Tim Buckley – Live at The Electric Theatre Company 3-4 May, 1968 (Edsel, 2019)

Tim Buckley ha davvero saputo far entrare il mare in un bicchiere e dobbiamo trattare con cura e rispetto questi cimeli che oggi sono quello che di più prezioso ci resta di lui, perché probabilmente nelle canzoni mise tutto il meglio che custodiva dentro se stesso, tutta l’energia che aveva per opporsi al proprio mal di vivere. Per raggiungere queste altezze e questi abissi ha dovuto, come evidenziano i fatti, dare in cambio la sua stessa vita. I suoi mutamenti e la sua progressione artistica furono impressionanti, nonostante arrivassero uno di fila all’altro, ogni disco era come il resoconto di un intero periodo dell’esistenza ma i conti non tornano se gli anni in cui sono compressi risultano talmente pochi. Oggi possiamo analizzare, se vogliamo, l’urgenza di tutto questo flusso creativo ma nessuno ha mai potuto conoscere quanto il suo tempo bruciasse, nemmeno lui che ne sentiva solo gli effetti, nelle siringhe e nella perenne ispirazione allo zenith. La sua sperimentale voce di chissà quante ottave e il suo canto visionario dal baritono al falsetto sono un’orgia e una sinfonia mescolate insieme, comunque ventotto anni sono davvero troppo pochi per una vita. Oltre l’infinito, il caos, l’assoluto, la preghiera e l’utero della Canzone della Sirena non c’è più niente di umanamente immaginabile. Otto anni durò l’intera sua carriera e nove dischi! Ascoltati in successione di date e inseriti cronologicamente i numerosi concerti pubblicati postumi c’è la sbalorditiva rivelazione di un libro letto tutto d’un fiato. E siamo ancora qui a scoprirne pagine non consultate, cinquanta anni dopo! A chiederci di cos’era composto l’istintivo senso dell’armonia della sua voce: aria, fumo, polvere o gas? Le stesse componenti che si trovavano nel sassofono di plastica di Ornette Coleman! Questo disco doppio prodotto qualche mese fa negli Stati Uniti per la Manifesto Records arriva adesso anche in Europa grazie alla Edsel. Siamo all’inizio del 1968, dopo le prime deludenti sedute di registrazione del terzo disco della sua discografia “Happy Sad” a marzo. Tim, a ventuno anni, ha già sentenziato il suo addio al folk e il suo benvenuto alla sperimentazione. Il cd di questo concerto senza fronzoli, con le sue improvvisazioni, il fruscìo di fondo (tipico dei riversamenti nelle audiocassette dell’epoca, fastidioso nei momenti più delicati), la sua scaletta a tratti sorprendente e l’assenza del suo indispensabile chitarrista Lee Underwood, evidenziano la casualità della registrazione di una serata non destinata in origine ad essere ricordata (e tanto meno ad essere pubblicata), con soli il fido Carter C.C. Collins alle congas e un bassista di cui addirittura non si conosce neppure il nome. E’ la registrazione del 3-4 Maggio 1968 a Chicago, solamente due mesi prima di quella leggendaria nella londinese Queen Elizabeth Hall del 10 Luglio (anch’essa documentata postuma nel 1990 nel doppio Dream Letter) e in soli due mesi nessun musicista sarà lo stesso e solo quattro titoli rimarranno in scaletta. Ovvero Hi-Lili, Hi-Lo, scritta da Helen Deutsch e Bronislaw Kaper nel 1952, Dolphins di Fred Neil (alla cui registrazione originale nel 1966 sia Tim Buckley che il suo amico/paroliere Larry Beckett erano presenti in studio), Happy Time, che ritroveremo l’anno dopo in Blue Afternoon e infine Wayfaring Stranger, tradizionale che non apparirà mai in un disco finché Tim sarà in vita*. Va inoltre notato che a Londra arriverà senza bassista e al gruppo si aggregò nientemeno che Danny Thompson, all’epoca ancora in pianta stabile nell’inesauribile laboratorio della Blues Incorporated di Alexis Korner e agli albori degli altrettanto stupefacenti Pentangle. Dopo il solitario inizio con Sing a Song for You, si ascoltano Danang che in seguito diventerà parte del terzo movimento di Love from Room 109 at the Islander on Pacific Coast Highway e l’autobiografica The Father Song che parla di come egli poteva trascurare suo figlio Jeff per concentrarsi sulla musica. Questo titolo non apparirà mai più in futuro e questa è l’unica occasione di ascoltarlo dal vivo, lo si può trovare assieme ad altri, ad accompagnare le immagini di un oscuro film di quello stesso anno intitolato Changes**. Look out Blues è un inedito strumentale con poche liriche alla fine, Green Rocky Road/Hush, Little Baby invece un collage della durata di oltre otto minuti del brano di Bob Kaufman/Len Chandler unito al tradizionale arrangiato da Buckley. Troviamo poi altre due interpretazioni dal canzoniere di Fred Neil, Looks Like Rain e una improvvisazione attorno a Roll On Rosie che erano state registrate dal loro autore solamente nell’ottobre dell’anno prima, all’interno del disco Sessions. A completare la scaletta del concerto di Chicago ascoltiamo infine una improvvisazione attorno a Sally Go Round the Roses (che in seguito riprenderanno anche i Pentangle), la tribale Gypsy Woman in cui la voce allucinata urla, geme e si contorce come una spirale fino ad avvolgere e soffocare e una lunga versione di Big River di Johnny Cash. La prima volta che sentii parlare di Tim Buckley fu quando qualcuno lo citò come fonte di Alan Sorrenti all’epoca della registrazione del suo capolavoro Aria ma a quel tempo i suoi dischi non si acquistavano facilmente in Italia. In campo di canzone d’autore qualche accostamento lo si trova con l’estensione vocale formidabile di Shawn Phillips ma Tim Buckley contrariamente ad Ulisse si abbandonò infine all’abbraccio e al canto della sirena e chi guarda oltre il muro ed esce dal proprio sogno, sacrifica all’impossibile il proprio equilibrio, si incammina verso il buio, il vuoto e il silenzio, spogliando del significato le parole e la dissonanza lo chiude in una conchiglia. Il tesoro lasciato da Tim Buckley è inestimabile e anche interpretarlo non è cosa da poco. L’abbagliante capolavoro delle sue canzoni è spesso risultato irresistibile per molti, negli anni ricordiamo le versioni di Brendan Perry con o senza Dead Can Dance, Fairport Convention, This Mortal Coil, Sinead O’Connor, Robert Plant, Linda Ronstadt, Brian Ferry, John Frusciante, James Yorkston, Eugene Chadbourne, Chrissie Hynde, Mark Lanegan e una miriade di altri tra cui in Italia la più conosciuta è Alice che nel 1992 inserì Blue Melody nel suo disco Mezzogiorno sulle Alpi.

Flavio Poltronieri

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* Tradizionale americano, talvolta anche “I Am a Poor Wayfaring Stranger”, il cui testo ripreso da un libro di canti religiosi del 1858, narra delle pene che si incontrano durante il viaggio della vita e della ricompensa nel ritrovare i propri cari infine in Paradiso. Fu divulgata nel 1891 da Charles Davis Tillman nel proprio “Survival” (canzoniere per arpa sacra) e apparve su disco la prima volta nel 1944 ad opera del folk singer Burl Ives. Molti altri l’hanno interpretata tra cui Pete Seeger, Joan Baez e Neil Young.
** Diretto dal regista Hall Bartlett, trattava le esperienze dei giovani dell’epoca e l’attore più noto della pellicola era Jack Albertson. Nel film si ascoltano le canzoni edite di Buckley “Morning Glory”, “Once I Was”, “She is” e le inedite “Wildwood”, “Instrumental 1”, “The Prize”, “Instrumental 2” e “I’ll Be the One”

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