
Una lunga gestazione per questo “Trallalero Levantìn…”
Si è vero, abbiamo avuto qualche intoppo organizzativo che ci ha rallentato, ma non tutti i mali vengono per nuocere… aver lavorato con più lentezza ci ha dato la possibilità di poter ponderare al meglio tutte le scelte a vantaggio del progetto. È un album da ascoltare con booklet alla mano, per entrare meglio nel mondo levantino dell’Orchestra Bailam, dove in splendida evidenza è raffigurato un mezzaro (dall’arabo mi-zar, traducibile con “coprire” o “nascondere”): un grande quadrato di stoffa in cotone o lino, riccamente stampato di fiori, con al centro il più famoso “Albero della vita”. Esempio tipico dell’influenza orientale che Genova ha acquisito nei secoli durante i suoi molteplici rapporti commerciali e culturali, già nel Duecento era usato dalle donne liguri come drappeggio, diventando successivamente appannaggio di ricchi signori per l’arredamento dei loro palazzi. Oggi è usato dalle donne nelle feste di musica tradizionale, piegato in due a coprire la testa e le spalle, ma soprattutto è impiegato nell'arredamento della casa. Uno splendido disegno per incorniciare un album che profuma di musiche condivise.

Non è un segreto che l’Orchestra Bailam sia nata con l’intenzione di costruire ponti e dialoghi musicali e che nel suo cabotaggio mediterraneo abbia scoperto tracce importanti del mondo levantino che non sapeva gli appartenessero. I levantini erano gli eredi dei mercanti genovesi e veneziani insediati fin dal XII secolo nei più importanti porti mediorientali e che, dal XVIII secolo, crearono un tessuto sociale cosmopolita, grazie a un sistema particolare di accordi sociali e commerciali con l’Impero Ottomano nonostante la sudditanza. Il risultato fu la nascita di una cultura particolare, di origine europea e al tempo stesso beneficiaria delle eredità cristiane anatoliche, ebraiche sefardite, bizantine ortodosse e ottomane musulmane, che diede origine ad una realtà in cui greci, turchi, ebrei, arabi, italiani, armeni, inglesi, francesi, russi, nonostante differenze, alterne rivalità ed evidenti limiti storico sociali, mantennero sempre un ponte anche nei momenti più difficili. Alla fine dell’Ottocento i levantini di origine genovese a Galata erano circa 7000 e a Smirne se ne contavano 6000. Un mondo che, con tutte le licenze e i limiti del periodo storico, svela una realtà che profuma di condivisione e collaborazione tra le persone, una realtà che andò a interrompersi solo con l’affermarsi delle derive nazionaliste del ‘900. Quando si parla di una Genova inospitale, vale la pena ricordare che già dal 1200, la città concedeva libertà di culto agli arabi e agli ebrei di stanza o di passaggio e sicuramente già avevano una moschea ed una sinagoga. Ma è dal 1600 che è accertata una moschea proprio davanti alla Darsena ed una sinagoga in zona Ponte Calvi.

Ci presenti i Canterini Genovesi?
Sono il nucleo centrale della storica Squadra dei Canterini Genovesi. Matteo Merli è il “Primmo” (tenore), con cui collaboriamo già dal 2012, Pepi Zacchetti è il “Controbasso” (baritono), incredibile memoria delle modalità tecniche e vocali del trallalero e Claudio Valente, il “Contræto” (contralto) è il fondatore della Squadra, nonché mitico Canterino della tradizione. In sostanza, stiamo parlando di un consolidato trio molto affiatato che da circa tre anni è anche facente parte, insieme al sottoscritto alla chitarra, del Quartetto Genovese, un gruppo che ricrea le ambientazioni della canzone da osteria. Proprio in occasione del lavoro con il Quartetto Genovese è nata la collaborazione con me e l’Orchestra Bailam, quindi lo studio dei brani di “Trallalero Levantìn”: un lavoro di preparazione non semplice anche in fase di registrazione, ma molto avventuroso ed intrigante. Poi ci sono le tre voci basso ospiti: Mauro Bozzini, Enzo Gelati e Giampiero Merlo.
E la Bailam?
Oltre a me, che suono chitarra nylon, acustica, battente, bouzouki a 3 e 4 corde, bağlama e oud, ci sono Luciano Ventriglia alle percussioni, Roberto Piga al violino, Tommaso Rolando al contrabbasso, Yulio Fortunato alla fisarmonica e Giuseppe Laruccia al clarinetto.
Non è la prima volta che l’Orchestra lavora con il repertorio del trallalero. Come avete proceduto nel combinare le voci con il vostro organico strumentale?
Possiamo considerare “Trallalero Levantìn” una logica consecutio dell’album “Galata” del 2013, ma per molti aspetti più addentro alla tecnica del trallalero, che sposandosi con più audacia nel mondo mediorientale sta percorrendo una propria strada: non a caso si parla di trallalero levantino.

Visto che l’hai citato, in “Mugugno” c’è proprio l’elogio del trallalero...
Vero! Non saprei se il mugugno sia un’invenzione genovese o meno, di certo noi genovesi lo abbiamo fatto nostro. Questa canzone tratta proprio dell’analogia tra il mugugno e il ruolo vocale del Controbasso, che non solo completa l’armonizzazione con il Tenore e il Contralto, ma insieme al ruolo vocale della chitarra, risponde ritmicamente alle stesse (è il battaggio, dal termine battagiare, che è il movimento delle campane che è stato preso in prestito dal mondo del trallalero), dando l’impressione di puntualizzare, quello che a tutti gli effetti è un mugugno musicale.

Riprendete il De André di “Da-a mæ riva”, il brano conclusivo del capo d’opera “Crêuza de mä”: perché questa scelta?
Spinta dalla curiosità della musica e dei popoli in movimento, l’Orchestra ha sempre messo in luce i caratteri migratori, che da sempre sono caratterizzati dalle medesime problematiche: fughe dalle guerre, fughe dai regimi dittatoriali o semplicemente la ricerca di una vita migliore. Questo brano è una pittura che ben raffigura il concetto di sradicamento dalle proprie radici e dell’abbandono forzato. Musicalmente il suo ritmo ternario, tipico del trallalero, l’ho sentito molto vicino ai ritmi marocchini, tanto da riarrangiarlo con quel sentimento.
Cosa racconta “Mæ roscignêu”? Il testo sembra riprendere un topos della poesia popolare presente, per esempio, nel sud della Francia…
“Il mio usignolo” è un testo d’amore: una persona lascia la finestra aperta e il canto dell’usignolo invade la stanza. Nella tradizione genovese ci sono alcuni brani che parlano dell’usignolo, è probabile che possa esserci un retaggio provenzale vista la prossimità della regione che può aver influenzato la nostra città.
E che mi dici di “Zû a-a moenna”?

Non sfuggite al fascino della lingua franca del “Mare Chiuso”, il sabir, che avete usato in “Padri di noi”.
No, non sono sfuggito! Casualmente mi sono trovato a leggere questo “Padre nostro” e nonostante il mio pensiero laico, ne sono rimasto colpito. Per dargli un suo respiro musicale, mi sono semplicemente lasciato andare alla sua forte spiritualità. Il risultato è che sento di avergli dato tutto ciò che potevo per incorniciarlo in un contesto musicale appropriato.
Poi c’è l’omaggio alla città di Smirne che aveva un intenso rapporto con Genova…
Come già detto, Smirne contava a metà ‘800 circa 6000 abitanti di origine genovese soprattutto provenienti dall’isola di Chio, antica colonia produttrice di allume. Smirne era soprattutto una città-porto altamente cosmopolita, e proprio per questa caratteristica, madre di un intreccio musicale più che unico. Non è un caso che sia greci che turchi siano affascinati dalla musica “smirneika”. Così parlava di Smirne una guida del 1881: «Banchine che di giorno sono luogo di carico e scarico di merci, al tramonto fino a notte fonda si trasformano in Promenade e i numerosi caffè che si affacciano sul fronte mare del “Cordon” sono illuminati a giorno e, mentre nell’aria si diffondono le note di musiche sia orientali sia europee, offrono a una folla variopinta il luogo ideale d’incontro».

L’unico tradizionale è “A scignoa do sciallo”. Cosa rappresenta questo motivo?
Come nell’album “Galata” si è dedicato spazio al brano tradizionale “A mæ moé”, anche qui ho dato respiro a un trallalero tradizionale che mi ha sempre affascinato per la sua ritmica. Chiedo venia ai puristi per aver aggiunto un ritornello di mia composizione per renderla più canzone.
Con “Balaridon” si va indietro di secoli!
Verissimo! Ma quando in mezzo al mio materiale ho trovato questo testo del ‘400 di tradizione popolare dove la musica si era smarrita, non sono riuscito a trattenermi nel rimusicarla alla maniera del trallalero. È divertente pensare che questo testo era considerato allora, altamente licenzioso e che nonostante la proibizione aveva presa sul popolo tanto da cantarlo nelle taverne, con il rischio di essere arrestati e duramente condannati. In verità rileggere oggi il testo fa sorridere……
La perdita della memoria è il tema di “Ûn brûtto mâ”.
“Ûn brûtto mâ” e “Ninte de bon”, sono gli unici brani che aprono le piaghe senza tempo della chiusura sociale, del rifiuto e della perdita collettiva della memoria, derive che portarono allora a effetti catastrofici e che si ripresentano oggi, in modo diverso, subdolo, ma con altrettanta violenza.

Sempre più difficile portare in giro un ensemble numeroso: “Trallalero Levantìn” si metterà in viaggio?
Penso che il lavoro di un qualsiasi artigiano che crede nel proprio lavoro, sia quello di non risparmiarsi mai e che se ciò che sta costruendo ha bisogno di spendere in fatica e sudore sia suo dovere perseguirlo. Per questo lavoro era giusto coinvolgere tutti questi soggetti e ora sarà nostro impegno portare quest’album, per come abbiamo fatto con “Galata”, in tour dal 2020. L’Orchestra Bailam ha compiuto trent’anni di attività, ne festeggeremo le “gesta” il 14 Novembre al Teatro della Tosse di Genova con una grande festa insieme ai nostri collaboratori di sempre. Ma soprattutto presenteremo “Trallalero Levantìn” per la prima volta nella nostra città. Doverosa è la partecipazione da parte di tutti!
Orchestra Bailam e Canterini Genovesi – Trallalero Levantìn (Felmay, 2019)

Ciro De Rosa