Ambra – Terre del ritorno (S’ardmusic, 2017)

Il nuovo album di Ambra, “Terre del ritorno”, è un insieme di immagini che spaziano tra la Sardegna e altre regioni mediterranee. Immagini organizzate in una sequenza esteticamente organica e musicalmente piacevole, che non si ripetono e, soprattutto, non ripetono passivamente l’immaginario entro cui spesso sono inquadrate. Immagini complesse e profonde, sulle quali Ambra e i suoi collaboratori lavorano fino al dettaglio, per rendere al meglio la brillantezza dei “luoghi” di riferimento e rendere giustizia alla profondità di una scrittura piena di riferimenti straordinari. Innanzitutto sul piano musicale, nel quale convergono molti strumenti, dal bouzouky alla programmazione elettronica, passando per armonica, bandoneon, dobro, banjo, mandolino, fiati, launeddas, archi, perccussioni ecc. E poi sul piano dei contenuti e delle idee che li sorreggono, entro cui ogni brano si configura come un racconto estremamente efficace, grazie alla narrativa scelta e, a ben vedere, alle singole parole, pensate e organizzate per il loro valore evocativo e, allo stesso tempo, pragmatico: “Passano gli anni e aumentano i parenti/ la bambina e la moglie nel quartiere/ col cuore gelato e spaventato/ allontanarsi così non è uno scherzo”. Come si conviene a un album ben fatto, tutto torna nella circolarità dei significati, coinvolgendo chi ascolta nel racconto che poggia sul ricordo ed evoca un tempo passato ma pensato con vivida lucidità. E tutto poggia su un equilibrio (direi maniacale) fermo e a tratti disarmante, per sedare il fascino del riflesso intenso delle musiche, che spaziano velocemente da un ambito a un altro e reintroducono, nel circolo virtuoso di un’idea piena e strutturata (direi perfettamente applicata), un panorama sonoro finalmente senza confini formalizzati. Mi spiego meglio: la sensazione più forte è di ascoltare una grande riflessione sul suono e su come questo possa allo stesso tempo definire ed essere definito da una storia che si vuole raccontare. È l’idea dell’album di concetto, cioè dell’album inteso e sviluppato dentro una sequenza di tratti, di livelli connessi, che gradualmente si giuntano e definiscono un profilo compiuto. Allo stesso tempo è come se ognuno dei dieci brani in scaletta avesse l’autonomia per sostenere e sviluppare altre prospettive, anch’esse potenzialmente coerenti e innovative. Prendiamo, a titolo di esempio, “Comare Arza”, un brano (di cui – come per tutti gli altri brani – possiamo leggere il testo in dialetto, italiano e inglese) che guarda alla cultura tradizionale sarda e che riconduce la logica dei brani in una dimensione più tradizionalmente popolare, grazie soprattutto alla presenza delle launeddas di Luigi Lai e, in generale, a una struttura più compressa, sia sul piano del ritmo che su quello melodico, che si fondono in un andamento intenzionalmente ipnotico e trascinante. In questo quadro la voce, sebbene percorra un solco più conosciuto e riconducibile a un’espressività tradizionale, riesce a sollevare il brano sopra l’esperimento della riproposta, aggiungendo un importante grado di profondità, ampliando lo spettro espressivo e la struttura stessa del brano. Le launeddas – che dialogano, anche se attraverso una sorta di intermittenza, con organetto, chitarra, bouzouky, mandolino e percussioni – rappresentano il perno più forte. E riescono a riportare l’intero andamento a una dimensione certamente popolare, ma allo stesso tempo evanescente, meno tangibile. In questa evidente convergenza prende forma la forza del brano e – seppur in gradi diversi – di tutto l’album. Perché è qui che si genera la tensione necessaria e, perché no?, l’irregolarità di un procedimento di contaminazione, che tende al massimo la forza di ogni elemento e irradia un riverbero cangiante: in parte riconoscibile, in parte appena percettibile, in parte coerente con la dimensione “mediterranea” della scrittura e dell’interpretazione. 


Daniele Cestellini

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