Marta De Lluvia – Grano (Orange Home Records, 2019)

Marta De Lluvia - cantautrice e poetessa marchigiana, raminga per le vie d’Europa come tanti giovani di questo nostro vecchio mondo, ma con lo sguardo pieno dell’infinito di certi colli tutti italiani - è un vero talento della musica d’autore (e non solo d’autrice) e si è raccontata a Blogfoolk con delicatezza e sicurezza allo stesso tempo; nel suo racconto, così come nei nove brani che compongono il suo album “Grano” (Orange Home Records)- in cinquina alle Targhe Tenco 2019 come miglior esordio – si scopre tutta la forza di un’anima in ricerca, dal Centro Italia fino in Belgio, passando per Russia e Germania: ricerca di risposte sul futuro, l’esistenza, le emozioni, la vita. Partendo proprio dalla sua scelta di emigrare verso l’Europa continentale, le abbiamo rivolto alcune domande.

Hai studiato lingue e hai scelto di non vivere in Italia. Cosa sei andata a cercare nel mondo e, soprattutto, cosa hai trovato? Come è andata?
All’inizio andare via è stata una fuga, però col senno di poi devo dire che è stata una fuga fortunata.
Ho lasciato una realtà che non sentivo mia: non è stato facile e per certi versi nemmeno giusto. In compenso ho trovato tante “case”, e col tempo ho imparato ad essere la casa di me stessa, come una tartaruga: il mondo ha decisamente accolto me e la mia curiosità. 

Che rapporto hai con le tradizioni e con le tue radici? Che cosa pensi dei luoghi geografici della tua infanzia?
Con le mie origini ho un rapporto forte, ma libero. Ho sempre tantissima nostalgia, perché so bene che i luoghi e le persone della mia infanzia non esistono più: oggi sono altri luoghi e altre persone. Ho sempre chiaro in mente da dove vengo, in bene e in male, e questo mi dà un forte senso di identità. 

Dalle “origini” passiamo al “genere”. È questa un’epoca in cui si fa un gran parlare della cosiddetta musica “al femminile”. Ha un senso secondo te questa espressione?
Fino a un certo punto. Sicuramente c’è un approccio diverso da quello maschile e va anche detto che oggi ci sono molte più donne a scrivere e suonare rispetto a qualche tempo fa. Ma le sfumature, le differenze tra autori sono infinitamente più sottili e non si possono certo ridurre a una semplice divisione donna/uomo. Mi piacerebbe di più vedere sottolineate proprio queste differenze, parlare di stile, sensibilità, di ricerca tra le diverse anime. 

Questo tuo desiderio ha di certo a che fare anche col fatto che scrivi e pubblichi poesie. Non è un caso se nei tuoi lavori in musica l’attenzione al testo sia straordinaria. Come nasce una canzone di Marta de Lluvia?
Osservo tanto quello che succede dentro e fuori. E spesso ho intuizioni di melodie e parole.
Poi ci vuole la pazienza, la costanza e anche l’urgenza di lavorarci. Una canzone bella è un’eccezione. 

L’incontro con un produttore artistico come Raffaele Abbate ha secondo te fatto la differenza nella realizzazione di “Grano”? Come vi siete incontrati e come avete lavorato assieme?
Ci siamo incontrati grazie a Giua. Sì: Raffaele ha fatto la differenza sotto tanti punti di vista. Il primo, e il più evidente, è che è riuscito a far emergere, amplificare, far “suonare” le mie canzoni; è insomma riuscito, tramite gli arrangiamenti, a dare risalto alle cose che davvero sono fondanti nel mio modo di scrivere. Con lui si è instaurato un dialogo musicale, artistico e umano che mi ha portato e mi porta a riflettere su molti aspetti: personali, artistici e del mondo musicale in generale. Mi sento accompagnata e guidata: sto crescendo artisticamente grazie al rapporto con lui. E poi c’è anche un punto di vista più pratico che ci tengo a sottolineare: mi è molto venuto incontro, investendo nel progetto con il suo lavoro e le sue energie e senza avere certamente il ritorno economico adatto a un lavoro così curato e professionale. 

Il tuo disco vede anche alcune collaborazioni eccellenti. Nell’insieme tu credi che ti “somigli”? è così che “canti la tua vita”?
Tra le collaborazioni, quella che mi tocca più da vicino è proprio quella con Giua, che mi ha ispirata prima -  senza saperlo molti anni fa - e supportata poi. Questo disco mi somiglia tantissimo e credo che Raffaele mi abbia capita e interpretata molto bene. Le atmosfere del disco sono molto fedeli a quelle delle mie conversazioni con me stessa, dai dialoghi più piacevoli a quelli più duri.

In “Grano” parli molto di esistenza. Parli di sentimenti e di sensazioni, di intuizioni. È un disco in cui descrivi una maturazione?
Guardandolo ora da fuori direi di sì: in effetti il disco descrive una maturazione. Quello che ho fatto io, canzone dopo canzone, anno dopo anno, è stato cercare il senso delle cose che vivevo, e cercare di trasformare il dolore, le emozioni, i desideri troppo grandi, in qualcosa di bello o almeno di raccontabile: prima di tutto serviva proprio a riuscire a vivere tutto questo.

E quindi, se di maturazione si tratta, la stessa è immanente o trascendente? Che rapporti hai con la dimensione di Dio?
Sicuramente ho un rapporto con questa dimensione. Il bene assoluto per me è la vita, che è qualcosa di enorme, fuori dal controllo di chiunque, potenzialmente splendida o distruttiva, qualcosa che abbiamo finché ce l’abbiamo.
Non c’è niente di più “immanente” e reale della vita concreta. Ma allo stesso tempo è qualcosa che trascende, che sfugge completamente e che quindi fa sempre cercare.

In maniera del tutto immanente, perciò, In che direzione sta andando il tuo cuore e la tua arte?
Cerco di portare il disco - il lavoro già fatto - in giro a conoscere il mondo. Allo stesso tempo cerco di scrivere qualcosa ogni giorno, fossero anche pochissime righe, un pensiero, e cerco anche di ascoltare qualcosa di nuovo, di stare a contatto con l’arte, che poi è anche il mio cuore: quello che mi nutre. Sto andando a scoprire nuova musica e nuova letteratura, sto facendo entrare il mondo nella mia stanza, sto vivendo una vita personale ricca e buona ... tutta terra fertile e aperta per nuove canzoni. 

Qual è l’apprezzamento ricevuto al tuo lavoro che in alcun modo ti aspettavi?
Arrivare tra i finalisti per le Targhe Tenco come miglior esordio. L’avevo desiderato, come quelle cose che si appuntano nelle liste dei sogni e poi si dimenticano.
Ci sono dei desideri che uno non si permette. E invece...

E invece ce l’hai fatta! Infine, cosa vorresti fosse colto del tuo lavoro? Quella cosa che di solito sfugge, ma c’è e vorresti fosse scoperta?
Io tendo ad essere inaccessibile. La musica è il luogo della mia fragilità, dell’apertura, il buco da cui mi lascio vedere e toccare. Quelle canzoni sono così sincere che va bene che ognuno ne colga, se vuole, tutto quello che vuole!




Marta De Lluvia – Grano (Orange Home Records, 2019)
«Poesia» è una parola difficile e impegnativa. Delle volte viene usata in maniera distorta e retorica, oppure banale. Bisogna sempre andare molto cauti quando la si nomina, perché le parole - per citare un regista molto famoso - sono importanti. Nell’affrontare questa recensione, quindi, la difficoltà è nata proprio dalla volontà pervicace di evitare, ancora una volta, di dire «poesia» per descrivere senso, movimento, suono, testi, sentimenti. Ma non è possibile: “Grano” è un lavoro poetico, pieno di immagini interiori, ispirate dall’anima di un’artista innanzitutto di penna. Notata già qualche anno fa al Premio Bianca D’Aponte proprio per le notevoli doti di scrittura, Marta De Lluvia, in questo suo primo progetto discografico, mostra a pieno la forza di questo suo spirito lirico e si lascia andare al giudizio di chi ascolta. La sua fortuna – oppure la sua intelligenza – è stata incontrare sulla strada artisti e professionisti di grosso calibro, che l’hanno aiutata a rendere prezioso il suono e la proposta musicale di questo suo intenso passaggio di emozioni, vigore, passione, dolcezza, dolore antico, ricerca, paure, parole, istanti, ricordi, mutamenti e movimenti… Non si può non citare innanzitutto Giua, che con Pier Mario Giovannone ha rielaborato i brani, ha fatto il controcanto in “Grano”, ha suonato le chitarre e deve essere stata - così ci piace immaginare - un Angelo Custode dalle spalle larghe. E poi ci sono le chitarre del solito grandissimo Armando Corsi e il violoncello di Stefano Cabrera (Gnu Quartet); tra gli altri c’è poi da segnalare anche Edmondo Romano che nel brano “I Dervisci” ha suonato lo Chalumeau, particolarissimo strumento ad ancia del XVII secolo. E tutto è stato fatto sotto la direzione artistica di Raffaele Abbate (Orange Home Records), che ancora una volta si conferma produttore di livello superiore, antico, potremmo dire novecentesco, soprattutto per quella capacità rara che possiede, di saper arredare con eleganza e morbidamente ogni sentire musicale dei cantautori e delle cantautrici che segue. Brani come “Mai abbastanza” e i già citati “I Dervisci” e “Grano” hanno una maturità di scrittura e di suono da non sembrare certo canzoni d’esordio di una giovane artista. Si respira qui – ma anche in un pezzo come “Romanticismo forse” - l’aria sicura delle grandi signore della musica italiana, il chiaroscuro del meglio dei cantautori italiani, la freschezza radiofonica dei sempreverdi: nuove canzoni che si candiderebbero subito a classici, se questo nostro mondo di riferimento fosse meno miope e scontato. Se chi si occupa di divulgazione non arrivasse ormai sempre in ritardo nello scovare talenti, allora per Marta De Lluvia - in qualsiasi parte del mondo decidesse di posarsi con le sue ali di farfalla e il suo cuore di donna antica - sarebbero sicuri il successo e le conferme. E perché no? Il mondo è pieno di sorprese, di cambiamenti, di scarti improvvisi, di momenti di sole e di “Ojos Azules”, come quelli del tradizionale andino che chiude il disco e ci conduce verso altre possibilità, verso nuove alture. 



Elisabetta Malantrucco

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