

Dalla sacralità di "Mistico Mediterraneo" alla connotazione politica di "Danse Memoire, Danse" dedicato ad Aimé Césaire e a Ghjuvanni Nicoli. Come mai questi due intellettuali sono stati ispirazione per il vostro sodalizio?
Devo dire che, questa volta, è stata un'idea dei nostri amici corsi, perché Aimé Césaire in Italia non credo lo conosca nessuno o quasi, così come Ghjuvanni Nicoli, che è stato un modestissimo maestro di un piccolo paese nel centro della Corsica, dove abbiamo fatto anche un concerto ed è proprio un buco. Sono due figure di intellettuali diverse, comunque note, nel caso di Césaire in Francia, mentre per quel che riguarda Nicoli in Corsica. L’idea è di raccontare in musica attraverso una commistione originale, sia compositiva che di testi, queste figure che avevano dei punti in comune, nel senso che Nicoli era un maestro che aveva vissuto nell’alto Senegal prima della Seconda Guerra Mondiale ed entrambi erano legati dal concetto di "negritudine" e da una battaglia contro il colonialismo.

Che cosa differenzia sul piano musicale questo incontro tra te, Daniele Di Bonaventura e A Filetta?

Parlavi di fiati e mantici come voci aggiuntive. Come sei riuscito a trovare l'equilibrio tra queste tre voci?
Di base una grande intesa c'è già tra me e Daniele Di Bonaventura, con il quale suono in duo da tantissimo tempo e abbiamo fatto, qualche anno fa, anche un disco per la ECM e diversi altri lavori insieme, tra cui “Vinodentro”, che è la colonna sonora del film omonimo di Ferdinando Vicentini Orgnani con I Virtuosi Live.

Che cosa ti "prende" della polifonia di A Filetta?
La cosa più affascinante è non solo l’intonazione e la qualità delle voci ma anche la loro grande apertura. In passato spesso ho lavorato con vari cori della Sardegna, in progetti come “Ethno Grafie”, “Sonos 'e Memoria” e “Il rito e la memoria”. Come certamente saprai sono straordinari. La differenza tra la polifonia di A Filetta e quella dei cori sardi è che questi ultimi non hanno quell'apertura così ampia. Non è una critica questa, ma semplicemente è una modalità diversa in quanto lavorano su un repertorio codificato. C’è proprio una chiusura anche nel modo in cui approcciano il canto. I cori sardi sono, infatti, disposti a cerchio mentre i corsi cantano in formazione aperta.
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Foto di Paolo Soriani |
Quello che mi affascina di A Filetta è il loro percorso: sono nati dalla musica popolare corsa e poi sono andati molto più in là. Nella loro musica si sentono gli echi dei Balcani, delle voci bulgare, dei cori che vengono dal Caucaso, dal Sud America e dal Giappone. Loro, per altro, organizzano ogni anno, alla fine di agosto, un festival di polifonia nella città di Calvi, dove invitano alcuni tra i cori più importanti che vi sono nel mondo e ascoltando queste cose si arricchiscono. Così, quando Jean Claude Acquaviva o gli altri scrivono, producono cose che rasentano la musica contemporanea. Nella loro musica c'è tutto. c'è la tradizione e in qualche modo il jazz. L'unica cosa che non fanno è improvvisare ma gli improvvisatori, in questo caso, siamo noi. È una musica che è molto ricca sul piano armonico e ritmico e ci sono dentro delle sonorità molto diverse. È qualcosa di indefinibile, perché parte dalla tradizione corsa e arriva alla musica contemporanea, non dimenticando poi l'aspetto popolare. Tutto questo permette a noi di entrarvi molto bene e in modo paritario.
Quindi nell'approcciare l'incontro con A Filetta ti sei mosso diversamente da quello che poteva essere il dialogo con gli assetti polivocali sardi…
Assolutamente. Diciamo che quando lavoro con la vocalità sarda sono io che vado incontro a loro perché hanno una struttura che, oserei definire, granitica. La Sardegna è un territorio granitico. Loro hanno una modalità che è quella e in quella si muovono e tocca a noi tendere la mano per aprire una breccia. Con i corsi c'è un lavoro completamente diverso, perché c'è una capacità di recepire la musica che deriva dal loro background, dalla loro storia e dalla capacità di aver approfondito ed ascoltato cose diverse quindi di poter scrivere cose diverse che permette di entrarvi all'interno.
In A Filetta c'è una maggiore capacità di dialogo e contaminazione...
Sia i cori sardi che quelli corsi sono straordinari ma ognuno ha una ricchezza e un unicità che l'altro non possiede, tanto è vero che quando siamo in Corsica ci incontriamo tutti insieme e vengono fuori cose bellissime con i cori sardi che prendono brani del repertorio corso e viceversa. Sono due storie diverse che raccontano due isole molto diverse. Certo è vero che è le due polifonie hanno punti di contatto e alcune similarità, ma andando a vedere nello specifico ci sono delle profonde differenze e questo è estremamente interessante e arricchisce tutto il dialogo e la riflessione sulla musica vocale del Mediterraneo.
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Foto di Roberto Cifarelli |
Pensi di continuare ad esplorare territori comuni con A Filetta?
Certamente, così come spero di fare anche con i cori sardi, perché sono una realtà molto interessante. Adesso suoniamo molto meno di prima, perché io sono molto impegnato con altri progetti però l'esplorazione delle voci del Mediterraneo è molto in sintonia con il mio pensiero musicale. C'è poi un rapporto di amicizia con A Filetta, come del resto con i cori sardi. Tutto si può dire del Mediterraneo tranne che la musica sia scissa dal quotidiano. È necessario conquistarsi delle cose perché loro sono come delle grandi famiglie dove ci sono delle regole che appartengono alla società. Questa diventa anche una bella scuola per i rapporti, per la capacità di creare e di tessere delle cose. Quando tutto questo accade e si aprono delle porte, si può lavorare insieme e si può andare lontano. Per questo motivo, io spero che questo rapporto possa proseguire anche in futuro.
Attualmente c'è una polivocalità con cui ti piacerebbe interagire?
Non lo so, certo ce ne sono diverse che mi interessano. Mi appassionano molto quelle dell'Est a partire dalle voci bulgare. Mi appassiona la voce che è molto simile alla tromba. Ho lavorato in Georgia con un coro polifonico locale ed è nato qualcosa di veramente particolare. In quella parte del mondo ci sono delle realtà uniche che sono molto originali nel mettere insieme le armonie, sono molto contemporanee. Si scoprono sonorità ed armonie totalmente nuove. Oltre al fascino del lavorare con la voce c'è quello di suonare con realtà che utilizzano dei suoni inattesi. Mi piacerebbe molto approfondire questi aspetti perché questi mondi vanno verso la curiosità tipica del jazz.
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Foto di Jean Louis Neveu |
Quest'anno con la Tûk, la tua etichetta, hai messo in fila alcuni titoli di grande pregio da "Oltremare" di Raffaele Casarano a "Madera Balza" di Monica Demuru e Natalio Mangalavite passando per "Rimbaud" di Stefano Bagnoli...
Sono tutti progetti che non nascono per caso. Alla Tûk non interessa il disco tanto per farlo ma quello che ci piace, sin da quando è nata l'etichetta, nel 2010, ci piace investire su un percorso di crescita comune. La scelta degli artisti non è fatta in funzione del buon disco o del cattivo disco ma proprio sull'idea che l'artista si porta dietro come pensiero. Mi piace che sia l'etichetta di musicisti che oltre ad avere talento siano anche dei buoni architetti di musica. Quello che proviamo a fare è proprio investire sugli artisti. A me non interessa il progetto ma l'artista. Quando c'è un musicista che mi interessa, lo invito a fare un disco e gli do carta bianca. Se poi l'artista vuole un consiglio sono sempre pronto, ma non entro nel merito della qualità della musica. Se, infatti, l'artista è giusto, la musica sarà quella giusta. Effettivamente, i progetti che sono nati in questi anni hanno un forte equilibrio tra musica e quello che ci sta intorno. Non parlo solo del disco di Raffaele Casarano, che ha un tema specifico come quello del mare, ma anche di "Madera Balza", che è un lavoro molto interessante e per certi versi nuovo dal punto di vista repertoriale. Altro esempio è il disco che ha fatto Sade Mangiaracina dal titolo "Le mie donne", che propone qualcosa di assolutamente contemporaneo. Credo che dietro la musica ci debbano essere anche altre ragioni, alcune di queste si esprimono in modo più o meno evidente in seno ai progetti. Non ha senso fare un disco fine a sé stesso, che serve veramente a poco. Costruire un progetto vuol dire pensare le cose e realizzarle in un certo modo. Progettare vuol dire essere architetti, fare prima un disegno, poi un esecutivo, posare una pietra e poi ancora un'altra, per fare un palazzo che può essere anche molto alto. Quello che proviamo a fare noi, con l'etichetta, consiste nel prendere un artista e attraverso un progetto, che non è un semplice disco ma un insieme di azioni, prenderlo per mano e condurlo verso il lavoro.

Recentissima è anche la pubblicazione del tuo nuovo disco “Tempo di Chet”...
"Tempo di Chet" è la colonna sonora di un lavoro teatrale abbastanza importante. È una produzione grossa del Teatro Stabile di Bolzano e che è tutt'ora in scena e prevede tre musicisti: il sottoscritto, Dino Rubino e Marco Bardoscia. Ognuno di noi ha scritto alcuni brani originali: io ne ho firmati sei mentre Marco e Dino ne hanno composti due a testa. Il disco raccoglie il corpus delle musiche dello spettacolo nel corso del quale suoniamo per due ore di fila senza fermarci. Oltre ai dieci brani originali, ci sono alcuni standard, alcuni citati e altri suonati per intero come “My Funny Valentine” e diversi altri. Da questo materiale è nato un CD, che però non è in commercio. Abbiamo deciso di non immetterlo nel mercato discografico ma viene venduto solo alla fine degli spettacoli e ovviamente è presente in rete.

Proprio pochi giorni fa è uscito anche "Mare Nostrum III"...
Il progetto “Mare Nostrum” è nato dalla collaborazione con Richard Galliano e Jan Lundgren e questo nuovo album è l'ultimo capitolo, che chiude una trilogia che, già all'epoca del primo, prevedeva tre dischi che sarebbero stati registrati nei rispettivi tre paesi di origine. Il primo “Mare Nostrum I” è stato registrato in Italia negli studi Artesuono di Stefano Amerio, dove io avevo già fatto i miei dischi. Il secondo lo abbiamo inciso in Francia, vicino ad Avignone, mentre questo terzo ed ultimo volume è nato in uno studio straordinario, che è a tredici chilometri da Göteborg in Svezia. Come nei precedenti anche in questo nuovo album, in mezzo a tanti brani originali, c'è una rilettura. Nel primo disco c'era un brano di Jobim, nel secondo “Si Dolce È Il Tormento” di Monteverdi, mentre nel terzo c'è “I 'te vurria vasà”. È un disco che ricalca in modo abbastanza semplice quello dei precedenti. C'è molta melodia: sono lavori molto intimi e riflessivi con una grande attenzione al suono e alla registrazione. Nel 2019 faremo un tour abbastanza lungo ma, nel frangente, è uscito anche "Summer Wind", che è l'altro progetto in duo per ACT, che ho registrato con Lars Danielsson, straordinario contrabbassista e violoncellista. Ormai mi muovo tra le mie produzioni che sono ospitate dalla mia etichetta ed, ogni tanto, faccio delle incursioni in altre due label che sono la ACT e guarda caso la ECM.
Ciro De Rosa e Salvatore Esposito
A Filetta, Paolo Fresu, Daniele Di Bonaventura – Danse Memoire, Danse (Tük, 2018)
“Danse, Mémoire, Danse” è il secondo episodio della bella collaborazione fra lo storico gruppo vocale corso A Filetta, il trombettista Paolo Fresu e il bandoneonista Daniele Di Bonaventura. Dopo il bellissimo “Mistico Mediterraneo”, uscito per ECM nel 2011, l’italianissima Tük si occupa dell’edizione italiana di questo lavoro, già uscito a fine 2017 per la piccola etichetta corsa Deda, marchio di proprietà dello stesso ensemble corso che festeggia quest’anno i quarant’anni di attività. “Danse” è un concept-album che ruota attorno alle figure del poeta, scrittore e patriota martinicano Aimé Césaire e del capo della resistenza corsa Ghjuvanni Nicoli, ucciso dalla polizia Fascista nel 1943 e già dagli anni trenta a fianco dei moti anti-colonialisti nell’Africa equatoriale francese. Un disco militante, meno immediato e coinvolgente del precedente, ma non meno affascinante, cantato come al solito divinamente dal gruppo della Balagna, ben assistito da un misuratissimo Fresu e da un solido Di Bonaventura al bandoneon e al piano nell’evocativa “A Mio Penà s’he Mondu”; i due strumentisti si ritagliano anche un notevole episodio in duo “Humans”, oasi strumentale in un disco dominato dalle voci, in particolare da quella del carismatico leader Jean Claude Acquaviva. A Filetta sono nel meglio della loro forma vocale e performativa, con un’intonazione sempre perfetta e il ricorso a figure corali sempre più mutuate dalla musica colta, come l’hochetus dell’iniziale “I Vostri sguardi”. Fra i brani migliori “Africa”, affidato alla voce di Stephane Serra, “Quellu chi”, dove l’introduzione del bandoneon fa pensare ad un organo a canne, “Sciume”, e la swingante “U Viandante” armonicamente ardite e interessanti, grazie anche ai suoni modificati dei due strumenti. Ben figurano nel contesto generale anche le due lettere (rispettivamente di Cesar e Nicoli) “Da a Pieve di Carbini” e “Fiori d’Algeria” lette da Jean Claude Acquaviva. Di grande effetto la confezione con la bellissima illustrazione di copertina di Antonello Silverini.
Gianluca Dessì