Silvio Rodriguez – Para La Espera (Ojalà, 2020)

“Para La Espera” segna il ritorno del cubano Silvio Rodriguez, il maggior cantautore di lingua spagnola. Sono passati cinque anni dal notevole “Amoríos”, raccolta di canzoni scritte nel corso della carriera e fino ad allora mai pubblicate su disco, ma spesso presenti nella scaletta dei concerti oltre che nelle ormai rarissime cassette prodotte prima dell’esordio ufficiale del 1975; nella tracklist di “Amoríos” spiccava una bella resa della quasi mitica “Tetralogia de Mujer con Sombrero”, originariamente datata 1970, che componeva la prima incisione del trovador di San Antonio de los Baños. Il ventesimo lavoro in studio del cantautore è, per espressa volontà dell’autore, disponibile solo in forma liquida, su tutte le piattaforme digitali, e ci riconsegna un musicista in grandissima forma, come autore, chitarrista e cantante, con la sua caratteristica voce tendente alle ottave più acute, un po’ più flebile ma sempre assai affascinante. L’album è stato anticipato da tre singoli, tra cui “La Adivinanza” e “Noche sin fin y Mar”, destinate a diventare dei classici del repertorio di Rodriguez, ancora attivissimo nei concerti dal vivo, in patria e in tutti i paesi latini. Compongono questa raccolta tredici brani, di cui uno strumentale, alcuni dei quali già testati nelle esibizioni live degli ultimi anni come la bellissima e già citata “Noche sin Fin y Mar”, dedicata al cantautore spagnolo Luis Eduardo Aute, recentemente scomparso. È un ritorno alla formula “chitarra-voce” che ha reso inconfondibile il sound di questo incredibile artista, venerato in tutta l’America Latina al pari di un divo del fùtbol: ultimo disco in veste acustica fu il bel “Descartes” del 1998, apparentemente composto da out-takes dei tre dischi precedenti (la trilogia “Silvio”/”Silvio Rodriguez”/”Silvio Rodriguez Dominguez”), ma di gran lunga superiore ad almeno due dei tre. Le canzoni di “Para la Espera” sono scritte e incise negli ultimi anni (tutte: “buona la prima”, dice Silvio), sorta di provini che avevano però una parvenza di compiutezza; alle parti di voce e chitarra sono state aggiunte successivamente alcune seconde voci e poche e minimali parti di basso e piccole percussioni, tutto suonato da Silvio medesimo. Difficile individuare quali canzoni siano migliori: non ci sono riempitivi e il disco scorre in maniera cangiante tra le atmosfere tipiche del Silvio prima maniera (“Los Aliviadores” o la breve “Una Sombra”), i ritmi negri di “Si Lucifer Volviera al Paraíso” o “Danzon Para la Espera”, la valse cadenzatissima della meravigliosa “Modo Frigio” , la rivelazione di una tecnica chitarristica ancora cristallina (“Aunque no Quiero, Veo che me Alejo”), il blues di “Conteo Atrás” e “Viene la Cosa”, a “Jugabamos a Dios”, uno dei capolavori dell’album, in cui Silvio sembra una versione latina del miglior Don Mc Lean. E poi, i testi: i giochi dei bambini, lo scorrere del tempo, l’attesa, l’aldilà, una bizzarra figura di diavolo che vuole tornare ad essere angelo, e la creazione di immagini spesso oniriche e inusuali che, unite ad una grande attitudine a manipolare la lingua (rima, metrica, assonanze, figure retoriche), hanno fatto guadagnare a Silvio Rodriguez lo status di poeta. Unica concessione alla ”canción protesta” il testo di “Viene la Cosa”, dove la “Cosa” sono le brutture che hanno caratterizzato un passato che qualcuno vorrebbe riscrivere e a cui bisogna porre argine in ogni modo. Per concludere, un Silvio intimo, rilassato, senza scarpe, come nella illustrazione di copertina, che consegna agli ammiratori il suo miglior disco da almeno vent’anni a questa parte. 



Gianluca Dessì 

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