Ruben Blades – Paraiso Road Gang (Rb Productions, 2019)

Rubén Blades (pronuncia Blèids) è non solo musicista di talento e fama planetaria, ben diciassette fra Grammy Award e Latin Award vinti, ma anche attore di Hollywood (”Milagro” e “Mo’Better blues” sono tra le pellicole cui ha partecipato), e persino attivista e uomo politico (è stato candidato alle presidenziali a Panama e più recentemente è stato ministro del Turismo). Il camaleontico salsèro ritorna con un disco bello, vario, spiazzante. Non è un disco di salsa come gli storici con la Fania All Stars, quelli con Willie Colòn o come il recente “Medoro Madera”, né un disco world come il sontuoso “Mundo” o “Tiempos”, né, tantomeno, un lavoro pop come “Nothing But The Truth”, il disco in inglese che ne sancì la popolarità anche al di fuori dei confini ispano-americani. Funky, Reggae, rock si incrociano e alla solita pletora di percussioni latine si abbinano suoni inusuali come quelli delle cornamuse scozzesi di Eric Rigler che, spesso unite alle chitarre elettriche creano riff taglienti come quelli di “Templo de Agua”. Cifra dell’intera produzione bladesiana e motivo principale che ne ha ritardato la diffusione della fama in Europa, dove è stato sempre considerato soprattutto un musicista di salsa, è una certa predisposizione al testo impegnato, dai desaparecidos ai diritti negati, e il nuovo album del fondatore della cosiddetta “salsa consciente” non fa eccezione sin dal titolo (le ”Paraiso Road Gang” erano i prigionieri incatenati della regione di Paraìso, zona dove gli Stati Uniti, di fatto colonizzatori fino al 1999, avevano fatto costruire numerosi istituti di correzione); il brano più feroce nei confronti delle politiche americane nel centro e Sud America è “Naciòn Rica, Naciòn Pobre” , dove fa riferimento al “bloqueo charlatano” che piega l’economia e la vita di Cuba e Haiti. Altro brano di grande impatto è l’iniziale “No Te Calles”, esplicito invito a prendere posizione contro le brutture del mondo come corruzione, prevaricazione e razzismo; il brano vede ospite i Making Movies, band latin-rock del Missouri che vanta due dischi prodotti da Steve Berlin dei Los Lobos. Così come sono notevoli l’unico brano in inglese del disco, il reggae di “Love Me or Leave Me” e il funky de “La China Medina”, unica concessione all’uso abbondante di fiati che da sempre ha caratterizzato il sound di Rubén. Tra gli altri ospiti (rigorosamente panamensi) il rapper Pash e il cantante pop Horacio Valdes. In conclusione, forse non il lavoro ideale per iniziare l’esplorazione della cinquantennale carriera di Blades (“Buscando America” e “Mundo” sono lavori più propedeuticamente interessanti) ma un ottimo disco che amplia i confini musicali della personalità di maggior spicco della popular music centroamericana, oltre a mettere in mostra, a settant’anni, ancora una grande voce. 


Gianluca Dessì

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