BF-CHOICE
Come sono nate le composizioni che hai raccolto in “Tamburo e voce”? Che ruolo hanno i tre brani di matrice tradizionale?
I brani si sono concretizzati in un periodo molto buio nella vita di tutti noi, quello del primo lockdown a seguito della pandemia di Covid 19. Come per tutti i miei colleghi e tutti quelli che lavorano in generale nel comparto dello spettacolo, il nostro lockdown si era già a tutti gli effetti concretizzato da febbraio.
In quel primo tragico periodo le cancellazioni degli eventi programmati erano all’ordine del giorno e il futuro appariva nebuloso ed incerto, cominciava a consolidarsi la consapevolezza che oggi abbiamo che il mondo che conoscevamo prima era cambiato e non sarebbe tornato per molto, molto tempo… E allora ho pensato che era l’occasione giusta per tirare fuori dal cassetto delle composizioni e delle idee per brani, non avevo in mente di realizzare un disco ma semplicemente di darmi uno scopo in un periodo buio, un motivo per alzarmi dal letto la mattina oltre naturalmente prendermi cura della mia famiglia. Mi ha aiutato il fatto di potermi dedicare quotidianamente alla registrazione dei brani, mi ha dato uno scopo, disciplina, enfasi creativa, e nonostante le tante tragedie che si verificavano attorno a noi i momenti nel mio studio casalingo erano pura gioia. Una volta finito il tutto l’ho fatto ascoltare ad alcuni amici ed essi mi hanno spinto a realizzarne un disco, in particolare vorrei citare e ringraziare Riccardo Tesi e Claudio Carboni che subito dopo il primo ascolto mi hanno proposto di realizzarlo con la loro etichetta Visage Music, a quel punto ho inviato tutti i file al mio fidato “Maestro del suono e del missaggio”, Ingo Rau, che vive e lavora a Freiburg in Germania con cui ho già realizzato il primo disco del progetto Masters Of Frame Drums che conosce il suono dei miei tamburi meglio di me e che ha fatto una delle sue magie valorizzando i minimi dettagli dei strumenti e delle voci. Riguardo i brani, nello specifico ci sono 4 mie composizioni originali: “Braci”, “Kira”, “Maremosso” e “Catharsis In Japhtaal”, una composizione di Sirojiddin Juraev (“Qustor-Zulf”) e tre brani che nascono come rielaborazioni di brani tradizionali. “Canto sul tamburo per la Madonna delle Galline” vuole essere un devoto omaggio alla tradizione campana del canto sul tamburo, in questa caso ho scelto il canto tradizionale per la festa della Madonna delle Galline a Pagani, che a mio avviso ha una forza nell’unicità data dalla semplicità (apparente) dell’accompagnamento del tamburo e dalla bellezza del canto che io indegnamente ho riproposto cercando di evidenziarne i suoi aspetti più rituali e ancestrali, di qui la scelta della tonalità leggermente più bassa rispetto come viene normalmente eseguita che nella mia testa richiama unita al bordone i canti sacri bizantini o quelli polifonici corsi e georgiani, questo proprio per mettere in risalto la sua spirituale sacralità scevra di orpelli e densa di mistico significato. “Saltarello” nasce da due testi tradizionali provenienti dall’area valle dell’Aniene nel Lazio,
dove la zampogna è a tutt’oggi uno strumento molto presente, la zampogna che sentite nel disco nasce utilizzando delle registrazioni che ho fatto nelle quali ho unito i bordoni ed i chanter di due differenti zampogne: la zampogna gigante della provincia di Frosinone con i suoi bassi imponenti e la zampogna zoppa dell’area della valle dell’Aniene. Il canto è una mia libera interpretazione dei testi citati sopra, il tutto nella forma del saltarello laziale con il suo ipnotico sei ottavi. “Frunni d’alia” nasce come rielaborazione del celeberrimo brano tradizionale lucano. Riascoltando una delle prime registrazioni nella sua forma originale di canto su Cupa Cupa ho realizzato che il testo è molto più lungo di quello che viene solitamente proposto nelle versioni che conoscevo, e che raccontava diverse storie in una, così ho preso delle strofe dal testo tradizionale che erano a mio avviso funzionali per raccontare la storia di questa fanciulla dandogli un ordine temporale di accadimenti ed evidenziandone la tragicità pur nella assoluta forza e determinazione della protagonista. L’arrangiamento cerca di fondere il linguaggio della musica turca espresso da strumenti come l’oud e il cümbus con quello della musica italiana con l’intento di creare una sintesi fra i due mondi sonori, in particolare l’arrangiamento orchestrale delle percussioni e l’uso dei marranzani vuole risultare come la concretizzazione nella ricerca di una modalità espressiva propria ed autentica seppur influenzata da entrambe le culture.
Negli otto brani suonano con te, in momenti diversi, cinque splendidi musicisti: vuoi raccontarci queste collaborazioni?
Le collaborazioni in questo disco sono nate per caso, non programmate. Durante la fase di registrazione realizzata nel primo lockdown, mi capitava spesso di essere in contatto con colleghi e amici sparsi ai vari angoli del globo e frutto delle tante collaborazioni di questi anni, quindi capitava che si finisse a parlare di musica e allora nascevano idee per brani; in effetti credo di aver collaborato in quel periodo ad almeno quattro dischi di altri artisti, sempre da casa scambiandoci idee e files assieme ad affetto e sostegno reciproco, la musica è un’arte davvero straordinaria in questo senso!
Yinon Muallem è un multi-strumentista di origine israeliana ma residente da tanti anni in Turchia, ha all’attivo molti dischi a suo nome in ambito jazz-world e nel mio disco suona l’oud e il cümbus (una sorta di banjo fretless turco), il suo intervento sul brano “Frunni d’alia” mi ha permesso di creare un ponte attraverso il mediterraneo fino alla Turchia. Matthias Haffner è un collega percussionista specializzato nella musica brasiliana, in particolare sul pandeiro di cui è un noto esponente, ci conosciamo da molti anni vista l’assidua frequentazione di entrambi al festival Tamburi Mundi di Freiburg (GE); il mio brano KIRA è nato proprio come un dialogo fra tamburelli di diverse latitudini, l’Italia e il Brasile, alla ricerca di un linguaggio che fosse trasversale e rimandasse anche agli stili della musica moderna come il drum n’bass e la breakbeat. Vincent Noiret è un amico nonché splendido musicista, suoniamo spesso insieme al suo progetto Nisia (di base in Belgio) che include anche la sua compagna cantante/tamburellista siciliana Emanuela Lodato. Vincent suona il contrabbasso e la chitarra battente e abbiamo arrangiato assieme il mio brano BRACI che ho scritto proprio per questo strumento meraviglioso della nostra tradizione verso cui ho un amore infinito: la battente. Sirojiddin Juraev è un grande maestro della tradizione del dutar del Tajikistan, il dutar è un liuto a manico lungo con solo due corde (du= due, tar= corda) ma in possesso di una tecnica di strumming davvero portentosa. Ci siamo conosciuti in quanto entrambi parte del prestigioso Aga Khan Music Programme; è merito della visione della direttrice Fairouz Nishanova se abbiamo suonato in vari progetti in lungo e in largo per il mondo assieme ad altri straordinari musicisti come i siriani Basel Rajoub e Feras Charestan, la grande virtuosa cinese di pipa Wu Man, la meravigliosa cantante dell’Uygur (Cina) Sanubar Tursun, il virtuoso afghano di robab Homayun Sakhi solo per citarne alcuni.
Il suo brano “Qustor-Zulf” vuole essere proprio un dialogo fra le nostre due culture attraverso i nostri strumenti-simbolo: il dutar e il tamburello. In ultimo dalla Sicilia, il mio caro amico, straordinario sassofonista e suonatore di marranzano Pierfrancesco Mucari, che ha arricchito con i suoi assoli i brani “Braci”, “Maremosso” (quello che sentite all’inizio di questo brano è tutto frutto del suo sax immerso nell’acqua a cui a seguire si aggiungono le mie percussioni) e “Catharsis In Japhtaal”, donandogli quello spazio fra le note che mi è tanto caro, la sua ricerca melodica e il suo gusto mi emozionano ogni volta che riascolto questi brani.
Dal vivo proponi queste musiche da solo: come hai pensato e come vivi questa dimensione solista?
Beh, diciamo che ho fatto di necessità virtù! Il mondo è cambiato e oggi è possibile programmare solo progetti di prossimità, e allora ho pensato di unire la mia ricerca parallela verso il mondo dell’elettronica, questo mi ha portato a spingermi nell’uso creativo degli effetti, dei loop e dei samples sui quali poi innesto la mia voce o le mie parti strumentali. È una dimensione molto creativa ed in un certo senso nuova, va dosata con cura e resa agile per l’uso in live, mi piace avere il controllo di tutta la parte musicale che vado a proporre, mi spinge a confrontarmi con i miei limiti e a elaborare strategie per il loro superamento.
Mi stimola molto l’idea di essere sul palco tutto solo e di gestire il mio live in autonomia cercando di renderlo interessante e godibile, certo un pò mi terrorizza anche ma proprio questo mi da la spinta a combattere contro i miei demoni e le mie paure.
Collabori e hai dato vita ad ensemble di sole percussioni: in che modo in questi contesti esplori e trasformi diverse tradizioni musicali e strumentali?
In effetti nel corso degli anni molti progetti focalizzati sulle percussioni si son avvicendati, a partire dal progetto “Tamburellando” che fondammo una vita fa con Arnaldo Vacca, passando attraverso il quartetto “Tamburello Cafè”, il progetto di percussioni iraniane “Zarbang”… Ad oggi il frutto di tutta questa attività ed esperienza si è concretizzato in una specie di sogno, il progetto Masters Of Frame Drums che riunisce oltre il sottoscritto anche Glen Velez (USA), Zohar Fresco (ISR) e Murat Coskun (TURK/GE); abbiamo realizzato due dischi assieme di cui l’ultimo poco prima dello scoppio della pandemia, quindi non abbiamo potuto ancora suonare i brani dell’ultimo disco dal vivo ma spero riusciremo a farlo prima o poi. Mi interessa molto fondere i linguaggi degli strumenti o delle voci al di fuori degli stilemi tradizionali in un’ottica da musica contemporanea, la composizione mi assorbe moltissimo e il fatto di poter disporre di tali strumentisti mi permette di comporre in assoluta libertà nella consapevolezza che tutto ciò che immagino possa non solo essere recepito ma anche eseguito. L’influenza della musica tradizionale italiana è ovviamente enorme ma essa si è fusa con i miei studi sulla musica antica europea dal medioevo al barocco, con la logica e l’estetica della musica indiana, con la musica persiana, araba e centro asiatica e ultimamente con l’estetica della musica dell’estremo oriente.
Fra le tue attività, ha un ruolo importante quella didattica: come la imposti, da quali tradizioni attingi e quanto è stata importante in questo ambito la tua esperienza personale come allievo?
Il Maestro è un incontro fondamentale nella vita di un individuo che si incammina in un percorso di sviluppo di sé, e io ho avuto fortuna in questo. Arnaldo Vacca è stato il mio primo Maestro di tamburi a cornice, colui che mi dischiuso per primo le porte di questo mondo e le possibilità infinite al suo interno; Djamchid Chemirani mi ha fatto scoprire l’incredibile universo delle percussioni Iraniane con il suo stile fluido e potente, la sua enorme conoscenza della poetica del ritmo, il suo suono gigantesco: Michael Metzler è stato il tramite per la conoscenza degli stili e dell’estetica nella musica classica antica dal medioevo al barocco, e quindi la rielaborazione dei miei strumenti da un punto di vista più “classico” e creativo. Oggi una profonda amicizia mi lega ad ognuno di loro.
Con Michael suoniamo assieme con l’ensemble “Les Haulz et Les Bas”, un progetto di musica antica focalizzato sull’alta cappella (la antica musica di corte più “rumorosa”), una musica fatta di tromboni, ciaramelle, cornamuse e percussioni davvero interessante e divertente da suonare. La didattica è un ambito fondamentale per me, è mio dovere restituire quanto mi è stato dato al meglio delle mie capacità quindi mi dedico molto ai miei studenti, oggi molti di loro sono affermati percussionisti e questo mi gratifica più di ogni cosa. Il mio metodo di insegnamento è frutto dei miei studi e delle mie esperienze sul campo, ad oggi sono focalizzato sulla mia personale interpretazione dei miei strumenti, la metodologia che utilizzo incorpora elementi di musica indiana utilizzati contestualmente ad altri elementi provenienti da contesti classici e tradizionali, come descritto nel mio libro “Il Ritmo della Parola”.
Quali luoghi, festival, istituzioni favoriscono oggi questa attività didattica?
Dopo tanti anni in cui nel nostro paese gli strumenti tradizionali sono stati visti come “figli di un Dio minore” rispetto agli strumenti canonici, oggi fortunatamente le cose stanno cambiando. Il tamburello italiano nel mio sentire merita di sedere assieme ai più grandi strumenti a percussione del mondo come le tabla, il tombak, i timpani, la batteria; è uno strumento ricchissimo di suoni come nessun altro e richiede molti anni di pratica assidua per essere padroneggiato ad un livello accettabile. Sono felice di comunicarvi in anteprima che l’Istituto Superiore di Studi Musicali Tchaikovsky di Nocera Terinese (CZ), che già ha istituito a partire dall’anno scorso un corso di studi triennale all’interno del dipartimento di Musiche Tradizionali consentendo per la prima volta di conseguire una laurea triennale ad indirizzo in Organetto diatonico, Lira calabrese, Zampogna, Chitarra battente, attiverà dal prossimo anno anche Tamburi a Cornice e Canto Tradizionale, equiparando finalmente questi strumenti ai loro simili utilizzati in ambito classico e jazz; i corsi saranno attivi già dal corrente anno accademico in forma di corso propedeutico, ovviamente online. Io sarò il docente incaricato di creare il corso e curare la didattica per Tamburi a Cornice, una gioia immensa per me, soprattutto nel poter collaborare con gli altri docenti del dipartimento di Musiche Tradizionali che sono Antonio Spaccarotella (fisarmonica), Riccardo Tesi (organetto diatonico), Danilo Gatto (zampogna) e Francesco Loccisano (chitarra battente), un vero dream team. Non posso non ringraziare il Direttore Filippo Arlìa per avere concretizzato una visione così ambiziosa e al contempo necessaria.
Sono felice nel poter dare il mio contributo per creare una nuova generazione di strumentisti non più unicamente relegati in gran parte nell’ambito folk, ma con le competenze e le qualità e finalmente anche i riconoscimenti istituzionali per poter vivere la propria carriera di musicisti a 360 gradi; è un grande onore e sono impaziente di iniziare questa nuova avventura.
Sei soddisfatto dell’uso che viene fatto dei tuoi manuali? Hai nuovi progetti in questo ambito?
I miei due libri “Il Tamburello Italiano” (ormai esaurito) e l’ultimo “Il Ritmo della Parola” hanno avuti degli ottimi riscontri e recensioni, quest’ultimo in particolare meriterebbe una diffusione più capillare e soprattutto una traduzione multilingue, in quanto essere disponibile solo in italiano lo penalizza nei confronti di una vastissima platea internazionale che ha dimostrato in varie occasioni interesse per un’opera come questa. Ma grazie all’istituzione del corso accademico di Tamburi a Cornice lo stimolo sarà quello di produrre nuova letteratura sia didattica che divulgativa per questi strumenti che vantano una storia millenaria e utilizzi negli ambiti più diversi, sto proprio lavorando in tal senso alla realizzazione di due nuove pubblicazioni finalizzate proprio per un corso di alta formazione e concepite con la collaborazione del collega ed esperto Lorenzo D’Erasmo: una raccolta di composizioni per tamburi a cornice che racchiude i lavori dei grandi maestri del passato e contemporanei, poi una raccolta di composizioni per tamburello dalla musica antica fino alla contemporanea; stiamo ultimando le stesure e a breve ci metteremo alla ricerca di una casa editrice per la pubblicazione, se qualcuno fosse interessato a pubblicarle si faccia avanti! Infine, l’ultimo sogno nel cassetto, realizzare un libro sulla straordinaria e misconosciuta storia del tamburello in Italia basato sulle mie ricerche che sono già concretizzate in forma di conferenza e che ho avuto modo di presentare in varie università e conservatori soprattutto all’estero.
In ambito italiano, come descriveresti il rapporto con i tamburi a cornice della tua generazione rispetto a quella da cui avete imparato e rispetto ai giovani musicisti che con voi stanno imparando?
Oggi ci troviamo di fronte ad una quantità di informazioni e quindi ad una offerta didattica senza precedenti grazie soprattutto ai supporti digitali, qualcosa che fino a 20 anni fa era davvero impensabile.
Quando io ho iniziato le informazioni disponibili erano pochissime in particolare verso i tamburi a cornice, avevamo i dischi e qualche videocassetta e su quello dovevamo inventarci qualcosa per riprodurre i suoni o i rulli, quindi questo ha portato ad un uso creativo della pratica, ad una ricerca personale che per quello che mi riguarda è sfociata in uno stile che caratterizza me e il mio modo di suonare e che differisce di molto dai miei colleghi della mia generazione o della precedente, che hanno avuto un percorso per certi versi molto simile al mio e hanno sviluppato uno stile proprio come appunto Glen Velez, Zohar Fresco, Murat Coskun. Oggi le nuove generazioni sono molto affascinate dall’aspetto più “funambolico” e virtuoso che possono esprimere, ma questo non è il fine… La musicalità, il senso del ritmo e la sua comprensione profonda, la conoscenza degli stili classici e tradizionali, la capacità di essere al servizio del brano e dell’artista che si accompagna, questo è il metro di misura di un buon musicista. Uno strumento come il riqq arabo ad esempio, che ha avuto uno sviluppo tecnico incredibile nelle ultime decadi o lo stesso tamburello italiano, se spogliati dalla comprensione analitica dell’utilizzo nella musica classica e tradizionale perdono di significato e di suono. Non voglio dire che lo sviluppo tecnico e virtuosistico non siano necessari, vanno solo utilizzati per quello che sono: un attrezzo. La forchetta è un ottimo attrezzo per mangiare gli spaghetti ma per una minestra hai bisogno del cucchiaio, per tagliare serve il coltello; il fatto che si sia in grado di eseguire qualcosa in velocità o in maniera ritmicamente molto complessa non implica che questo vada fatto sempre ed in ogni occasione, in fondo la funzione principale di questi strumenti è l’accompagnamento che è un’arte molto più raffinata e complessa del semplice virtuosismo.
Vuoi raccontarci il tuo rapporto con le tradizioni ritmiche e percussive del Mediterraneo, dell’Iran, dell’India?
Come già detto in precedenza ho avuto e ho una relazione molto stretta con le tradizioni da te citate grazie ai miei studi e ai tanti incredibili musicisti con i quali ho avuto scambi negli anni, ma a mano a mano che procedevo nella pratica ho sentito necessario trovare il mio centro, che è rappresentato dalle percussioni della mia cultura di appartenenza: Il tamburello, la tammorra, il tamburo muto, le castagnette, il marranzano. Ho quindi trasposto tutta la conoscenza accumulata in questi strumenti restringendo moltissimo il mio set e focalizzandolo sulle percussioni Italiane e del mediterraneo sulle quali studio e sperimento incessantemente.
Il fatto di aver studiato la musica classica iraniana, indiana e mediorientale mi ha fornito gli strumenti per comprendere questi stili musicali e viceversa mi ha spinto a lavorare sulle soluzioni tecniche per accompagnare queste musiche ad esempio con il tamburello e nel contempo a sviluppare diverse soluzioni tecniche e stilistiche su questo e su gli altri miei tamburi come il riqq, il bendir, etc. Posso dirti che in realtà sento i miei strumenti (tamburello, tammorra, bendir, riqq, castagnette, tar…) come l’emanazione di un unico strumento, nel senso che i concetti tecnici e compositivi che ho sviluppato posso applicarli indistintamente a tutti, senza disconoscerne il linguaggio tradizionale ovviamente; la tradizione è il punto di partenza, sempre, indissolubilmente. Partendo da questo presupposto ho potuto approcciarmi ad altre culture molto distanti come quella cinese o quella dell’Asia centrale sempre mantenendo la mia identità; alcuni amici musicisti di tanto in tanto scherzosamente mi chiamano “talebano” dei tamburi a cornice… io credo semplicemente che questi strumenti non hanno limiti se non quelli autoimposti talvolta anche per scarsa conoscenza, o poca pratica o pigrizia. Se proprio devo essere etichettato allora chiamatemi pure tamburellista, per me non ha un senso riduttivo o dispregiativo, tutto il contrario! … e sono fiero di poter rappresentare all’estero nel mio piccolo oltre me stesso anche la mia cultura, nell’intento di presentare la tradizione non come un genere cristallizzato ma bensì utilizzandola come una piattaforma di partenza attraverso cui approcciarsi all’altro, l’albero dalla chioma più bella e mobile è quello che ha radici solide e ben piantate.
Nei prossimi mesi, con quali musicisti sarai in sala di registrazione e con chi ti vedremo in concerto?
È una domanda alla quale ad oggi non so rispondere, francamente… ho molti progetti aperti e moltissimi fra concerti, tour e masterclass cancellati che forse saranno ripresi, lo spero di cuore per me e tutta la categoria funestata da questa devastante pandemia. Di sicuro appena possibile riporterò in giro il mio spettacolo in solo suonando i brani del disco e altro materiale del mio repertorio, per il resto si vedrà; per ora mi dedico alla famiglia, all’insegnamento e alla mia pratica quotidiana, un passo alla volta….
Andrea Piccioni – Tamburo e voce (Visage Music, 2020)
Nello stesso tempo in cui ci riconduce ad alcuni passi fondamentali delle tradizioni musicali del nostro paese, Andrea Piccioni, nella splendida sintesi del titolo dell’album “Tamburo e voce”, ci spinge verso molto altro. Non solo geograficamente – attraverso coordinate che si irradiano dal Mediterraneo e raggiungono Sud America, Nord Africa e Medio Oriente – ma anche programmaticamente. Cioè suggerendo un percorso di idee, dentro il quale si condensa la sua visione e la sua passione per una musica inclusiva, ancorché sedimentata attraverso un’esperienza di studio e ricerca che qui deposita frutti meravigliosi. Ciò che emerge dalla dettagliata intervista, nella quale l’autore propone un’utile riflessione su procedimenti, processi di scrittura e produzione dell’album – la cui idea germinale ricorda ahinoi anche il problema della pandemia e i suoi riflessi sui musicisti – è la linearità e l’efficacia della sintesi. A questo si aggiunga la sua rilevanza non in quanto epilogo, ma in quanto processo. È la traiettoria che definisce l’esito, modellandone i tratti e componendone i significati in relazione all’esperienza. In questo caso, si potrebbe dire, l’esperienza si sorregge sulla competenza. E Piccioni ci dimostra con questo album sincero e preciso, ricco e snello, veloce e calibrato, che occorrono idee chiare, occorre dichiararle a sé stesso prima di tutti e modellarle in musica. L’ascolto degli otto brani che compongono “Tamburo e voce” ci suggerisce una composizione limpida, imperniata sull’elaborazione del vuoto, misurata dalla distanza di chi sta momentaneamente fermo, elaborata come dentro un processo rituale, dal quale trarre ragione, metodo, tempo, movimento, pienezza, chiarezza. Come emerge dall’intervista, la composizione lo incunea in un ritmo integerrimo, grazie al quale gli elementi musicali assorbiti cominciano a sistemarsi, a prendere posto, auto-regolandosi in un processo di graduale linearità. Non importa definire provenienze o ordine tra i dati che si incastrano nei brani. Ciò che conta è comprendere la loro armonia e, di conseguenza, testare la solidità contenutistica, sia delle parti che dell’insieme. In questo modo il percorso porta a un disco intrecciato a una profonda coerenza “grammaticale”, che non guarda in modo esclusivo al passato, né al presente, ma si stende con forza su un metalinguaggio contemporaneo. Ovviamente il fulcro di questo assemblaggio è proprio l’autore, nello stesso tempo propulsore e ricettore, che ricava l’equilibrio necessario a ogni nota e battito proprio dalla libertà espressiva entro cui inquadra l’intero processo. Questo è il motivo per cui “Canto sul tamburo per la Madonna delle galline”, l’omaggio alla musica dei devoti di Pagani, condensato con tammorra, castagnette, voce e samples, dialoga organicamente con composizioni originali come “Kira”, “Catharsis on Jhapitaal” e “Qustor”. Si tratta del primo brano tradizionale che incontriamo in scaletta e, in virtù (anche) di questo, ci suggerisce una delle chiavi di ascolto dell’album, attraverso la doppia prospettiva e il doppio approccio della reminiscenza e della metamorfosi. I brani originali – tra i quali spiccano le due perle in apertura “Braci” e “Maremosso”, accomunate dalla presenza del sax soprano di Pierfrancesco Mucari – schiudono un orizzonte più profondo, che si staglia (grazie anche alla presenza di una varietà misurata di strumenti sia melodici che ritmici) oltre la sperimentazione e la reinterpretazione di musiche tradizionali di alcune aree del nostro paese. Rientrano in quest’ultima categoria “Frunni d’Italia”, modulato dal canto popolare sul tamburo a frizione, e “Saltarello”, nel quale Piccioni fa confluire due brani di tradizione orale della valle dell’Aniena. Se in quest’ultimo l’ambito sonoro, riproposto con voce, tamburello e samples, richiama in modo più diretto quello delle tradizioni di origine (echeggiate anche dalla presenza di due tipologie di zampogne registrate nell’area), in “Frunni d’Italia” l’autore disegna un profilo più originale, marcandolo con il segno composito di più percussioni (tamburello, davul, tamburo, castagnette, marranzano ed elettroniche) e le linee melodiche, morbide e fluenti, di oud e cümbüs, magistralmente eseguite dal musicista di origini irachene Ynon Muallem.
Daniele Cestellini
Foto di Ellen Schmauss, Paul Bothén e Daniele Butera