Si è mosso tra contest e Festival, ha vinto premi di prestigio come il Bindi e Musicultura; si è fatto apprezzare in giro per l’Italia promuovendo il suo primo disco. Lui è il giovane cantautore romano Mirko Mancini ma il nome d’arte è Mirkoeilcane, anche se assicura di non avere cani. Chissà se Mirko sa che a Roma il cane è abbinato a San Rocco. E non a Sanremo, dove sta per andare: parteciperà infatti alla competizione nella categoria “Nuove Proposte” - diretto dal Maestro Fio Zanotti - dopo aver superato le selezioni della serata televisiva “Sarà Sanremo”; il brano si intitola Stiamo tutti bene ed è prodotto da Steve Lyon, uno che nella vita si è occupato di Paul McCartney, Depeche Mode, The Cure. La canzone parla del dramma delle migrazioni e lo fa in modo molto particolare. E anticipa l’album di prossima uscita: "Secondo Me". Per parlare di tutto questo – ma non solo – abbiamo fatto con Mirko una bella chiacchierata: anche se la forma è quella dell’intervista telefonica, in realtà il clima è stato quello che si crea davanti a una birra, quando si ha la fortuna di trovarsi di fronte un interlocutore davvero molto intelligente e pieno di ironia.
Mirko come stai?
Bene, solo un po’ di raffreddore di stagione.
Non te lo puoi permettere in questo momento: stai per andare a Sanremo! Anzi raccontami subito come sei passato da “Un giorno voglio fare il cantautore” a tutto questo rumore e attenzione intorno a te. Un po’ ti ha travolto?
Un po’ mi ha travolto, se devo essere sincero e per quanto riguarda la prima domanda, beh, come sono arrivato a questo io me lo ricordo nei dettagli. In realtà è stato un percorso legato alle persone: io credo che le canzoni debbano piacere a chi le ascolta; è successo che sempre più persone si sono appassionate alle cose che canticchio.
Proviamo a capire come è andata. Tu sei molto bravo sul palco e credo che devi averlo capito a un certo punto da solo. Ma quando hai cominciato a suonare? Eri studente? Avevi la band coi compagni di scuola?
Beh! A suonare ho cominciato nella maniera più classica: come nella migliore tradizione italiana ho preso la chitarra di papà che era a casa e ho cominciato a strimpellare. Poi naturalmente sono passato al gruppetto con gli amici, le prove, ho conosciuto persone, ecc. Alla fine ho deciso che volevo studiare musica. A scuola ho conosciuto altri ragazzi che avevano la mia stessa passione: sono quelli con cui ancora adesso suono.
In che scuola sei andato?
Ho frequentato il Saint Louis.
E dal Saint Louis sei arrivato direttamente a farti produrre da Steve Lyon: un bel salto!
È stato un salto decisamente alto (ride); quello con Steve è stato un incontro meraviglioso: dopo un mio concerto mi ha fatto i complimenti per alcuni brani e per il mio modo di fare sul palco.
Ancora prima di questo incontro hai cominciato a uscire molto allo scoperto, a suonare dappertutto, a partecipare a contest e Festival. E hai sbancato, perché hai cominciato a vincere ovunque. Ogni volta che salivi su un palco ti davano un premio!
È vero: è andata così; guarda: ormai ci rimango male quando salgo su un palco e non mi danno un premio! (ride) A parte gli scherzi: è stato davvero un allineamento di pianeti fortunato.
Secondo me il passaggio a Musicultura è stato però decisivo, vista anche la presenza di Rai Uno.
E sì! quello è stato un bell’acceleratore.
Facevi tutto questo anche per promuovere il tuo primo disco, "Mirkoeilcane": raccoglievi perciò il frutto di un lavoro fatto in non so quanto tempo…
Quella è stata un po’ la fatica della vita precedente: in quel disco ci sono tutti brani che avevo scelto di tenere per me e di non dare agli artisti per cui scrivevo musica. Li ho messi tutti insieme; il tempo effettivo di registrazione e di realizzazione sarà stato di sei mesi; in realtà il cd contine canzoni scritte molto tempo fa.
E con questo disco hai avuto fortuna e riconoscimenti che ti hanno fatto apprezzare e conoscere. Sei stato giudicato, proprio tu che hai una posizione critica, come dimostra il tuo brano La giuria. Questo permette anche una riflessione su un certo mondo di mezzo nella musica: c’è chi suona e canta e c’è chi ascolta. Tra loro, i famigerati “addetti ai lavori” (giornalisti, critici, uffici stampa eccetera) che non si capisce bene cosa facciano. Anzi, cosa facciamo.
Ma no, io non ho nulla in contrario: ci sono giurie e giurie. Io me la prendo con quelle che tutto giudicano tranne la musica. Mi riferisco a un certo mondo televisivo.
Ai Talent?
Sì, perché mi rendo conto che pur parlando di musica, poi la musica non la aiutano in nessun modo. Non si parla mai di scrittura di canzoni, ma di cover casomai. E comunque l’attenzione è più su chi giudica che su chi canta.
Se i Talent – come si ventila ormai da un paio di anni - decidessero di aprire anche agli autori, come la vedresti? Si tratterebbe dell’esposizione pubblica del massimo momento creativo. Come la vivresti?
Sinceramente una cosa così la trovo lontana dalla realtà; non lo so, forse sembro troppo categorico, ma per quel che mi riguarda scrivere una canzone è cosa che si fa in un eremo, lontano da chiunque; non ritengo credibile che possa riuscire sotto i riflettori; perlomeno io non potrei. Magari c’è quello che con un pubblico davanti si galvanizza e scrive il brano più bello della storia; io non sarei in grado di farlo.
È probabile.
Un Talent no, ma passare dal vincere il Premio Bindi a provare a vincere il Festival di Sanremo sì.
E sì. E senza togliere poi proprio niente al Premio Bindi, che è stata una delle esperienze che ricordo con maggior piacere. Poi ero con la band e ci siamo davvero divertiti.
Hai partecipato pure a Botteghe d’autore nel 2016 ma quello non lo hai vinto eh! Ti manca.
E sì, mannaggia! Però ha vinto in quella edizione una veramente molto brava e che lo meritava: la cantautrice siciliana Francesca Incudine.
Però smettiamo di girarci intorno e parliamone: devi andare a Sanremo tra pochi giorni, che effetto ti fa?
Un effetto strano. Io 30 Festival li ho visti dal divano di casa e ho 31 anni: uno quindi me lo vedo dal palco, dal vivo! Non lo so: forse non ho realizzato bene quello che sta per accadere, ma credo sia una cosa importante, perché quello che vorrei moltissimo – e credo che poi sia quello che vogliono tutti quelli che fanno musica – è che le mie canzoni arrivino a più persone possibili e in effetti non mi sembra che ci sia un posto migliore di Sanremo in questo senso. L’unica paura è essere identificato come “quello della canzone sugli immigrati”; io vorrei invece attenzione sul progetto complessivo.
Beh però il tuo brano, Stanno tutti bene, affronta un problema fondamentale, forse il tema principale dei prossimi anni; l’altra sera, ad un concerto, i cantautori Erica Boschiero e Carlo Valente - ognuno per conto proprio - hanno interpretato due loro pezzi – peraltro bellissimi quanto il tuo – proprio su questo dramma delle migrazioni. Se questo accade è perché viene percepito come fondamentale, al di là dell’occupazione mortificante che la politica ha fatto del problema, ad uso e consumo delle campagne elettorali e mentre intanto la gente affoga e muore. Alla fine quindi succede che l’artista riesce a cogliere interamente sia l’importanza che la tragicità.
E io infatti penso che sia questo il ruolo di chi vuole scrivere canzoni, proprio al contrario della politica.
Ho letto che la storia narrata è vera: Mario esiste. L’hai letta sul giornale o hai conosciuto la persona?
La storia è vera in parte e nel rispetto di chi me l’ha raccontata; c’è anche un po’ di fantasia ovviamente, ci ho lavorato sopra. La persona che ho chiamato Mario mi ha raccontato direttamente la sua esperienza il marzo scorso; e mentre raccontava sorrideva. Incredibile! Ora ha una ventina d’anni.
Hai fatto una scelta coraggiosa. Ma sai che anche se non vuoi passare per “quello della canzone sugli immigrati” accadrà lo stesso, vero?
Sì, ma sono pronto. Il problema non è la migrazione; è che non voglio essere giudicato e connotato politicamente. Non voglio che mi si affibbino appartenenze. La mia è una generazione che ha vissuto il peggior momento politico del paese. Non sono per niente appassionato della materia.
Certamente il mondo politico dà una pessima immagine di sé, però la Politica in senso più alto, come interpretazione della vita, riguarda tutti. C’entrano poco i partiti e molto una canzone come la tua.
Vero, ma "Stanno tutti bene" non esprime giudizi: mira a creare un’empatia con la storia.
È proprio quello che fa infatti. C’è un film del 1996, "Il Momento di Uccidere", in cui un uomo di colore uccide gli stupratori della figlioletta. Nell’arringa finale l’avvocato difensore racconta tutta la storia della bambina facendo chiudere gli occhi ai giurati. Alla fine li invita a immaginarla bianca. È un po’ quello che hai fatto tu: miri a creare attenzione sul bambino, gli dai un nome comune, lo fai giocare a pallone. Crei empatia tra lui e chi ascolta, suscitando identificazione e solidarietà.
Io l’ho chiamato Mario proprio perché volevo fosse spersonalizzato. Di Mario non conosciamo colore, religione, paese d’origine. L’ho fatto perché tutto questo volevo restasse fuori. Mi interessava la vicenda dal punto di vista umano. Ma sia chiaro: non voglio apparire lontano da quello che significa questa storia e cosa racconta. La responsabilità me la prendo.
Invece parliamo di musica, di come il brano è costruito, di questo parlato incalzante. Come mai questa scelta?
Ti dico la verità: di solito quando scrivo una canzone vado in sala prove e dico: “ho scritto una canzone, ve la faccio sentire” oppure vado da mamma e faccio lo stesso. Ecco. Questa, dopo averla scritta non la facevo sentire. Mi dicevo: “Ma che ce faccio? È parlata!”; non avevo un riferimento preciso: semplicemente questa è stata la modalità con cui mi è venuta e pure se di solito le cose le cambio, questa volta non l’ho voluto fare: era uscita così di getto, sembrava che nemmeno venisse da me. L’ho lasciata così per permettere di dare massima attenzione alle parole, al loro significato. Una melodia classica avrebbe potuto distrarre.
E chi te l’ha prodotto artisticamente ha capito questa cosa.
L’ha capito benissimo.
Tui hai un bell’entourage, un bel gruppo intorno che ti aiuta e ti sostiene; e sei anche molto indipendente.
Molto. Era quello che volevo; non ti nego che i contatti con situazioni più grandi ci sono stati ma io ho scelto volontariamente di rimanere in una dimensione umana.
E grazie a questa dimensione stai per uscire con un nuovo disco.
Sì, il disco doveva uscire a novembre, ma vista l’occasione abbiamo deciso di farlo uscire coi tempi di Sanremo. Si chiamerà "Secondo Me".
Raccontamelo un po’.
Sono molto orgoglioso, perché in realtà è il primo disco che non faccio in camera mia (ride); è una grande esperienza e sono coinvolte persone come Steve Lyon. Ogni tanto lui mi mandava i provini delle canzoni; le sentivo e mi dicevo: “ma come? Ma siamo sicuri che questa l’ho scritta io?”. Insomma sono proprio contento e non vedo l’ora che qualcuno mi dia il suo parere.
Il disco è fatto con pezzi che vengono ancora da lontano e che non hanno avuto spazio precedentemente, oppure sono canzoni tutte nuove?
È tutto di recente fattura: sono 11 brani come nel disco precedente e spero veramente che vadano bene.
Ora ti faccio una domanda particolare: lo consideri un disco di Canzoni d’Autore? Con questo termine intendo una cosa ben precisa: un lavoro che nasce – al di là dell’effettivo valore estetico – da un’intima esigenza di esprimere se stessi e la propria visione del mondo. Mentre una canzone Pop – sempre tenendo da parte la bellezza – è quella che nasce con l’esigenza di raggiungere un pubblico vasto che in quella canzone si riconosca e si identifichi, al di là delle intenzioni personali dell’autore. Cosicché una Canzone d’Autore può essere anche Pop ma non è questo che ha mosso chi l’ha scritta. C’è chi considera oziosi questi discorsi, tu invece come la vedi?
Le canzoni di questo disco sono Canzoni d’Autore nel senso che intendi tu; però nella mia testa l’idea della Canzone d’Autore suona di nicchia, anche se io sono il primo che ascolta questa musica.
Stiamo parlando dell’immagine “icona” del cantautore sulla sedia con la chitarra, anni ’70?
Sì. Comunque sono sicuro che la musica, se è fatta con sincerità e se corrisponde alla persona che la canta, è già di per sé una gran cosa. L’importante è la coerenza. Lo dico perché penso a certi interpreti che cantano brani da cui sono lontanissimi. Mi auguro invece che chi ascolterà il mio disco capisca che io penso in tutto e per tutto quello che canto, anche nelle virgole e nelle pause.
Di che parla?
I temi sono un po’ i soliti: c’è il mio punto di vista sull’amore, sul lavoro, eccetera. Il filo conduttore è sempre l’ironia. Me lo porto dietro da sempre e non me lo scrollo di dosso: è un disco coerente con me stesso.
Tu hai dei riferimenti artistici particolari?
Io ascoltavo e ascolto molta musica: volevo diventare il chitarrista più forte del mondo! Forse all’inizio ascoltavo i Beatles, oppure Jeff Beck, che è il mio preferito. Poi l’attenzione è andata sui cantautori; amo in assoluto Dalla, De Gregori, Fossati, ma anche altri.
Stefano Rosso… penso che il trattamento che ha avuto lui sia una delle ingiustizie più grandi di tutta la storia della musica!
Sono d’accordo. Non te l’ho citato a caso e neanche Rino Gaetano, anche se siete lontanissimi. È però la tua capacità di stare sul palco che mi fa pensare a lui.
Gaetano non è tra i miei preferiti, ma solo perché mi piace un altro modo di scrivere; riconosco però in lui un’altezza incredibile; e pure a lui non è stata riconosciuta in vita.
Ora si apriranno strade differenti per te, ma fino ad ora hai avuto difficoltà a suonare?
Sì, è difficile: la storia è quella che conosciamo, con tutte le difficoltà a trovare posti per suonare. Io credo che il problema sia nel fatto che il pubblico è disabituato a mettersi seduto a sentire cose che non conosce; la colpa è anche di chi prima di me si è messo a scrivere canzoni più per fare compagnia mentre si fa la spesa alla Conad che per far riflettere. Però io sono positivo; fortunatamente nel mio caso ora c’è più attenzione e il progetto è più credibile. Ma più in generale mi sembra che ci sia più attenzione sulla musica: ci sono tanti cantautori bravi che vengono ascoltati, c’è più movimento rispetto a qualche tempo fa.
Sì: l’aria sta cambiando e ce ne stiamo accorgendo un po’ tutti. Certo che però in Italia sarà sempre più difficile che altrove, perché il Paese è davvero malandato.
È vero, ma la musica serve anche a questo: a tirarci su da tante bruttezze.
Elisabetta Malantrucco
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