Zara McFarlane – Songs of an Unknown Tongue (Brownswood Recodings, 2020)

“Songs of an Unknown Tongue” è un album inaspettato ma accolto a braccia aperte, un disco che dimostra la versatilità espressiva di una delle artiste più acclamate della scena Londinese. Una produzione atmosferica, fitte trame ritmiche e sintetizzatori - talvolta energici talvolta ammalianti - dipingono paesaggi variopinti su cui spicca il protagonista canoro. Zara McFarlane è una delle voci più apprezzate del jazz inglese contemporaneo, vantando collaborazioni con alcuni dei musicisti di spicco della scena come Moses Boyd, Gregory Porter e Shabaka Hutchings. Nei tre album precedenti la McFarlane ha sedimentato uno stile coerente e personale fortemente radicato nel jazz urbano inglese, genere che nell'ultimo decennio è costantemente cresciuto in popolarità, soprattutto nella capitale. Ma “Songs of an Unknown Tongue” vira prepotentemente dal canone che la cantante aveva plasmato, abbandonando le terre del jazz per le fatue atmosfere del cantautorato di stampo elettronico-ambient. Se è Zara a tenere le redini, sono i due produttori Kwake Bass e Wu-lu a trainare il carro con cui percorre stili prima inesplorati. La matrice ritmica del disco è invece la musica giamaicana, riscoperta in un viaggio di incontro col passato che la cantante ha intrapreso nel 2018. Ballate eteree con armonie caleidoscopiche si alternano quindi a canzoni che, senza esagerare, sono pervase da ritmi più incalzanti e prepotenti. “Everything is Connected” trasuda calma nel suo divenire lento su un beat dub e un tappeto armonico inusuale, da cui spiccano voci e armonie cullanti e tridimensionali che si mescolano con i toni della tastiera. Troviamo la stessa attitudine in “My Story”, dove le voci volteggiano ariose creando intrecci pittoreschi e altri più tetri, spinte da un beat che si palesa energicamente solo nella seconda metà. Un simile scenario viene ulteriormente valorizzato in “Saltwater”, dove la performance della voce principale è particolarmente brillante. Più intensi sono invece brani come “Black Treasure” in cui il ruolo della sezione ritmica diventa essenziale nel procedere della canzone che non perde tuttavia il suo passo pacato. Di particolare interesse è la tessitura ritmica di “Run of Your Life”, dove un beat intricato ma diluito guida la voce, che inciampa su se stessa in un tunnel di riverberi ed echi. Una fantastica mescolanza di sintetizzatori introduce “State of Mind”, poi interrotta dalla batteria che irrompe nella stanza all'improvviso, spezzando il procedere consistente del resto dell'album. Verso la chiusura troviamo “Roots of Freedom” un più palese tributo alle radici giamaicane della cantante, accompagnata da un basso profondo e da una batteria reggae che organizza il cluster dei suoni ambient, marchio di fabbrica di “Songs of an Unknown Tongue”. Il disco è magnificamente impacchettato, coerente nel suo sviluppo sonico ma anche nella scelta grafica della copertina, che sottolinea ulteriormente l'ariosità e le radici della musica. Nonostante il cambio di stile, Zara McFarlane si dimostra una cantautrice versatile nonché un’ineccepibile cantante, riuscendo a districarsi con grazia in scenari nuovi e a volte contorti. L'unico difetto si può forse trovare nei testi, che nonostante l'inarrestabile potenza evocativa della musica peccano di eccessiva letteralità e potrebbero beneficiare di un approccio più metaforico e velato. Anche cercando il pelo nell’uovo, “Songs of an Unknown Tongue” rimane un album solido, incredibilmente interessante e piacevolmente prodotto. Un disco che deve essere apprezzato con equipaggiamento di qualità per rivelare il suo innegabile potenziale sonoro, sprecato su una cuffia economica o lo speaker di un cellulare. Con questo lavoro, Zara McFarlane ci lascia piacevolmente perplessi, confusi e incuriositi su cosa potrà offrirci in futuro: sarà jazz, cantautorato ambient o - perché no - il figlio del loro incontro? 


Edoardo Marcarini

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