Mandolin Orange – Tides of a teardrop (Yep Roc Records, 2019)

Mandolin Orange è un duo del North Carolina formato da due ottimi polistrumentisti, Andrew Marlin (voce, mandolino, chitarra, banjo) e Emily Frantz (voce, violino, chitarra). “Tides of a teardrop” è il titolo del loro quarto album, suonato nel solco della tradizione folk-roots americana, delicato, soppesato, pieno di melodie “perfette”, comprese nel suono equilibrato di corde quasi sempre acustiche. Oltre agli strumenti suonati da Marlin e Frantz si scorgono (in alcuni casi) batteria, chitarra elettrica, basso e tastiere, che si inseriscono con maestria in un flusso musicale che non vuole far altro che sorreggere le storie raccontate, con quella dedizione timbrica (mi verrebbe da dire “americana”) che chi conosce a fondo le corde riesce ad applicare con tutta la coerenza immaginabile: semplice, calibrata, profonda. L’altro grande polo che orienta il flusso è, ovviamente, la voce, che in tutte le dieci tracce in scaletta procede in uno spazio sempre sicuro, contornato da suoni morbidi e comprensibili, nella evidente necessità di riportare la coralità del duo e, allo tesso tempo, l’importanza della narrazione. Bisogna ammettere fin da subito che l’album spicca su molte produzioni del genere, perché gli Orange riescono a sfumare la loro adesione alla tradizione con efficacia. Vale a dire: sebbene i brani (come detto) presentino alcuni dei connotati più riconoscibili della musica folk americana - primo fra tutti l’uso del banjo come strumento solista e insieme di accompagnamento, ma anche la presenza del violino, alcuni ritmi secchi ma decisi, che insistono spesso sul rullante, la polivocalità basata su armonizzazioni che si ripetono nella stessa forma - la loro “vera” bellezza deriva dal dialogo che gli elementi tradizionali instaurano con quelli più “esterni”. Penso, ad esempio, alla chitarra elettrica, che non partecipa passivamente a corroborare l’adesione al genere, ma spinge sempre verso una dimensione più onirica, meno tangibile. In un brano come “Like you used to”, in cui banjo, chitarra acustica, basso e batteria procedono nel solco di una ballata limpida, gli intermezzi dell’elettrica spezzano l’andamento, aprendo a varie possibilità: tutte da immaginare e sviluppare all’infinito. Il suono della chitarra - che in questo caso è pulito anche se appena cupo - sembra volerci invitare a riflettere proprio sull’insieme. Ed è questo il punto più importante. Perché, nella sua apparente incoerenza, ha un ruolo predominante proprio nella definizione di un “suono” (un concetto astratto e permeabile, che comprende la dinamica della ricerca, della produzione, gli sforzi della scrittura e dell’esecuzione). In quell’elemento, cioè, che tutti ricercano, perché tutti sanno che è il solo che si insinua nella contemporaneità di chi ascolta e di chi produce. In quello spazio dove tutto accade con concretezza. Dove si fa la musica, dopo averla immaginata (anche se solo in parte), prodotta ed eseguita, e dove la musica si recepisce, in attesa di essere colpiti da qualcosa di forte e indimenticabile. Non credo sia un caso che i Mandolin Orange - lungi dall’essere una band mainstream - riscuotono un buon successo, corroborato anche da performance in luoghi fondamentali della scena musicale internazionale, come Austin City Limits e Newport Folk Festival, oppure dalla recentissima apparizione al famoso format “Tiny Desk Concerts” di NPR Music, il programma musicale della National Public Radio americana. Insomma, l’album è da ascoltare e riascoltare, i due ragazzi sono pieni di idee e di passione, e il flusso dei brani avvolge l’ascoltatore con un graduale ammiccamento, che rende tutto più morbido e attraente. Tra i brani migliori - che in gradi diversi aderiscono alle linee guida espresse in queste righe - sono da segnalare “Late September”, “Mother deer” e “Golden Embers”. Chi cerca l’atmosfera profonda può immergersi in “In to the sun” e “Time we made time”. 


Daniele Cestellini

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