1943, la lista di McKune

Adesso c’è uno di quei mostri di vetro e acciaio che sembrano voler annullare ogni dimensione umana, ma negli anni Quaranta al numero 107 Ovest della 47ma strada, vicino a Times Square, un cartello invitava a entrare in un portone che stava tra un negozio di valige e uno di pipe, strillando a lettere cubitali “DISCHI – dischi di jazz hot, quattro per un dollaro, entrate e risparmiate”. Chiamato ufficialmente Jazz Record Center, dai frequentatori il negozio veniva indicato semplicemente come “da Indian Joe”. Fondatore e proprietario era infatti Joe Clauberg, un pellerossa con la sigaretta sempre in bocca che dopo aver fatto il forzuto da circo si era messo a vendere libri usati e a pubblicare “The Hobo News”, il giornale dei senzatetto. Mentre distribuiva il giornale un distributore, che li ritirava dai jukebox, gli aveva offerto scatole su scatole di 78 giri usati. Gli oggetti, con grande sorpresa di Indian Joe, avevano incontrato l’interesse della piccola ma agguerrita combriccola di collezionisti di jazz di New York. Il successo dei dischi fu tale che ben presto nel negozio, situato al primo piano, non ci fu spazio per niente altro. Il sabato pomeriggio il posto era pieno di appassionati di jazz che spulciavano i dischi, mentre Indian Joe parlava con i suoi vecchi amici del circo e un bookmaker disoccupato dormiva su giacigli di fortuna smaltendo la sbornia – era sempre sdraiato, tanto che lo chiamavano Horizontal Abe, Abele l’orizzontale. “Tutto il jazz da Bunk a Monk” proclamava fuori l’insegna del negozio, ma all’interno i clienti erano rigidamente divisi in gruppi. C’erano i fan del bebop, quelli orientati verso il nascente progressive jazz di Kenton, i nostalgici dello swing, e un piccolo nucleo di collezionisti di blues. 
Il jazz alla fine degli anni Trenta aveva iniziato a costruire il proprio mito delle origini grazie alla riscoperta di quei pionieri di New Orleans che erano ancora vivi, anche se non più attivi come musicisti. Erano stati riportati in studio d’incisione, per fare sentire come era la musica vera prima che venisse imbastardita dalle big band e dai loro arrangiatori, ed erano usciti i primi libri che celebravano i fasti della New Orleans dell’inizio secolo, scritti da ricercatori che si erano avventurati nell’interno della Louisiana sulle tracce di veterani come Bunk Johnson. Malgrado fosse stato il successo di Crazy Blues interpretato nel 1920 per la Columbia da Mamie Smith a far scoprire alle major del disco che i neri ormai avevano in tasca un mezzo dollaro da spendere per un 78 giri, lanciando il mercato dei “race records” e in quell’ambito la carriera discografica dei grandi musicisti afroamericani di jazz, il blues vocale non aveva ancora avuto i suoi cantori. Era relegato al meglio tra le musiche arcaiche, notevoli solo in quanto avevano fornito la materia prima per il jazz. D’altra parte Mamie, come tutte le altre Smith che la seguirono, non era una cantante popolare, ma una stella del varietà cui i compositori di blues commerciali affidavano le loro opere. Tra i pochi a comprare dischi di blues negli anni Quaranta c’era un uomo di circa trent’anni, magrissimo, biondo di capelli e chiaro di carnagione, invariabilmente vestito di una camicia bianca con le maniche rimboccate e calzoni neri. In silenzio, ogni sabato pomeriggio passava ore a selezionare accuratamente i pochi 78 giri che poteva permettersi e che gli piacevano veramente. Era spesso isolato perché conversare con lui era istruttivo ma non sempre piacevole. Aveva opinioni fermissime basate su una sua gerarchia di valori personale ed unica, e le esprimeva con una intensità prossima alla violenza fisica: «McKune parlava a modo suo», racconta Pete Whelan, uno dei primi collezionisti di blues: «gesticolava in modo incontrollato, e chiunque ci parlasse alla fine veniva stretto al muro, non perché lui ce lo spingesse direttamente, ma per cercare di evitare il mulinare di mani e gomiti con cui rafforzava le sue parole».

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