Mohsen Namjoo – Motantan (Daf Daf, 2020)

La voce di Mohsen Namjoo, soprannominato il Bob Dylan iraniano, riecheggia nella sua poliedricità espressiva nel nono album in studio dell’artista, “Motantan”. Il disco è pervaso dai toni malinconici che caratterizzano gran parte della produzione musicale iraniana, esposti con un mix di tecniche, stili, sonorità e forme compositive sincretiche, figlie di musiche occidentali ed orientali. Nato a Mashhad, centro sacro sciita, Namjoo inizia il suo rapporto conflittuale con la musica prima di spostarsi, da adulto, a New York. Conflittuale per vari motivi: in primis perché in una città come Mashhad le pratiche musicali, seppur presenze costanti da secoli, erano scoraggiate; in secondo luogo, gli interessi del cantante erano in contrasto con le pratiche pedagogiche locali che favorivano di gran lunga l’insegnamento del radif, il repertorio classico persiano. Abbandona così gli studi con Darioush Tala’i presso l’Università di Teheran per concentrarsi sulla composizione ibrida che lo caratterizza, suonando il setar emulando accordi blues e assorbendo gli affascinanti ritmi composti della musica iraniana. I suoi testi sono rappresentazioni delle contraddizioni umane e sociali, un’indagine sui comportamenti di singoli e gruppi dove nessuno viene risparmiato. Ne risulta una musica che è ibrida nello stile e soprattutto nella voce, manipolata con espressività teatrale da Namjoo che padroneggia diversi registri e stili vocali (incluse le tecniche iraniane di avaz a tahrir) giocando con l’ironia e la gravitas drammatica di diverse sezioni del testo. “Motantan” è rimasto in cantiere per cinque anni, durante i quali Namjoo ha rilasciato altri tre album in studio. Motantan in persiano significa “grandiloquente”, aggettivo che descrive chi usa un linguaggio particolarmente forbito per mostrarsi: una frecciatina, forse, all’etichetta tipica di certi ambienti musicali o delle gerarchie socioculturali che caratterizzano la società iraniana. Il disco apre con “Bad E Vazandeh”, introdotta da un rullo di tamburi a cui si aggiungono il basso, il setar e la voce di Namjoo. Il brano si sviluppa verticalmente armonizzando melodie, costruendo seconde voci e giocando con la timbrica. Segue un duetto di voce e kamancheh che, come nell’avaz e in tanta musica strumentale tradizionale iraniana, non è supportato da una pulsazione ritmica. “Zad Azm Babr” funge fondamentalmente da introduzione per “Che Bashad”, brano ternario dove è particolarmente apprezzabile la versatilità vocale del cantante. Un piccolo gioiello per gli amanti dei ritmi composti, “E’terafat E 45 Zarbi” è costruito, come suggerisce il titolo, su un ciclo ritmico di 45 (diviso in 19, 13, 13). Stranamente, il brano non appare particolarmente complesso (per quello che è si intende) perché segue la metrica del testo. La presenza di sillabe lunghe e corte nella lingua persiana crea spesso testi la cui metrica poetica suggerisce divisioni a cui da occidentali non siamo abituati. “An Man Navaran” si ispira a una melodia di Aref Qazvini, cantante, paroliere e compositore iraniano di inizio Novecento. Il video musicale enfatizza il carattere melancolico della canzone, un lamento per l’infanzia perduta della generazione di Namjoo cresciuta durante la guerra tra Iran e Iraq. Tra gli altri brani spicca anche “Man Az an Khak”, spiccatamente più Occidentale nel gusto strumentale dell’introduzione ma in perfetto stile Namjoo per l’architettura vocale: teatrale, sfaccettata, intrigante ed espressiva. Mohsen Namjoo è un artista unico per il grado con cui abbraccia stilemi differenti rimodellati seguendo un suo personalissimo gusto. La versatilità con cui si muove tra registri, timbri, decorazioni iraniane ed europee e la convinzione con cui recita superano ogni scoglio linguistico. “Motantan” è l’ennesimo successo di un eccellente comunicatore e cantastorie. 


Edoardo Marcarini

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