Xylouris White – The Sisypheans (Drag City, 2019)

La collaudata coppia cretese-australiana Georgios Xylouris (laouto) e Jim White (batteria) presenta il quarto album, il primo pubblicato per l’etichetta Drag City, ispirato al mito greco di Sisifo, il sovrano condannato all’eterna ascensione di una collina sobbarcandosi un enorme masso. Georgios e Jim raccontano che nel corso dei loro tour si sono spesso ritrovati a parlare di Sisifo. Il musicista di Anogeia, proveniente da un’illustre famiglia musicale (suo padre è conosciuto con il nome di Psarantonis, la buonanima di zio Nikos è stato un campione della canzone cretese), ha proposto un’analogia tra il personaggio mitologico che ha immaginato trasportare la roccia in diversi modi, così come lui suona ripetutamente la popolare canzone cretese “Proto Hanoti”, scoprendola diversa di volta in volta. Da parte sua il percussionista aussie, già con i Dirty Tree, ha ritenuto il mito simbolicamente confacente con l’identità e il lavoro dei musicisti: i Sisifi, per l’appunto. Una riflessione che si è poi consolidata con la lettura del saggio di Camus, come apprendiamo da quanto scritto sul sito di quello che a primo acchito sembrava un improbabile duo sotto il profilo strumentale. Dopo il completamento della trilogia di dischi (“Goats”, “Black Peak” e “Mother”), se da un alto il quarto lavoro si rivela sempre all’insegna del superamento delle etichette di genere e di latitudini sonore (post-rock, desert rock, tradizione reinventata, avant folk, world music: l’armamentario giornalistico ne produce a iosa), dall’altro dimostra quanto i due “radicati e sradicati” spingano verso nuove prospettive la fluidità nell’incrociare ritmo e melodia nel giostrare con sottigliezze timbriche. Le percussioni sottolineano e accompagnano con piglio minimale ma sempre ispirato le corde del liuto e la voce baritonale di Xylouris, delineando ambientazioni inquiete e increspate, ipnotiche e riflessive. La lunga traccia d’apertura “Tree Song” è il corposo biglietto da visita, dopo il quale ci si lascia afferrare dall’arcano, erratico e dissonante incedere di “Goat Hair Blow”, dal fascinoso richiamo alle matrici popolari di “Heart’s eyes” e ai melismi canori che caratterizzano “Black Sea”, un altro grande numero. Dopo le tinte psichedeliche e visionarie di “Telephone Song”, si rinnova il legame con modi della tradizione cretese nelle formidabili “Inland” e “Wedding Song”, fino all’accelerazione conclusiva di “Ascension”. Un’opera di Elsa Hansen Oldham illustra l’artwork di questo eccellente album di uno spettacolare duo. 


Ciro De Rosa

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