolare dal titolo “Hรกrom รrva” che narra di tre poveri orfanelli di qui, vestiti appunto di nero, riparati sotto un pioppo, con una rana nella mano e pronti a partire per un lungo cammino “Non c’รจ un altro letto se non quello del mare, ne un’altra coperta se non il gioco delle sue onde. Occhi di serpente e di rospo sono la mia sola luce”. Altri ritmi ungheresi si possono ascoltare nel versante danubiano dei Carpazi dove si trova la piccola regione montuosa della Rutenia Sub-carpatica (attualmente nel territorio dell’Ucraina occidentale), una specie di “terra anonima” dove, a causa della peculiaritร  geografica, si possono mescolare con quelli ucraini, rumeni, romanรฌ, yiddish, hutsuli. Il dominio ungherese su questa terra, il cui confine segue con precisione il corso del Tibisco, รจ durata dal 1526 alla fine della prima guerra mondiale nel 1918. Al tempo che dalle terre limitrofe bulgare รจ arrivata la tambura, con le sue corde d’acciaio ha portato canti che raccontano, anche in maniera molto dettagliata, le rivolte popolari e le gesta degli haรฏdouks che combatterono armi in mano le truppe turche a protezione dei cristiani contro conquistatori che con crudeltร  indicibile saccheggiavano e massacravano. 
La Bulgaria ha patito cinque secoli di occupazione turca a partire dal XVI° secolo, che hanno fatto nascere nell’ambito della musica folklorica un gran numero di canti eroici ed epici a testimonianza di una resistenza tenace e permanente contro gli invasori. Canti sovente suonati anche dall’archetto sulle tre corde melodiche e le dieci corde simpatiche della gadulka. Uno strumento che nella sua traduzione significa “brusรฌo”, un avo del violino rinascimentale che assomiglia alla lira calabrese. Accompagnato dall’oboe, originario del mondo arabo, che veniva utilizzato nelle bande militari ed รจ giunto nei Balcani proprio ad opera dei turchi. Nell’Alfรถld, la grande pianura, vive un blues magiaro che narra di un patto da non infrangere con la tristezza, la promessa di mai separarsi, perchรฉ senza malinconia la musica non esiste. Siamo nella sconfinata Mesopotamia ungherese che occupa piรน di metร  dell’intera Nazione sempre tra il Danubio ed il Tibisco. Poi ad est di quest’ultimo, nel Transtibisco, ecco la steppa. Dove nei bivacchi si incontrano dei veri cowboys della Puszta, che portano melodie pentatoniche moldavo-magiare in mezzo a una fila allucinata di danzatori che procedono in mezzo al verde con andatura da millepiedi in una specie di carovana araba. Anche nel bacino pannonico, tra il Grande Fiume e i Carpazi, in mezzo a lรถss, frumento, segale e patate, trovi la multi-culturalitร  sognata da Don Cherry. Perchรฉ qui ritmi asimmetrici balcanici si uniscono a quelli basati sulla musica classica del nord dell’India, in una atmosfera che รจ simile a quella delle scale tipiche orientali. I ragas vanno a nozze con i makams dalle variazioni bulgaro-turche. Il popolo romanรฌ durante il suo cammino ha anche portato in Europa il cimbalom, il cui antenato dovrebbe essere il santur indiano. In Ungheria รจ menzionato la prima volta nel 15° secolo. Viene suonato con bastoncini di legno nelle chiese come nelle bettole. A metร  dell’800 fu un liutaio ungherese di nome Josef Schunda a costruirne uno allargato e munito di gambe e pedale che รจ quello che ascoltiamo ancora oggi. Ho sentito di una leggenda che narra che nei momenti in cui Gesรน Cristo stava agonizzando sulla croce, una donna romanรฌ si avvicinรฒ e iniziรฒ a piangere davanti a tanto dolore. Lui era inchiodato mani e piedi con tre chiodi ma ancora uno ne mancava per ucciderlo. Il piรน grosso da conficcare nel suo cuore, cosรฌ lei lo rubรฒ, senza farsi vedere. I soldati lo cercarono invano e cosรฌ alla fine rinunciarono. Per questo il Signore benedisse tutti i popoli romanรฌ della terra e il loro vagabondare, li preservรฒ dalle malattie e dalla ogni colpa per tutto il corso della loro vita.

  

Flavio Poltronieri 
flavio.poltronieri@libero.it

Nessun commento