Contrada Lorì ci regala un nuovo album sereno e deciso, composto di dodici brani a cavallo tra la tradizione veneta e una vena compositiva leggera ed efficace. “Cicole Ciacole”, che segue i primi due album di cui abbiamo parlato in queste pagine (“Doman L'è festa” e “Eviva Il Mar”, rispettivamente del 2014 e del 2016), appare fin dal primo ascolto composto con dovizia di particolari. Innanzitutto nei ritmi - attraverso i quali si definisce un’atmosfera dolcemente ballereccia, con alcuni ammiccamenti ad altri “esotici” (con il primo brano “Bossa Nova”, ma anche con “Bala laica”), così come alle tradizioni musicali vicine alla Contrada (“Mazurca del Polesine”, la marcetta d’accompagnamento a una manfrina “Tasin”) - che stringono l’intera scaletta in un flusso di battiti sempre riconoscibili e, in un certo senso, familiari. Poi nella composizione complessiva dei suoni, che riflettono non solo una ricercatezza legata saldamente alla sperimentazione, alla conoscenza, ma anche la volontà di cogliere, tra gli strumenti in dialogo, le connessioni più importanti. Il nucleo dell’album raccoglie proprio questi due elementi, a cui si aggiungono, a un livello diverso e probabilmente più radicato nel contesto in cui si muove l’ensemble, le voci e, in generale, il canto. Si tratta di una relazione lavorata e allo stesso tempo “spontanea”, nel quadro della quale emergono alcune prove bellissime di polivocalità, e soprattutto l’animo narrativo di questi ottimi musicisti. In “L’albero impiantà” - interpretazione di un brano tradizionale registrato all’inizio degli anni Settanta a Cescatto da Marcello Conati - la Contrada ricompone un canto corale, al quale partecipano i cantori di Cescatto e Ceredo, nel quale si avverte la sensazione rasserenante del ricorso alla tradizione. Non perché si necessiti di un riferimento culturalmente territoriale, ma perché attraverso l’animo degli interpreti - riflesso con evidenza e coerenza nelle alternanze tra corali e solisti - si riflette (forse) la coscienza di questo album. Che - come i precedenti, seppur in modo differente - si ispira a un patrimonio sonoro evidentemente condiviso, cioè “presente”, e non semplicemente evocato con finalità estetiche o artistiche. Insomma, quella territorialità musicale che riflette la musica della Contrada sembra esserle congeniale: è il frutto sì di una scelta (non potrebbe non comparire nel processo di definizione di un progetto, di un programma: gli strumenti, ad esempio, sono acustici e in alcuni casi tradizionali), ma anche di una visione che ha a che vedere con un certo pragmatismo, che definirei necessario e soprattutto efficace. Da un lato per i risultati, che sono sempre convincenti, e dall’altro per la musica che nasce da quella visione: sempre ispirata, equilibrata, densa e raffinata, libera da ogni vincolo formale. Seguendo questo ragionamento, vorrei anche dire che l’“etnica” della Contrada risulta essere completa, ancorché parzialmente ragionata e ragionevolmente elaborata (“Ninna nanna Fontanelle”, suonata con pianoforte, fisarmonica, clarinetto e contrabbasso, riporta intatto l’impeto del repertorio femminile, in cui traspare con la stessa potenza l’amore materno e il disagio sociale). Attenzione, non siamo nel paradosso. Il manifesto è chiaro in ogni brano e sembra si possa riassumere in un assunto semplice quanto convincente: facciamo quello che vogliamo partendo da quello che conosciamo (“I vol che me marida”). Questo livello di consapevolezza abbraccia tutti i brani, ed è il motivo principale per cui l’album stupisce e rilassa allo tesso tempo, avvolge chi lo ascolta con suoni semplici ma sicuri, richiama la varietà delle espressioni popolari così come la profondità della scrittura e dell’ispirazione dei musicisti (“Amore e cante”). Questa evidenza non viene meno neanche nei brani originali, tra i quali “Cicole e Ciacole”, suonata con pianoforte, archi, contrabbasso e fisarmonica, emerge con la forza di una rappresentazione intima e profondamente melodica: “No gò bisogno de poemi par sentare li con ti e…/ Sera i oci mi son qua con ti/ nei to sogni senza fine che temo andò in dù”). Uno dei brani più belli dell’album è posto in chiusura di scaletta. Si intitola “‘Na casa su Titano”, è una suite di quasi trenta minuti, ricalca atmosfere sudamericane e rappresenta la chiusa (sospesa) perfetta di un album denso e raffinato.
Daniele Cestellini
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