Aga Khan Music Awards, Fondazione Gulbenkian, Lisbona, 29-31 marzo 2019

Sirojiddin Juraev (Foto di AKDN/José Fernandes)
Tra il 29 e il 31 marzo si sono tenuti a Lisbona, negli eleganti spazi della Fondazione Calouste Gulbenkian, gli Aga Khan Music Awards. L’iniziativa è stata piuttosto differente da un semplice festival e le tre giornate sono state l’occasione (più unica che rara) per fare il punto sullo stato dell’arte musicale in area islamica. Strutturalmente gli Awards si sono articolati in tre sezioni principali: il 29 sera si è ascoltato un concerto nel quale la grande orchestra sinfonica della Fondazione Gulbenkian, diretta da Pedro Neves, ha ospitato alcuni degli artisti dell’Aga Khan Music Initiative in veste di compositori ed esecutori, come il tagiko Sirojidin Juraev sul liuto a manico lungo dutar, i siriani Basel Rajoub al sax soprano e Feras Charestan alla cetra su tavola pizzicata qanūn, gli afghani Homayoun Sakhi al liuto rubab e Siar Hashimi alle tabla, l’uzbeko Abbos Qosimov al tamburo a cornice doira e agli idiofoni qayraq. Il giorno dopo, 30 marzo, si sono avute le performances dei finalisti, portati all’attenzione della giuria da un vasto gruppo di nominators, come me, che con le sue nomine ha messo in gioco artisti di un’area geo-musicale molto più ampia dell’originaria area centroasiatica, alla quale sin dagli anni 1990 si è dedicata l’AKMI (Aga Khan Music Initiative). 
Ejaz Sher Ali Khan (Foto di António Pedrosa)
L’ordine di apparizione degli artisti, ognuno con venticinque minuti a disposizione, è stato estratto a sorte ed è così che la fresca mattina primaverile si è aperta con una infuocata sessione di Rocqawwali, sintesi tra il noto genere devozionale indo-pakistano qawwali e il rock, guidata dal carismatico Ejaz Sher Ali Khan, voce ed harmonium, accompagnato da chitarra elettrica e tabla. L’uso della chitarra elettrica, in realtà, è stato molto discreto, à la Michael Brook, mentre la performance ha seguito l’andamento tipico del qawwali: declamazione/cantillazione in ritmo libero di versi in urdu e in persiano su temi del genere amoroso mistico, seguita dall’entrata delle tabla, dall’enucleazione e dalla ripetizione ad libitum di versi poetici significativi per arrivare ad una graduale accelerazione del ritmo ed ad un parossismo finale. Di fronte ai molti sedicenti depositari della tradizione che cercano di riempire il vuoto lasciato dal compianto Nusrat Fateh Ali Khan, il giovane Ejaz Sher Ali Khan mi è sembrato davvero molto convincente, toccante e sincero nel suo stato interiore (hāl). Seguendo la logica della sorte e del caso, è stata poi la volta del siriano Mohamad Osman, in solo sul liuto a manico lungo tastato buzuq, che ha proposto un’alternanza di composizioni e improvvisazioni. Complessivamente ognuno dei quattro lunghi brani veniva svolto in tema e variazioni, con finali in ritmi ternari di tempo animato, 
Mustafa Said (Foto di AKDN/Bruno Colaço)
in un genere urbano leggero conservatorializzato, tipico di molta area mediorientale, con curiose analogie con le composizioni per mandolino di Raffaele Calace. Il terzo solista della mattina è stato il giovanissimo egiziano non vedente Mustafa Said, cantore e suonatore di liuto a manico corto ‘ūd. La sua performance ha alternato canto accompagnato sul liuto, canto in solo e improvvisazione puramente strumentale (taqasīm). Dopo una breve composizione cantata accompagnandosi sull’ ‘ūd, il giovane si è lanciato in un’improvvisazione vocale, non accompagnata, sui classicissimi versi, quasi nonsense, che cantano: Yā Layli, Yā Āyni (“O notte, o occhi”), passando poi bruscamente ad altro. Pur se in un sentiero così battuto, Mustafa Said ha saputo stupire gli ascoltatori per la sua padronanza nel canto tradizionale, per la sua dizione dell’arabo classico, per il gioco sull’ ‘ūd ma soprattutto per la sua sua ispirazione toccante, bruciante, spesso incurante dei canoni estetici. Dopo di lui è stata la volta di Ahmad Al Khatib, nato nel 1974 in un campo di rifugiati palestinesi in Giordania, oggi residente e docente in Svezia, che ha presentato sull’ ‘ūd alcuni brani originali composti da lui stesso, in un’alternanza elegante tra improvvisazione e composizione, tra episodi a ritmo libero e ritmati.

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