
Hai studiato lingue e hai scelto di non vivere in Italia. Cosa sei andata a cercare nel mondo e, soprattutto, cosa hai trovato? Come è andata?
All’inizio andare via è stata una fuga, però col senno di poi devo dire che è stata una fuga fortunata.
Ho lasciato una realtà che non sentivo mia: non è stato facile e per certi versi nemmeno giusto. In compenso ho trovato tante “case”, e col tempo ho imparato ad essere la casa di me stessa, come una tartaruga: il mondo ha decisamente accolto me e la mia curiosità.

Che rapporto hai con le tradizioni e con le tue radici? Che cosa pensi dei luoghi geografici della tua infanzia?
Con le mie origini ho un rapporto forte, ma libero. Ho sempre tantissima nostalgia, perché so bene che i luoghi e le persone della mia infanzia non esistono più: oggi sono altri luoghi e altre persone. Ho sempre chiaro in mente da dove vengo, in bene e in male, e questo mi dà un forte senso di identità.
Dalle “origini” passiamo al “genere”. È questa un’epoca in cui si fa un gran parlare della cosiddetta musica “al femminile”. Ha un senso secondo te questa espressione?
Fino a un certo punto. Sicuramente c’è un approccio diverso da quello maschile e va anche detto che oggi ci sono molte più donne a scrivere e suonare rispetto a qualche tempo fa. Ma le sfumature, le differenze tra autori sono infinitamente più sottili e non si possono certo ridurre a una semplice divisione donna/uomo. Mi piacerebbe di più vedere sottolineate proprio queste differenze, parlare di stile, sensibilità, di ricerca tra le diverse anime.
Questo tuo desiderio ha di certo a che fare anche col fatto che scrivi e pubblichi poesie. Non è un caso se nei tuoi lavori in musica l’attenzione al testo sia straordinaria. Come nasce una canzone di Marta de Lluvia?
Osservo tanto quello che succede dentro e fuori. E spesso ho intuizioni di melodie e parole.
Poi ci vuole la pazienza, la costanza e anche l’urgenza di lavorarci. Una canzone bella è un’eccezione.

L’incontro con un produttore artistico come Raffaele Abbate ha secondo te fatto la differenza nella realizzazione di “Grano”? Come vi siete incontrati e come avete lavorato assieme?
Ci siamo incontrati grazie a Giua. Sì: Raffaele ha fatto la differenza sotto tanti punti di vista. Il primo, e il più evidente, è che è riuscito a far emergere, amplificare, far “suonare” le mie canzoni; è insomma riuscito, tramite gli arrangiamenti, a dare risalto alle cose che davvero sono fondanti nel mio modo di scrivere. Con lui si è instaurato un dialogo musicale, artistico e umano che mi ha portato e mi porta a riflettere su molti aspetti: personali, artistici e del mondo musicale in generale. Mi sento accompagnata e guidata: sto crescendo artisticamente grazie al rapporto con lui. E poi c’è anche un punto di vista più pratico che ci tengo a sottolineare: mi è molto venuto incontro, investendo nel progetto con il suo lavoro e le sue energie e senza avere certamente il ritorno economico adatto a un lavoro così curato e professionale.
Il tuo disco vede anche alcune collaborazioni eccellenti. Nell’insieme tu credi che ti “somigli”? è così che “canti la tua vita”?
Tra le collaborazioni, quella che mi tocca più da vicino è proprio quella con Giua, che mi ha ispirata prima - senza saperlo molti anni fa - e supportata poi. Questo disco mi somiglia tantissimo e credo che Raffaele mi abbia capita e interpretata molto bene. Le atmosfere del disco sono molto fedeli a quelle delle mie conversazioni con me stessa, dai dialoghi più piacevoli a quelli più duri.

Guardandolo ora da fuori direi di sì: in effetti il disco descrive una maturazione. Quello che ho fatto io, canzone dopo canzone, anno dopo anno, è stato cercare il senso delle cose che vivevo, e cercare di trasformare il dolore, le emozioni, i desideri troppo grandi, in qualcosa di bello o almeno di raccontabile: prima di tutto serviva proprio a riuscire a vivere tutto questo.
E quindi, se di maturazione si tratta, la stessa è immanente o trascendente? Che rapporti hai con la dimensione di Dio?
Sicuramente ho un rapporto con questa dimensione. Il bene assoluto per me è la vita, che è qualcosa di enorme, fuori dal controllo di chiunque, potenzialmente splendida o distruttiva, qualcosa che abbiamo finché ce l’abbiamo.
Non c’è niente di più “immanente” e reale della vita concreta. Ma allo stesso tempo è qualcosa che trascende, che sfugge completamente e che quindi fa sempre cercare.

In maniera del tutto immanente, perciò, In che direzione sta andando il tuo cuore e la tua arte?
Cerco di portare il disco - il lavoro già fatto - in giro a conoscere il mondo. Allo stesso tempo cerco di scrivere qualcosa ogni giorno, fossero anche pochissime righe, un pensiero, e cerco anche di ascoltare qualcosa di nuovo, di stare a contatto con l’arte, che poi è anche il mio cuore: quello che mi nutre. Sto andando a scoprire nuova musica e nuova letteratura, sto facendo entrare il mondo nella mia stanza, sto vivendo una vita personale ricca e buona ... tutta terra fertile e aperta per nuove canzoni.
Qual è l’apprezzamento ricevuto al tuo lavoro che in alcun modo ti aspettavi?
Arrivare tra i finalisti per le Targhe Tenco come miglior esordio. L’avevo desiderato, come quelle cose che si appuntano nelle liste dei sogni e poi si dimenticano.
Ci sono dei desideri che uno non si permette. E invece...

E invece ce l’hai fatta! Infine, cosa vorresti fosse colto del tuo lavoro? Quella cosa che di solito sfugge, ma c’è e vorresti fosse scoperta?
Io tendo ad essere inaccessibile. La musica è il luogo della mia fragilità, dell’apertura, il buco da cui mi lascio vedere e toccare. Quelle canzoni sono così sincere che va bene che ognuno ne colga, se vuole, tutto quello che vuole!
Marta De Lluvia – Grano (Orange Home Records, 2019)

Elisabetta Malantrucco
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