La musica è bella e come ogni cosa bella bisognerebbe sempre lottare per averla e per goderne. Roma, città meravigliosa e antica, in questo senso deve essere anche molto saggia, perché ci consente spesso di assaporare certe gioie, ma non senza la dovuta fatica: una vecchia zia che impartisce lezioni di morale!
E così, complice un tempo birichino, l’orario di rientro a casa, il consueto delirio disordinato prenatalizio, una partita di pallone fatta in un orario malsano e un ingorgo di autobus confusi a Piazza Mazzini, Daniela Enrico ed io siamo arrivati tardi al Concerto dei Pupi di Surfaro all’Auditorium Parco della Musica. Per chi non è di Roma spiegare che abbiamo impiegato un’ora e un quarto per andare da Via Asiago all’agognato Auditorium probabilmente non avrà alcun significato. Per chi invece a Roma vive e tribola credo che aiuti a spiegare bene la situazione, senza dar altre spiegazioni. E non chiedeteci di andare a piedi: la nube tossica dell’incendio alla discarica è ancora nell’aria…
E così siamo riusciti a entrare in sala con colpevole ritardo, perdendoci tutta l’apertura del concerto di Danilo Ruggero, che ha fatto quattro pezzi – ci hanno poi raccontato – di pregio e qualità. Non abbiamo alcun motivo per non crederci e anzi, questo ha accresciuto il nostro rammarico per il ritardo.
Non abbiamo neanche sentito l’apertura dei Pupi, ma per fortuna, come per ogni ciclo che si rispetti (e non si dica una sfera e basta), il concerto si è chiuso proprio come si è aperto: con la veemente, definitiva, aggressiva, risolutiva, magnetica e energizzante “Li me’ paroli”, brano che nel 2016 ha portato I Pupi a vincere il Premio Andrea Parodi: pare che, come zolfanelli, seppero accendere la platea. D’altronde per loro è impossibile che questo non accada ovunque scelgano di transitare; anche solo a guardarli tutti e tre (Pietro Amico alla batteria, Salvo Coppola al basso e quella forza della natura con la voce, coi capelli, con gli occhiali, coi pugni chiusi e con il resto del corpo che è Totò Nocera) viene voglia di lasciarsi travolgere da
questo loro genere musicale, questo New Combat Folk, o meglio: “Nu Kombat Folk”, perché le lingue sono importanti. Non è l’unico premio ricevuto quello del Parodi, così come non è la loro unica partecipazione: a ogni manifestazione o festival si sono fatti notare per il loro sound che scuote le linfe vitali di chiunque. Di certo i Pupi di queste partecipazioni hanno fatto tesoro, visto che ripropongono ancora le cover scelte in quelle occasioni, come “Il bombarolo” di De Andrè o come la versione scintillante che hanno dato anche ieri sera di “Ruzaju”, brano cantato da Parodi ed Elena Ledda in “Rosa Resolza.”
E se proprio l’altro giorno ci si interrogava con alcuni amici e addetti ai lavori della necessità nei concerti di parlare o dare troppe spiegazioni, va detto che le parole di Nocera in alcuni momenti sono davvero “bombe” e di certo piccoli passaggi letterari, come quando, per presentare “Suttaterra”, ha raccontato della sua Sicilia, del legame con le zolfare, col buio antro sotterraneo delle miniere, ma anche con quel vecchio mondo della schiena abbassata di fronte al lavoro, dello sfruttamento, di certe regole antiche dove sembra che nulla possa cambiare per quelli che una volta venivano chiamati gli “Ultimi”. Ed eccolo il richiamo a Pirandello, a quel “Ciàula scopre la luna”, a quel ragazzo che smette di avere paura e scopre la magia della grande luna, della sua luce che illumina, senza accecare.
E tra tanta Sicilia arriva anche il brano in italiano, dedicato alla Resistenza: “Per amore, per la libertà” e l’altro per parlare di Dio, un Dio particolare, che costruisce “L’arca di Mosè”, un Dio degli ultimi, della povera gente, degli afflitti, dei diseredati, di un mondo che ci piace pensare sarebbe piaciuto a Pasolini.
Due parole vanno spese ancora per “ ‘Gnanzou”:
il brano, che ha vinto il premio “Voci per la libertà – una canzone per Amnesty” 2018, è raccontato da un video uscito in occasione dei Settanta anni della Dichiarazone Universale dei diritti dell’uomo. Il brano canta della mattanza del Tonno Rosso in Sicilia. ‘Gnanzou è il verso della “Cialoma”, canto tradizionale che accompagnava questa particolare pesca. Il Mare si tingeva del rosso del sangue dei poveri pesci e non serve certo spiegare quali richiami attuali questa immagine di dolore riserva e perché questo brano - che colpisce al cuore - rende vana ogni nostra lamentela per una fila di traffico in una città caotica. Siamo esseri fortunati e non dovremmo mai dimenticare che il luogo di nascita è solo una casualità geografica. Eppure lo facciamo spesso tutti, soprattutto nei giorni di pioggia, prima di Natale, durante una partita di pallone.
Grazie ai Pupi di Surfaro per avercelo ricordato ieri sera.
Elisabetta Malantrucco
Foto 1-3 di Alberto Marchetti
Foto 2-4 di Max Dedominicis
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