La Contrada Lorì, formazione veneta di ispirazione popolare, ha realizzato un disco acustico raffinatamente melodico e curato, soprattutto nelle parti vocali. Già nel titolo – “Doman L'è festa” - ci suggerisce quello che questi musicisti veronesi vogliono fare: musica tradizionale e pochi fronzoli. Risuonata, riconsiderata nel quadro di esperienze ed esigenze evidentemente nuove. Ma riproposta con un certo “spirito” popolare (con tutti i rischi che questa aderenza comporta), che corrisponde a un revival non esegetico ma attento alle strutture, ai profili del repertorio, così come alle sfumature e ai passaggi più delicati. Soprattutto delle voci, o meglio della polivocalità, che emerge come un tratto distintivo del disco e, in generale, della produzione della Lorì. Una polivocalità che si configura anche come laccio stretto intorno a un’espressività - ci ricorderebbe una rapida occhiata agli studi sul comportamento musicale - connessa alla sfera socioculturale entro la quale è stata storicamente (e “tradizionalmente”) prodotta. E che è praticata anche oggi in alcune aree in questa forma tradizionale e - nonostante nel nord Italia non siano molte le formazioni di revival, o siano comunque fiorite in un numero minore rispetto al sud - in qualche forma reinterpretata e ri-funzionalizzata. Una forma che irradia una forte attrazione, perché àncora il flusso del canto in un dialogo evidentemente orale e, giocoforza, arcaico. Quest’ultimo termine, in particolare, qui assume un’accezione meno ristretta, che include non solo l’immagine più retorica di un “insieme” di produzioni di ispirazione tradizionale, che si contrappone a un flusso di produzioni (prodotte nel quadro di interazioni politiche e storico-culturali) di diverso ritmo, nel quale le informazioni più veicolate sono per gran parte di altro tipo. La mia impressione è che richiami piuttosto una sorta di “reciprocità”, nel quadro della quale il canto tornerebbe ad assumere una funzione più profonda di socializzazione, di condivisione appunto. D’altronde - al di là della ricerca di un certo effetto straniante che emerge dalla presentazione del disco, affidata alla Vaggimal Records, etichetta discografica della Lessinia - questo si evince dalla presentazione di Doman l'è festa, quando si legge: “La Contrada Lorì è sì un ritorno alle origini e alla tradizione locale, ma con un’attenzione esclusiva al gusto per le cose sane di una volta e al fascino della tradizione antica. Una specie di Slow Food della musica, insomma”. Il fatto stesso di sottolineare la centralità degli strumenti acustici - come simbolo di tradizione sonora ancor prima che musicale, di stile - riflette la volontà di esercitare un’ulteriore pressione sull’estetica delle musiche popolari, non “commemorando” ma attualizzando (se così si può dire) una prossimità necessaria tra gli esecutori (dal teaser dell’album si evince che le registrazioni sono state effettuate in un unico ambiente, rustico e autoctono). Ciò che colpisce positivamente è che la Contrada Lorì non nasconde questa fascinazione che la tradizione espressiva veneta opera sui componenti della band (si legge ancora: “Il sogno della Contrada Lorì è quello di un piccolo mutamento del costume, in cui alle gite enogastronomiche si affianchino i tour etnomusicali”). Una fascinazione che non si limita al suono e che ingloba una serie di immagini che ci consegnano una cultura popolare ancora “efficace”, anche se in parte inverosimile e ricostruita. Di questa cultura la Lorì rivendica implicitamente il pragmatismo e la capacità descrittiva delle immagini che ha prodotto, risparmiandoci la pletora di considerazioni intorno ai repertori, alla polifonia veneta (ascoltate a questo proposito il brano tradizionale “Contra marso”), alle ricerche dei pionieri, al significato dei canti, alla comunità rurale e agricola, alla socialità pre-boom economico e via dicendo. E regalandoci, senza nient'altro, alcune perle musicali di alto livello. Come “Va', bogonela, va’”, una ballata morbida, sostenuta con delicatezza da un ritmo appena sincopato e da una polivocalità in alternanza alla linea della voce principale. O come “Voria vegnar grando”, brano sognante, dove compaiono gli archi, e “Premer e stair”, che chiude la scaletta del disco. Quest’ultimo è spinto su un’armonia più complessa e su arrangiamenti più articolati: è un brano che si sviluppa in un andamento lineare (le percussioni entrano e lo ispessiscono in alcuni tratti seguendo il crescendo “naturale” di tutti gli strumenti”), nel quale le due voci malinconicamente armonizzate si spengono in un delicato falsetto, che si spegne gradatamente raccogliendo gli echi di tutto il disco.
Daniele Cestellini
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