Secondo capitolo discografico del progetto collaterale del polistrumentista Bob Salmieri (sax tenore e soprano, ney, daf, tambur), cuore e mente del raffinato recupero di memoria della Sicilia araba portato avanti da decenni da Milagro Acustico. L’espressione “Molòn Labè” del titolo ci riporta indietro al tempo della grecità: lo storico Plutarco, infatti, l’attribuisce a Leonida, il sovrano spartano che con un manipolo di soldati, alle Termopili, rifiutò la resa di fronte al preponderante esercito persiano di Serse. La frase ha assunto il significato simbolico di resistenza, rappresentando la dichiarazione di chi, pur di fronte a una sconfitta certa, non perde la dignità. Per il musicista siciliano “Molon Labè” figura l’urgenza di non perdere l’umanità, di non assuefarsi di fronte ai tragici avvenimenti contemporanei, che hanno gettato una nera coltre di morte su quel Mediterraneo, un tempo mare di confluenze e mescolamenti.
L’orizzonte disegnato dall’Erodoto Project è ampio: Salmieri unisce la sua sensibilità jazzistica a quella del pianista Alessandro de Angelis, con cui condivide la scrittura di una parte delle dieci tracce dell’album. A completare l’organico, ci sono Marco Loddo (contrabbasso), Giampaolo Scatozza (batteria) e Carlo Colombo (percussioni), dal vivo, poi, entra in scena anche la danzatrice Chiara Salvati. Se proprio si desidera incasellare il sound del quintetto, con buona approssimazione si può parlare di jazz mediterraneo, fluido e privo di forzature, come da subito si avverte nella piacevolezza d’ascolto della title track, messa in apertura del disco, che si protende nella morbida “Gods of Sicily” e nella compatta costruzione d’insieme che contraddistingue “Blues for Tony Scott”, scritta a quattro mani da Salmieri e de Angelis. Il respiro del ney guida “Leonida”, tema che si apre ad apporti ritmici e melodici di area-mediorientale, combinati con lo spirito improvvisativo del quintetto. Dopo il nitore e la scioltezza di “Silent Mammouth” entra “Dervish dream”, dove sax e piano disegnano atmosfere ammalianti. “Gitani di Camargue”, composizione del pianista, si impone per i più marcati sentori popolari, mentre lo stesso titolo spiega l’essenza di “Latino”. “Big Father” gira intorno al dialogo tra sax tenore e piano, sostenuti con misurata discrezione dalla sezione ritmica. Infine, l’appagante “Istanbul Bossa” qualifica ancora il lavoro, svelando ancora una volta il riuscito compenetrarsi di andature ritmiche anatoliche e di procedure jazz. Disco fascinoso ed espressivo.
Ciro De Rosa
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