Oregon – Live In New Orleans (Hit Hat, 2019)

Questa lontana registrazione risale al febbraio del 1978, il gruppo è a New Orleans, sta pianificando di entrare in studio per registrare “Out Of The Woods”, lo farà due mesi dopo e quindi quella sera prova dal vivo gran parte di quel nuovo repertorio, il concerto verrà trasmesso via radio per il National Public Radio's "Jazz Alive". Ora la Hi Hat, nella collana “Timeless Live Recordings”, lo propone all'ascolto in vinile e in cd. Sin dalla sua creazione, gli Oregon, non assomigliavano a nessun altro gruppo musicale e infilarono uno dietro l'altro una serie albums strepitosi a cominciare dai titoli: “Musica Per Un'Altra Era Presente” (1972), “Colline Lontane” (1973), “Luce Invernale” (1974). Provenivano appunto da quella regione americana ma la loro anima musicale non aveva nazionalità, né confini segnati la loro creatività e per tutto quel decennio fu così. Riascoltare oggi i suoni degli Oregon degli anni '70 mi riporta di colpo a quei tempi lontani e ad una storia tragica di giganti e candele. Io avevo un amico di nome Ardigò in quegli anni, un vero “fratello musicale” con cui condividevo quasi in simbiosi, le passioni e gli ascolti e quel giorno ad una mia affermazione, rispose: “Se ti manca la Third Ear Band, ascolta questo gruppo!” e mi mise in mano un disco edito sul mercato italiano dalla Ricordi, dal titolo: “Oregon – Live in Concert”. Copertina meravigliosa, quattro polistrumentisti, scelta strumentale totalmente acustica e particolarmente affascinante ma il fatto che fosse registrato dal vivo era una idea che un po' mi disturbava. Lo presi e lo portai a casa. Il mio amico si era imposto una regola molto seria che applicava sempre quando ascoltava per la prima volta un LP: quella di iniziare l'ascolto dal lato B anziché dal primo e per rispetto a lui, quella volta feci altrettanto. Fu così che il primo pezzo che mai ascoltai degli Oregon fu “The Silence Of A Candle”, una composizione di dieci minuti di Ralph Towner che, in quella occasione, risultava essere praticamente per più di metà durata, un assolo di Collin Walcott al sitar. Finisce il brano e di applausi neanche l'ombra. Fermo l'ascolto perché non avevo mai sentito niente di simile. Ero rapito. D'accordo, mi piaceva molto il raga suonato dai maestri indiani ma questo non era QUEL suono. Il romanticismo che emanava aveva un profumo di una poesia tutta occidentale. Niente di indiano, tantomeno di americano. Questo è il modo in cui può pregare la poesia mistica europea. Certo quando fu la sua ora, l'oboe mi riportò per un attimo alla Third Ear Band, ma in quel momento la mia mente era oramai volata da un'altra parte. In un luogo di immobile Bellezza che non so descrivere, perché si era perso e dimenticato il nostro linguaggio e le parole rimanevano chiuse nella pietra sotto i cipressi del mondo. Saprò in seguito che il disco venne inciso dal vivo in uno studio della Vanguard, davanti ad una platea ristretta di invitati per l'occasione, il titolo era, in effetti, un po' ingannevole. Per la cronaca, proseguito l'ascolto, già dal brano seguente, che si intitolava "Tryton's Horn", capii perché l'amico, scopritore di pepite, mi aveva consigliato quell'ascolto….ma questa è un'altra storia, rispetto a quella di quest'oggi. Il misticismo di quel primo ascolto si è sedimentato nella mia mente e tutta l'opera che ho in seguito scoperto e seguito di questo meraviglioso gruppo è passata attraverso le dita di Collin Walcott che descrivono il silenzio di una candela. Con un salto di tempo, è la sera del 2 Novembre 1984 e mi trovo in Piazza Capitaniato a Padova, nella meravigliosa Sala dei Giganti, all'interno del Palazzo Liviano. Il Centro d'Arte degli Studenti dell'Università patavina ha organizzato un concerto degli Oregon. E' una sala a cui si accede dallo scalone in corte Arco Vallaresso e che ha al suo interno un ciclo di affreschi mozzafiato risalenti al 1500. In origine l’opera era antecedente di due secoli e si ispirava a “De viris illustribus”, in cui il Petrarca narrava le vite di alcuni grandi personaggi della storia di Roma. L'incenso si strugge nel dissolversi in profumo, la melodia si incatena controvoglia al ritmo sotto lo sguardo severo di questi giganti, i suoni degli Oregon riempiono la stanza di un folklore immaginario che attraversa veloce India e Africa, Spagna e Giappone, abbracciato all'impressionismo di Ravel e Debussy e, tenuto per mano dal free-jazz contemporaneo, arriva fino alla grande tradizione barocca, in un equilibrio e un'armonia che accarezzano l'anima. L'elenco degli strumenti impiegati è impressionante: Ralph Towner suona chitarra classica, chitarra 12 corde, piano, tromba, Collin Walcott, sitar, tabla, maracas, clarinetto basso, Glen Moore, contrabbasso, violino, flauto, pianoforte, Paul McCandless, oboe, corno inglese, clarinetto basso, flauto di legno. Un fuoco illumina la meravigliosa stanza, i colori lasciano le loro forme, vengono ad improvvisare un balletto da queste parti e a piedi nudi passano leggeri sulla cenere che è rimasta. Noi tutti siamo assorti, perfino i giganti, seppur immensamente lontani nel loro silenzio di figure dipinte, mi sembrano parte di una cerimonia, nell'ascolto di questo suono commovente che germoglia e attraversa la polvere e l'aria della sala. Alla fine dopo un applauso lunghissimo, per qualche minuto i quattro musicisti conversano gentilmente, ci informano di avere terminato da pochissimo le registrazioni di un nuovo disco per la ECM che si chiamerà “Crossing”, accennano ai prossimi progetti musicali, ci si saluta. Trascorrono solo sei giorni, il gruppo è nella Germania dell'Est, in viaggio da Berlino a Essen, in direzione del confine olandese, sono poco più di 500 chilometri, nei pressi di Magdeburg improvvisamente incrociano “il cane dagli occhi neri”, un soffio più forte spegne per sempre quella candela silenziosa. Forse la notte stava volgendo alla fine e le nuvole oscure erano sul punto di diventare bianche e sottili oppure le stelle cominciavano allora a pulsare di luce, magari il mattino tingeva d'oro ogni cosa oppure il sole era tramontato sulla riva occidentale del fiume accanto alla foresta. Fatto sta che all'improvviso Collin Walcott, a soli 39 anni, dovette abbandonare le sue meditazioni, l'incenso e le sue tablas, uscire ai primi albori del giorno e proseguire da solo il suo viaggio attraverso i deserti del mondo, lasciando la sua traccia su molte stelle e su questo pianeta. Recita una antica lirica mistica indiana: “Sono le vie più remote che portano più vicino a se stessi ed è con lo studio più arduo che si ottiene la semplicità di una melodia”


Flavio Poltronieri 
flavio.poltronieri@libero.it

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