Vibra incessante Ifriqiyya Électrique, l’impetuosa confluenza di ritualità adorcistica che sgorga dal deserto tunisino e di rumorismo post-punk, elaborazione dell’agitatore sonico francese François Régis Cambuzat – uno persuaso che la musica sia emozione, rischio, ribellione, ferocia, slancio e trascendenza – e della salentina Gianna Greco, cofondatrice del Putan Club, iperattiva cellula del militantismo musicale internazionale. Prima ancora, negli anni ’80, François era stato l’artefice di The Kim Squad e del collettivo avant-folk Il Gran Teatro Amaro. Ancora, era stato la mente di L’Enfant Rouge e dato vita al progetto Putan Club. Proprio da quest’ultimo, scaturisce la scintilla che alimenta il collettivo Ifriqiyya Électrique, di cui sono imprescindibili co-protagonisti i maestri musicisti dei rituali Banga tunisini. “Rûwâhîne” (Glitterbeat, 2017) è il primo esito di questa vicinanza, in cui si impattano l’intensità visonaria e fisica delle distorsioni chitarristiche ed elettroniche, la pienezza del basso e l’iteratività ossesiva di tamburi e canto call & response della cerimonialità nord-africana. Adesso, è la volta di ˝Laylet el Booree˝ (2019), secondo capitolo discografico e formidabile esperienza live multimediale, realizzato con Yahia Chouchen, Tarek Soltan e Fatma Chebbi, maestri tunisini della pratica musicale e terapeutica nell’oasi tunisina di Djerid. L’incisività sonica de ˝La Notte della Follia˝ è il nostro BF-Choice del mese di maggio. Lo stesso François R. Cambuzat, raggiunto durante le tappe del tour europeo, racconta i lavori sulle musiche di elevazione e il concepimento dell’adoricismo musicale post-indutriale che va sotto il nome di Ifriqiyya Électrique.
François, riavvolgiamo il nastro, tutto ha avuto inizio con un viaggio nello Xinjang uiguro. Cosa è accaduto?
Nel 2012, durante un tour nella Mongolia interna, un amico musicista, figlio di bardo kazako, mi diceva che nello Xinjiang lo sciamanesimo era rimasto puro, perché proibito dalle autorità cinesi. Di ritorno in Europa, quelle parole mi eccheggiavano ancora nella testa. Mi ero sempre chiesto cosa mi facesse vivere la musica, perché dai miei primi concerti, intorno ai dodici anni, l’essere sul palco mi portava sempre altrove, facendo scomparire la depressione come scompare un mal di denti.
Qui, una precisione è d’obbligo: sono ateo, non sono nemmeno un neo-proto-freakettone e odio l’immagine concordata dello sciamanesimo. Vengo dal punk, dalla ferocia e dalla sperimentazione. È la curiosità per qualsiasi musica che non capisco e che può interrogarmi che mi spinge, dalla classica contemporanea ai quarti di tono orientali. Sciamanesimo, allora! Avevo un enorme desiderio di vedere il come e capire il perché. Però, non volevo cadere nella trappola spregevole di certa world music, non volevo una cartolina per occidentali benestanti in cerca di esotismo, né effettuare una ricerca etnomusicologica, non avendone la formazione. Desideravo suonare queste musiche, per imparare e poi partecipare, ma soprattutto per ricrearle insieme. Capendo che tutto ciò era universale. Rock o techno, Eugene S. Robinson o Iggy Pop: tutti sul palco partecipando al bisogno umano di dimenticare, scappare dal ‘tedium vitae’. Finora era solo un’impressione: mi interessava una conferma. Che tutta questa follia avesse un ruolo sociale, che tutta questa follia fosse universale. Prima di partire, ho letto molto sull’argomento, non volevo viaggiare come un turista, un idiota occidentale. Pessoa, Hikmet, Pasolini e Burroughs, ho divorato i classici del genere, da During a Rouget. In essi ho ritrovato tutta la poesia, ma applicata al mondo. Ho incontrato Thierry Zarcone, direttore di ricerca presso il CNRS di Parigi: un incontro bellissimo, anche se sono stato spesso sopraffatto da un mondo sconosciuto. I suoi consigli sono stati preziosi e lo ringrazio per questo. Lui non lo sa, forse pensa che io sia un iconoclasta, ma gli devo molto.
Che tipo di attrezzatura hai utilizzato sul campo?
Dovevo viaggiare leggero perché ero solo. Il primo viaggio nello Xinjiang era in inverno, con una media di -25°C. Tecnicamente, mi sono reso conto che una telecamera bloccava, perché tutti si sarebbero sentiti osservati, rischiando di rifiutarsi o, peggio, di caderenella teatralità. Ho preso un telefonino con una qualità video ottimale: un Sony Xperia. Per l’audio, ho usato uno Zoom, sapendo che il lavoro di post-produzione poi sarebbe stato enorme. Per il montaggio abbiamo chiesto aiuto a un algtro salentino, Carlo Mazzotta, anche ottimo musicista di avanguardia, consapevole dei cambiamenti e del linguaggio musicale, dei rischi artistici che si devono prendere. Arrangiamenti, missaggio e post-produzione sono stati realizzati con “Ableton Live”, che è molto leggero e di qualità sufficiente, che mi ha anche permesso di lavorare, far ascoltare e giudicare i risultati in situ dai musicisti del Taklamakan. Questo per lavorare insieme fino al risultato finale. Se un trombone, un drone distorto o un ritmo strano aggiunto non piacevano, potevo rielaborare immediatamente, senza dover rifare 24.000 chilometri, ma soprattutto integrandomi sempre di più nella musica contemplata. Fondamentalmente, per tutte le realizzazioni della Trans-Aeolian Transmission (il nome generico scelto per questi lavori sulle musiche di elevazione) è questo set-up che prevale ancora oggi e che ci permette di andare ovunque. Gianna Greco era nell’avventura: una lavoratrice propositiva, capace di morire di fame o di freddo come di trascorrere ore al booking, sempre creativa, in un modo sorprendente e sempre ottimista.
Non una palla di musicista che devi portarti in ‘vacanza’. Ed ho imparato a odiare i maschi, molto spesso spaventati e “preziosi”.
Che esperienze musicali avete fatto?
Abbiamo incontrato sciamani, per lo più donne, e capito le loro paure del governo cinese, siamo andati allora ad incontrare i Dolans, la loro musica quasi atonale, fatta di frizioni, urli, strappi, tempi liberi, crescendi di velocità e densità, un po’ come se stessero suonando free jazz, se non speed-trash-metal a un volume parossistico. Le prime sessioni di registrazione si sono svolte nelle case dei villaggi, ma spesso nel deserto stesso, dopo lunghe transumanze di macchine, poi a piedi, strumenti, acqua e tappeti inclusi, quando i musicisti capivano che l’ispirazione, la follia, eranno questa volta bloccati da quattro mura. Fino alla notte oscura, la musica trascendeva una piccola porzione di deserto, al riparo da enormi dune. Il dotâr, il violino ghijek, il kanûn e il rawap dolan, seguivano le melodie dei cantanti utilizzando un tamburo a cornice che veniva occasionalmente posto davanti alla bocca per dare un effetto smorzato e distanziante. Perché tutto diventava vera pazzia. Come essere così arroganti da poter pensare di abbracciare una regione grande sei volte l’Italia? Gianna e io urlavamo di felicità, spostandoci sui confini afgani o tagiki, montagne di oltre 5.000 metri di altezza, accampamenti di fortuna, notti in yurta nel Kirghizistan su laghi d’acciaio blu, per scendere poi dal KKH, Karakoram Highway, per incrocciare l’esercito cinese che saliva, proseguire per il meshrep del giovedì a Yarkand, poi verso Makit per ritrovare i Dolans, le melodie, ritmi, stridi, motori, canzoni, immagini, colori. Incisi negli occhi, nelle orecchie, nella mente, per sempre. A causa della proibizione del governo cinese di praticarlo e delle condanne che ne derivano, per lo sciamano come per la sua famiglia, gli officianti che avevamo conosciuti temevano anche per la loro vita. Potevamo incontrarli, registrarli a malapena, assolutamente non filmarli. Ma l’incontro con il deserto dei Dolans ci aveva confortati e sarebbero stati i nostri principali partner, nei prossimi mesi che avremmo passato ancora di seguito nello Xinjiang con Gianna Greco. Infine, era impossibile portare i nostri amici uiguri in Europa. Non sono autorizzati a viaggiare e spesso sono designati come terroristi. Il progetto è stato suonato dal vivo, la première a Dushanbe, in Tagikistan, poi ha partecipato a vari festival in Occidente, nel formato cine-documentario-road movie-poesia-concerto, in duo.
Invece, quando e come siete arrivati nel Djerid tunisino?
Ho una lunga relazione d’affetto con questo Paese. La mia famiglia adottiva è a Tourbet el Bey. È uno dei pochissimi posti al mondo in cui sto bene. Niente auto, una popolazione colta, femminismo militante, una medina di bellezza mozzafiato. Inoltre, i tunisini hanno fatto una rivoluzione, loro. Conoscevo lo stambeli, il rituale musicale-terapeutico impiantato in Tunisia da popolazioni provenienti dall’Africa sub-sahariana, che mischiavano musica, danze e canzoni durante le quali alcuni partecipanti entravano in trance e incarnavano entità soprannaturali.
Nel 2015 ho deciso di capirne di più. Ho incontrato la scena dello stambeli urbano di Tunisi, tra gli altri Bellassan Mihoub, figlio del yenna Abdelmajid Mihoub e Riadh Essaweche, della zaouia Sidi Lasmar. Dopo aver divorato il suo “Stambeli: Musica, Trance e Alterità in Tunisia”, ho contattato Richard Jankowsky, un etnologo che ha trascorso più di dieci anni nella ricerca locale. Sono rimasto deluso: secondo me, lo stambeli era morto, non aveva più una funzione sociale, ma era teatralizzato. Una musica bellissima, uno spettacolo bellissimo, ma pochissima veridicità, nessun vera funzione sociale. Mi sono arreso, non ero interessato ma deluso. La fortuna ha voluto poi che incontrassi la ricercatrice Amel Fargi a Tourbet, che mi ha parlato del rituale della Banga nel deserto del Djerid tra Nefta, Tozeur e Metlaoui. Mi ha invitato ad accompagnarla al raduno annuale nell’estate del 2015.Tre mesi dopo, aeroporto Nefta-Tozeur. Arrivo da Barcellona a mezzanotte, Amel non è all’appuntamento, è rimasta bloccata sulla strada e l’aeroporto è ormai chiuso. Ho colto l’occasione per studiare il flamenco, suonando per l’unico portiere con cui condivido Cristal, le meravigliose sigarette tunisine. Arriva la macchina, Amel è esausta ma partiamo subito per la casa della Banga de Tozeur, dove il rituale annuale è già iniziato. Ed è uno schiaffo ... niente teatro, niente scena, niente pubblico ma una massa compatta. Nel cortile, i rûwâhîne (spiriti) sono stati invitati e ora possiedono e torcono i corpi della comunità della Banga. Gli adolescenti rotolano a terra, inarcando le gambe, lo sguardo perso; le ragazze lottano, forzando e accelerando i ritmi dei tamburi tabla, le donne urlano senza essere in grado di coprire l’implacabilità delle percussioni metalliche tchektchekas. L’acqua schizza, vola in schiaffi, mentre il fumo del benzoino copre le nostre vite. Siamo lontani, lontani, dove «sotto il simbolismo dei geni, gli scopi profondi, oltre agli effetti sociali, sono una catarsi, una purificazione dell’anima dall’estasi; è la forma del misticismo di una minoranza sfollata, oppressa, esiliata e accomodante dell’Islam in Africa», scrive Viviana Pasqua in «L’albero cosmico nel pensiero popolare e nella vita Africa nord-occidentale», Institute of Ethnology, Parigi, 1964). Adorcismo: il tuo demone personale possiede il tuo essere, questo per sempre. Regolarmente chiederà il tuo corpo, ha un bisogno irresistibile quando ti senti male e infelice. La comunità della Banga arriva portando il fuoco per deportarti nel tuo lato più selvaggio in un rituale frenetico, fino alla perdita totale dei sensi, il tuo demone personale possiede allora il tuo Essere nella sua interezza.
È un rituale terapeutico, di possesso e trance. Nelle oasi del sud della Tunisia, punti di sosta per il commercio di carovane, gli schiavi neri erano impiegati nei servizi domestici nella produzione agraria e nelle opere di irrigazione. Sidi Marzug (il santo nero), originario dell’Africa subsahariana che i Béni Ali avrebbero comprato a Timbuktu, fu in un primo momento schiavo di Sidi Bou Ali (il santo bianco), celebre mistico sufi installatosi a Nefta nel XIII secolo. In seguito ai prodigi compiuti da Sidi Marzûg, il suo maestro avrebbe così affermato “un marabout non lavora per un marabout”, restituendogli la libertà e comprovando la santità di Sidi Marzûg. La rappresentazione collettiva descrive Sidi Marzûg come un santo potente che aveva a disposizione un diwan (assemblea) di rûwâhîne, suoi servitori e suoi alleati. Le comunità nere di Tozeur, Nefta e Metlaoui lo commemorano attraverso un rituale festivo e sacrificale, la Banga, che pratica non l’esorcismo bensì l’adorcismo: soddisfare e placare lo spirito che possiede – e possederà per sempre – l’affiliato che partecipa alla Banga. L’attuale santuario (zawya) che ospita il catafalco (thabût) del santo si trova nella periferia della città di Nefta, situato all’estremo ovest dell’oasi del Jerid. Culturalmente, la comunità nera residente nel Jerid si identifica con Sidi Marzûg, in un sincretismo sviluppato tra Islam e alcune pratiche animiste. Il rituale della Banga di Sidi Marzug è un rito estremamente popolare, che si pratica soprattutto in case private e per le strade. I canti e le danze si trasmettono in questo modo ai più giovani, e l’ajami, la lingua degli antenati hausa, è ancora presente nei canti. Gianna ed io abbiamo visuuto a Tozeur per mesi. La nostra casa era poco più di una rovina, ma posta a 100 metri dalla casa della comunità, che presto diventerà la nostra famiglia. Seguiamo tutti i rituali, spesso chiamati all’ultimo minuto per aiutare/curare una persona, una famiglia bisognosa. A piedi in città, in camion se in una frazione del deserto. Ci siamo persi per mesi, registrando, filmando, lavorando e componendo con i musicisti della comunità. Più di 400 ore sono state catturate in Xperia e Zoom. Comunicare con i demoni con i computer, poi con le chitarre elettriche, per ricomporre insieme questo rituale di possessione.
Che differenze con l’esperienza nello Xinjiang ?
Rispetto alla musica dello Xinjiang, questa volta eravamo più liberi, perché la Banga suona senza strumenti melodici, eravamo dunque in quasi totale libertà di composizione armonica. Abbiamo registrato quella volta in un multi-tracking primario: una traccia testimone tutti insieme, poi ognuno in ri-registrazione. L’enorme lavoro era quindi far comunicare il computer con la Banga. Poi sono passate ore, settimane, mesi, curvati sui schermi mettendo milioni di warps (punti di ancoraggio sulla time-line) per definire le misure e rispettare i tempi, le accelerazioni, stop & go, essere identici al materiale originale ed infine riorganizzare tutto. Non è stata cambiata né una nota né un tempo, seguendo esattamente i tre momenti del rituale: chiamata alla popolazione, chiamata agli spiriti e possessione finale. La temperatura era di 45° C, i computer rallentavano, si fermavano, tanto che abbiamo pensato tornare a Tunisi per comprarne uno nuovo.
Il caldo era insopportabile, il sudore inondava le nostre tastiere, io e Gianna eravamo completamente nudi quando i musicisti non erano con noi. Un giorno finalmente investimmo in un enorme ventilatore, posto a capotavola, per mescolare un po’ d’aria sulla fronte. Immediatamente, abbiamo notato un miglioramento delle macchine. Da questo acquisto, abbiamo regolarmente bagnato il culo dei nostri Macbook che hanno iniziato ad essere di nuovo operativi. Consapevoli che dal Jerid alle discoteche d’Ibiza o i club rock moscoviti, il bisogno di dimenticarsi di sé, di elevarsi è assolutamente identico. Citando allora Ralf Hütter in “Kraftwerk : Man Machine and Music ” di Pascal Bussy (1991): «L’anima delle macchine è sempre stata una grande parte della nostra musica. La trance ha sempre seguito la ripetizione, e tutti siamo alla ricerca di trance nella vita ... e le macchine producono una forma di trance assolutamente perfetta» o Genesis P-Orridge dei Psychic TV, che spiega il fenomeno: «La trance-musica dove le persone vibrano e girano fino a raggiungere l’iper-ventilazione è l’esperienza delle onde alfa-psichedeliche. (...) Sono quindi completamente “trans-formati” da questo eccesso primordiale e fisico. (..) un’energia pagana li prende, a forza di danzare (...)». Quindi assolutamente nulla di nuovo in quello che volevamo realizzare. Ma farlo con loro, direttamente sul terreno per mesi in modo che la tecnologia non filtri nulla ma che si resti vicini all’intenzione originale, per una musica ricostruita, una cerimonia trascendentale e postindustriale, quindi un concerto, su un documentario-film-road-movie. Avevamo giurato di non pubblicare mai più album discografici. Ma tutto si è impennato. Quando a giugno 2016 abbiamo messo su Youtube i primi estratti del film, siamo stati immediatamente contattati da diversi festival prestigiosi (FMM Sines, Roskilde, Womad, Clandestino ...) per l’estate 2017. Poi a settembre, Chris Eckman della Gitterbeat Records ci ha contattati per un’eventuale pubblicazione. Dopo aver riflettuto, abbiamo accettato, decidendo che tutti i guadagni sarebbero andati a Mr. Hassan, il muqqadem della Banga. ... E già in ottobre, Gianna ed io maledivamo noi stessi, non a causa della Glitterbeat stessa, che è una struttura meravigliosa, ma era che la nostra libertà stava svanendo, avevamo già bisogno far fronte a comunicazioni e promozioni che richiedevano molto tempo, peggio ancora nell’urgenza abbiamo dovuto avere a che fare con alcune agenzie di booking piuttosto disoneste.“Rûwâhîne”, l’album dell’Ifriqiyya Electrique è stato pubblicato dalla Glitterbeat Records nel maggio 2017. Catalogato rock primale/techno primitivo/pogo primitivo/rituale ancestrale/musica sacra/elettronica/rituale adorcista & post-industriale. Il primo concerto dell’Ifriqiyya Électrique si è svolto alla fine di giugno 2016, nella piazza principale di Nefta, di fronte al caffè Jouj. Ne siamo molto orgogliosi, perché stavamo nella città di Sidi Marzug. La restituzione ha infiammato la comunità, ed è davvero la migliore critica che avremmo mai potuto ricevere. Poi la parola è passata in una vera scia di fuoco e siamo stati invitati dai più importanti festival tunisini dell’estate. Poi dal resto del mondo: festival di Roskilde, Sziget, Vieilles Charrues, Womad, Womex, FMM Sines, Offest, Pohoda, Ostrava, Plai, Notte della Taranta, Ariano Folk Festival.
È soprattutto l’elemento sociale, aggregativo che ci interessava, il fatto che questa musica sia davvero al servizio della comunità, con una vera funzione sociale. Il lato terapeutico è il suo scopo, ma ciò che ci interessava erano i “perché” e i “come”. Detto questo, nessuno è stupido nel deserto: tutti sanno che per un appendicite devi andare all’ospedale.
È già saltato fuori che una delle contraddizioni della world music è la fruizione esotica occidentale e che questo problema te lo sei posto das subito nel momento in cui una collaborazione musicale si trasformava in un concerto e in una produzione per festival…
Come ho detto prima, questa era una ricerca personale e non doveva diventare una band perché pensavamo che il denaro avrebbe fatto marcire la Banga e che la luce dei media avrebbe potuto trasformarli in un’attrazione turistica. Quando arrivarono le prime proposte di concerti, ne abbiamo avuto paura. Eravamo convinti che il denaro avrebbe rovinato tutto. Ed è esattamente quello che è successo dopo. Su insistenza dei nostri musicisti di Tozeur, abbiamo accettato la sfida, a condizione di parlare il più possibile, di dedicare del tempo a spiegare tutto, dalle strategie di gruppo ai bilanci economici. È stata chiesta una sola condizione: tutti i membri del gruppo dovevano imparare l’inglese, per comunicare con giornalisti, tecnici e agenzie. Gianna ed io non volevamo rappresentare unilateralmente l’Ifriqiyya Électrique. Il nostro sogno era allora creare una rete di lavoro e un modo per comporre/organizzare, quindi passare questa tecnica ai nostri amici tunisini, e infine a lungo termine andarsene dal gruppo lasciandogli una macchina funzionante. Incomprensibilmente, le relazioni si sono guastate nel maggio 2018, prima di tutto con Youssef. Il mio migliore amico, il mio compagno di Jerid, cominciò a spendere immediatamente tutto il suo denaro, trovandosi continuamente senza soldi, nonostante cachet, visti, viaggi e alloggi pagati. Youssef cominciò a rubare, insultare e poi minacciare di morte, esercitando un ricatto continuo con tutti. Youssef è stato tenuto nel gruppo fino all’impossibile, poi sostituito da Fatma Chebbi nel settembre 2018. Fatma è stata scelta da suo zio, Yahya Chouchen. Eravamo felici che un’altra donna si unisse a noi. Inoltre, Fatma parlava bene il francese e l’inglese e studiava contabilità, il che rendeva perfetta la comunicazione. Ma i problemi ricominciarono .... Perché alla fine avevamo torto e lo sapevamo: il denaro avrebbe fatto marcire l’umanità.
Non provo risentimento verso la mia famiglia di Tozeur, ma mi sento estremamente colpevole di averli esposti al capitalismo selvaggio delle nostre società. Certo, loro stessi ci considerano come milionari bianchi che devono sfuttare, finanziariamente e culturalmente, avvolti in cartoline ben formattate. Ma sinceramente, penso che le abiezioni di cui i nostri antenati sono stati colpevoli siano in qualche modo passati nel dna africano ed oltre. L’Occidente ha sfruttato tutti i continenti e li sfrutta ancora. Non dimenticare che la world music è stata – ed è tutt’ora – progettata esclusivamente e solamente dall’industria musicale occidentale per un pubblico radical-chic in cerca di esotismo facile. Tutti gli investimenti e i guadagni della world music rimangono in Occidente. In Asia, Africa, ecc ... la parola stessa world music è sconosciuta: dicono solo “musica”. Il male è in tutti noi.
Come si è indirizzato il vostro lavoro di ricerca e di registrazione sul campo, anche in relazione ai rapporti con i musicisti locali?
Le ricerche sono sempre state iniziate da imponente letture di libri di etno-musicologia, di studi per mesi, se non anni, prima di fare il primo viaggio. Il modo di registrare è sempre rimasto lo stesso: prime registrazioni eseguite sul campo (field-recordings), seguite, quando è stato possibile, da un sommario multi-tracking, quindi un’enorme sessione di warping con Abbleton Live per ‘gelare’ le strutture e la time-line per non cambiare assolutamente nulla (regola primordiale) e perche il computer possa comunicare, quindi finalmente scrivere arrangiamenti elettrici sul terreno, discutandoli con i musicisti, provandoli e, eventualmente, cambiarli rapidamente. Le prime prove nel deserto furono incredibili. Avevamo comprato un piccolo impianto ultra-potente, ma i tre musicisti coprivano tutto, in un volume mostruoso. Un gruppo come Meshuggah sembravano chierichetti. Pura felicità…
Ci puoi raccontare come si è evoluto, in questi anni, il vostro approccio agli arrangiamenti dei brani ed in particolare il dialogo tra gli strumenti elettrici e quelli tradizionali?
Non c’è stata une reale evoluzione nel modo in cui collaboriamo: abbiamo sempre voluto iniziare dal materiale originale. Per un momento, siamo rimasti sorpresi dal ‘successo’ del primo album “Rûwâhîne”, questo ci ha messo in discussione.
Quindi abbiamo deciso di saltare questa domanda, era l’unico modo per rimanere onesti. L’unica differenza è stata di passare molto più tempo insieme per discuterre degli arrangiamenti.
L’elemento visuale e documentaristico è parte integrante del progetto… Come si coniugano immagini e ritmo nel vostro live act?
Mi sono sempre sentito frustrato nei concerti etno/world: ascoltando un artista meraviglioso che viene da l’altra parte del mondo, ho sempre voluto sapere di più, conoscere la sua vita, il suo habitat, la sua famiglia, ecc ... Le proiezioni in concerto sono quindi per compensare per quella frustrazione. Tecnicamente parlando, in concerto le immagini vengono sincronizzate con i beats del computer grazie ad Abbleton Live. È di una facilità sconcertante.
Cosa racchiude il titolo del secondo lavoro, “Laylet el Booree”, che significa “La Notte della Follia”?
“Laylet el Booree” è l’ultima parte del raduno annuale della Banga (all’infuori dei rituali che si svolgono tutto l’anno). È l’ultima notte, quando gli spiriti sono invitati, quando si impossessano dei corpi. Questo è ovviamente un momento speciale, aperto a tutti.
In questo flusso sonoro, come nasce e viene selezionato per la scaletta del disco?
Come per “Rûwâhîne”, la sequenza dell’album “Laylet el Booree” è esattamente la sequenza delle registrazioni decisa dai nostri amici di Tozeur. Perché questa sequenza ha certamente un significato per la Banga. Alcune canzoni non possono essere eseguite prima di altre.
Hai già fatto qualche nome, ci presenti i musicisti/maestri della comunità tunisina che suonano con voi?
Fatma Chebbi è l’avanguardia della comunità della Banga, la nuova ondata. Orgogliosa dei suoi diritti, libera e laureata, Fatma incarna una sicura evoluzione del Banga. Fatma controlla il buon sviluppo dei rituali, colei che si prende cura dei posseduti, che fa attenzione a che i bambini non si feriscano, che blocca le macchine quando il rituale si svolge nelle strade... È anche il tempo metronomico, sicuro e implacabile dei tchektchekas (percussioni metalliche). Yahia Chouchen è il detonatore della Banga. Adorato dalla comunità del deserto per la sua estroversione, la sua empatia e il suo dono innato per trascendere l’assemblea, è il primo a partire, a librarsi, trascinando l’universo intero, impossessandosi della conduzione del rituale quando il ritmo rallenta, ripassandola, volteggiando per lasciarsi cadere e balzare, e questo per ore ed ore. Yahia Chouchen è l’anima solare della Banga, il sorriso sulle labbra, la testa allo zenit, il diletto. Tarek Sultan è lo sciamano, il mistico, l’illuminato. Vicino al Muqqadem (maestro) della Banga di Tozeur, è sicuramente il prossimo depositario del patrimonio musicale della comunità. Tarek Sultan anche il rigoroso costruttore di tamburi tabla e dei crotali tchektchekas. Durante i rituali, Tarek è uno dei conduttori principali, colui che lancia i canti, le danze e i ritmi agli spiriti. In trance, l’ajmi (l’antica lingua subsahariana hausa) esce dalla sua bocca spontaneamente. Tarek Sultan è la voce calda, possente e roca della Banga.
Abbiamo passato molto tempo in Kurdistan, Dersim, per imparare dagli Alevi. Meno musica trance – odio quella parola – ma elegie lunghe e tristi. Ancora una volta, è il ruolo sociale, ma ancor più la vita Alevi che ci ha sfidato. In Dersim l’alevismo non è una religione ma un “percorso”, l’uguaglianza tra la donna e l’uomo è una realtà, l’educazione e il gli studi sono un dovere, così come il rispetto totale per la natura è una regola. L’amore per il genere umano è l’essenza dell’Alevismo. La vera Kaaba è il cuore dell’uomo. «Qualunque cosa tu cerchi, cercalo in te, non è a Gerusalemme, né alla Mecca, né nel pellegrinaggio», dice Hacı Bektaş Veli. L’alevismo è classificato nelle tradizioni sufi e le sue convinzioni sono paragonabili al panentismo. Se dice degli alevi discendenti dal mazdeismo, dello zoroastrismo. Convinti dal secolarismo, dalla laicità, si oppongono a qualsiasi intrusione di potere temporale (politico) nella sfera spirituale (o atemporale) e viceversa. L’organizzazione è più orizzontale che verticale, il senso della comunità umana è primordiale. Gli alevi si sentono molto vicini al comunismo se non all’anarchismo. Con l’isolamento geograficamente dovuto alle montagne Munzur Dağlari quasi impenetrabili e l’enorme braccio d’acqua del Keban Baraji, le tradizioni sembravano essere protette e preservate. Sul piano politico, un’immagine persistente associa il Dersim al dissenso, alla resistenza, alla rivolta. La protesta secolare della regione del Dersim, la sua autonomia nei confronti delle potenze centrali, hanno permeato durevolmente l’immagine e l’identità della regione. Il 16 aprile 2017, il Dersim ha massivamente scelto “Hayır/No”, votato a Ovacık al 95%. Perché l’apertura, l’umanesimo e il sentimento egualitario dell’alevismo spingono naturalmente i suoi seguaci verso il socialismo. L’alevismo non è una religione: è una via, una credenza. Queste due affermazioni sono il leimotiv che Pirs, Dede e gente per strada lanciano dopo ogni prima domanda. Le donne non indossano il velo, nessuno sta digiunando per Ramadan e nessuna va alla moschea. Un sincretismo gnostico di zoroastrismo, sciamanismo e Islam che sottolinea la crescita spirituale interiore piuttosto che l’apparenza esteriore della fede e considera la natura come santa. Il Dersim è spesso considerato la culla dell’alevismo (kızılbaşism). Insistendo sulla specificità dell’alevismo del Dersim, enfatizzando ulteriormente la natura eteroclita dei rituali, l’assenza di dogmi e l’importanza della natura all’interno del suo sistema di credenze, alcune ricerche concludono che l’alevismo del Dersim è più eterodosso e più sincretico delle sue varianti esistenti sul suolo anatolico. Questo particolarismo è rivendicato da molti abitanti del Dersim, che non si identificano quindi con l’alivismo in generale, ma con l’alevismo del Dersim. Un alevismo profondamente pacifico, per il quale il rispetto per la natura li identificava come ‘ecologisti naturali’.
Durante i nostri tour, in Europa, Cina, Asia Centrale o Africa, non avevamo mai incontrato una simile organizzazione. Abbiamo lasciato il nostro cuore a Tunceli e Ovacık, nel Dersim. “Alevilik Aşkına” è il nome di questa ricerca della Trans-Aeolian Transmission. Un diaporama di studio si puo vedere qui, così come una sessione di registrazione con Zeynel Dede. Il resto sarà tenuto il più segreto possibile.
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Il Ndoep senegalese è un desiderio remoto che abbiamo trasferito intorno al 2023 : non ridere, il tempo è gravemente carente. Sono in corso diversi progetti, ma la prossima destinazione è il Pamir, al confine con l’Afghanistan. Tutto ciò richiede tempo, organizzazione, conoscenza e denaro. Ne mettiamo da parte ogni giorno per sognare seriamente tutto questo. Una delle prime sessioni di registrazione tajike è visibile qui.
Ci saranno sviluppi discografici o concerti derivanti da queste due esperienze d’incontro?
Mai più. Li terremo il più nascosto possibile, in modo da non ripetere l’esperienza occidentale dell’Ifriqiyya Électrique. Solo i film saranno disponibili su Internet.
Ciro De Rosa
Ifriqiyya Électrique - Laylet el Booree (Glitterbeat, 2019)
“La notte della follia”: è questa la traduzione di “Laylet el Booree”, titolo del secondo album degli Ifriqiyya Électrique, esplosivo innesto del duo elettrico Putan Club, François R. Cambuzat e Gianna Greco, con tre musicisti della comunità Banga di Tozeur: la nuova entrata Fatma Chebbi (voce e tchektchekas), Yahya Chouchen (voce, tabla, tchektchekas) e Tarek Soltan (voce e tabla). Se, già nel titolo, l’album precedente era dedicato agli spiriti (“Rûwâhîne”), il nuovo lavoro mette al centro la cerimonia notturna di ricerca della trance e dell’estasi, con tre registrazioni in contesti diversi: a Tozeur (Tunisia), nella Casa Musicale di Perpignan (registrati da Joseph Poubill) e a La Carène di Brest (registrati da Paul Legalle). L’album del 2017, nel brano iniziale, metteva subito in chiaro gli interventi digitali cominciando con un rumore, un ‘vento’ che preannunciava l’ampio spettro sonoro a venire, per poi lasciare spazio a percussioni e voci, proprio come nei concerti dal vivo: una partenza in sordina che invita ad ascoltare l’intreccio di percussioni e coro che sa far crescere gradualmente tensione e volume sonoro. “Laylet el Booree” apre, invece, a tutto volume con “Mashee Kooka”, in cui le corde elettriche punteggiano e amplificano l’onda percussiva. Due minuti e mezzo mozzafiato, poi uno spiraglio di quiete e il coro che per due volte interroga il silenzio. Sorpresa: risponde un piano acustico, giusto un saluto a Randy Weston, un brevissimo diversivo. Con “He Eh Lalla” il flusso sonoro riprende intenso, aggressivo e purtroppo più ‘quadrato’ rispetto a “Rûwâhîne”: gli accenti scanditi dalle tchektchekas banga sono sovrastate da altre percussioni, dal loro timbro metallico, da una scansione che privilegia la prevedibilità dei tempi forti. “Moola Nefta”, il quarto brano, uno dei più ampi (quasi sei minuti) arriva come un balsamo, rimettendo al centro il dialogo fra voce e tchektchekas, e quindi fra voce e coro, prima di intrecciarsi con basso e chitarra elettrica in un crescendo incandescente e vertiginoso. La sequenza interna ai brani e della scaletta complessiva racconta il movimento di tensione e rilasciamento tipico della possessione, l’esperienza sensoriale che qui intreccia sudore ed elettricità, ma che rimanda anche alla danza, alla cura, alla capacità di attraversamento e guarigione. “Habeebee Hooa Jooani” fa dell’alternanza l’elemento paradigmatico, saturando l’ambiente con l’elettricità delle corde per poi staccare ripetutamente la spina e far respirare il dialogo fra voci e tchektchekas, come avviene poi all’inizio di “Nafta Naghara” che offre anche echi di flauti, presto inghiottiti da metallo urlante. Se nel precedente album Cambuzat e Greco avevano cominciato una transizione che li vedeva inizialmente documentare e quindi interagire con i musicisti di Tozeur, qui il loro intervento in chiave di arrangiamenti e spinta sonora è decisamente più evidente, come se i diciotto mesi che hanno visto i musicisti in tour e su innumerevoli palchi, compresi Womex, Womad, Sziget, avessero inspessito l’amalgama del gruppo e, al contempo, avessero risucchiato i suoni nati nel deserto in una spirale marcatamente urbana e aggressiva. Ad un passo dai brani finali, “Wa Salaat Alih Hannabee Mohammad” offre 100 secondi di oasi spirituale interamente vocale. Poi è la volta di “Mabbrooka”, schiacciata dal ‘muro’ delle chitarre elettriche e, dopo un’ampia pausa, degli oltre dieci minuti di “Galoo Sahara Laleet El Aeed”, in cui è l’intensità a farla da padrona, purtroppo stemperata da basi ritmiche piuttosto scontate, meno efficaci rispetto ai picchi del primo lavoro. Vedremo se il nuovo tour permetterà di far dialogare i momenti migliori di “Laylet el Booree” con l’energia generativa di “Rûwâhîne”.
Alessio Surian
Foto Copyright Renaud de Foville