A cento anni dalla dipartita, rendiamo omaggio a Claude Debussy, compositore che sapeva mettersi costantemente in gioco per fini espressivi. Anticonformista, ironico, talvolta sarcastico nei giudizi, altre volte riflessivo ma sempre, con personale raffinatezza, diretto e schietto. Usava con disinvoltura il linguaggio sinestetico, apprezzando il “ρυθμός” (rythmόs) e la ricchezza della natura nonché la varietà degli stati d’animo e dei colori. Aperto al cambiamento e agli stimoli interculturali, ascoltava con attenzione e, come critico musicale, esprimeva senza riserve il proprio pensiero. Non desiderava essere etichettato, troppo importante era per lui la continua ricerca interiore a favore di uno stile originale. Aveva seguito un iter formativo accademico, ma non lesinava aspri giudizi contro le istituzioni conservatrici. Ebbe storie passionali e drammatiche con il mondo femminile. Riconoscente nei confronti di numerosi compositori del passato (Palestrina, Rameau, von Weber, Musorgskij), come critico ebbe modo di valorizzare diversi contemporanei e, seppur fugacemente, anche la specificità della musica popolare di alcuni paesi europei ed extra europei, di cui troviamo eco in brani quali “Pagodes”, “Iberia”, “La soirée dans Grenade”, “Le petit negre”. Nel 1889, in occasione della “Esposizione Universale” di Parigi, ascoltò con entusiasmo un’orchestra Gamelan di Sundra (Isola di Giava). Dal contributo di Bernard Dorléans, “L’influence du gamelan sur la musique de Debussy”, riportiamo le significative parole del compositore: «Si vous écoutez sans la déformation d’une oreille européenne le charme des instruments à percussion (de la musique javanaise), vous devrez admettre que les nôtres ne produisent guère plus que les sons primaires d’un cirque ambulant».
Verità profonde in sintonia con la natura
Claude Debussy (1862-1918) ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica moderna, grazie a uno stile essenziale, riservato, fantasioso nella sua (solo apparente) semplicità, talvolta caratterizzato da frasi melodiche brevi e spezzate, altre da arpeggi su accordi modali e scale esatonali, ponendo tecnica, indicazioni agogiche e varietà contrappuntistica al servizio di un pensiero musicale profondo, capace di far vacillare i pilastri armonici della tonalità. Le sue “images” sonore atomizzate sono in perenne movimento e richiedono all’esecutore di saper interpretare con sensibilità il significato dei suoni e dei timbri.
Debussy era eclettico, sapeva far riecheggiare atmosfere barocche, neoclassiche, romantiche, finanche quelle jazz come, ad esempio, nel “Golliwogg’s Cake-walk”. Come molti suoi contemporanei, in conservatorio aveva studiato e apprezzato Wagner, per le sue continue modulazioni o per l’uso ardito del cromatismo e delle armonie. Pur avendone assimilato la lezione globale in termini di aperture del discorso musicale, a torto o a ragione, il compositore francese, da più parti, venne considerato rivoluzionario e anti-wagneriano. Tuttavia, nel 1910, a un giornalista austrico dichiarò: «(…) Io non rivoluziono nulla; non demolisco nulla. Seguo tranquillo la mia strada, senza fare nessuna propaganda alle mie idee, come farebbe un rivoluzionario. E nemmeno sono un avversario di Wagner (…). Wagner si pronuncia per la legge dell’armonia: io sono per la libertà. La libertà, per natura, è libera. Tutti i rumori che si possono sentire intorno a voi possono essere resi musicalmente. Si può rappresentare tutto ciò che un fine orecchio percepisce nel ritmo del mondo che lo circonda. Certe persone vogliono per prima cosa conformarsi alle regole; io voglio, io, rendere solo ciò che sento (…) ». Ed ancora, per smarcarsi da certa artificiosa tradizione accademica, affermò che “… bisogna cercare la disciplina nella libertà e non nelle formule di una filosofia diventata caduca e buona solo per i deboli. Non ascoltare i consigli di nessuno, se non quelli del vento che passa e ci racconta la storia del mondo”. Maurizio Pollini ha evidenziato come la vera rivoluzione di Debussy sia «nel suono, elemento attraverso il quale ha aperto nuove vie». Un suono che, in ambito pianistico e orchestrale, continua a conservare straordinaria modernità. Un suono denso di significati che richiede all’ascoltatore e all’esecutore costante attenzione, indispensabile per farsi trascinare dall’onda poetica dello sviluppo compositivo. Ci riferiamo a opere come “Prélude à l’après-midi d’un faune” e “La Mer” oppure a brani pianistici come “Clair de Lune, Cathedrale engloutie, Rêverie, Hommage a Rameau”. Debussy provava speciale ammirazione per quest’ultimo compositore del quale scrisse che «diede un immenso contributo in quanto seppe scoprire la sensibilità nell’armonia; a notare certi colori, certe sfumature di cui, prima di lui, i musicisti avevano solo una sensazione confusa (…). Rameau, che lo si voglia o no, è una delle basi più salde della musica, e si può imboccare senza timore la bella strada da lui tracciata, malgrado il calpestio dei barbari e gli schizzi di fango sollevati dagli errori. È per questo, anche, che bisogna amarlo, con quel rispetto che si porta agli antenati un po’ severi, che tuttavia sapevano dire tanto garbatamente la verità». Ci teneva a dare lustro alla tradizione nazionale, ma con senso critico. Nel 1915, in un articolo, (tranchant) aveva scritto che, di fatto, «dopo Rameau non abbiamo più una tradizione francese (…) abbiamo smesso di coltivare il nostro giardino ma, di contro, abbiamo stretto la mano dei commessi viaggiatori del mondo intero.
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