A Filetta, Paolo Fresu, Daniele Di Bonaventura – Danse Memoire, Danse (Tük, 2018)

Paolo Fresu ci ha abituati a incontri speciali: il suo operare commistioni nasce da un’esigenza esistenziale; è un artista che possiede la spiccata attitudine ad aprirsi al dialogo, sia in studio che dal vivo, di entrare con creatività in contesti sonori profondamente differenti, che si tratti dell’ambito più propriamente jazz o di quello della musica antica e barocca, del repertorio classico o delle musiche di tradizione orale. Piena condivisione di intenti, poi, con l’affiatato bandoneonista marchigiano Daniele Di Bonaventura, altro musicista raffinato e dalla mentalità aperta, autore di scrittura per teatro e danza, anch’egli abile nello spaziare dalla musica classica alla contemporanea, dal jazz al tango e alle musiche popolari. Risale al 2011 “Mistico Mediterraneo”, il primo magnifico progetto, targato ECM, in cui la tromba e al flicorno del berchiddese e il mantice del fermano incrociavano le voci del settetto polifonico corso A Filetta, originario della regione della Balagna, da quarant’anni sulla scena, esponenti di spicco di “u Riacquistu”, il movimento culturale, emerso in Corsica partire dagli anni Settanta del secolo scorso, che ha portato, tra l’altro, alla riscoperta del patrimonio musicale locale e alla rinascita delle pratiche di canto tradizionale popolare, religioso e profano. Il coro A Filetta (in corso significa felce o felceto) è composto dal carismatico leader Jean-Claude Acquaviva (seconda) François Aragni (seconda e bassu), Paul Giansily (terza), Stèphane Serra (seconda), Jean Sicurani (bassu) e Maxime Vuillamier (bassu).  È la volta del secondo capitolo discografico, intitolato “Danse Mémoire, Danse”, uscito già da un anno in Corsica e ora pubblicato sul mercato internazionale dalla Tük Music. Un disco che tiene i piedi nella tradizione e nella contemporaneità; i fini sperimentatori si muovono con eleganza controllando mirabilmente l’incastro di timbri vocali e strumentali, le procedure melodiche e le ardite armonizzazioni. 
Al centro della celebrazione di “Danse Mémoire, Danse” sono due figure resistenti che hanno agito, con parole e azioni, contro lo sfruttamento colonialista e per la libertà dei popoli. Stiamo parlando del poeta e drammaturgo martinicano Aimé Césaire (1913-2008), padre, con il politico senegalese Leopold Senghor, del concetto di “négritude”. L’altro è Ghjuvanni Nicoli (1899-1943), attivo negli anni Trenta durante i moti anti-colonialisti, quando insegnava in Africa occidentale. In seguito, diventato, nella sua Corsica, è stato leader della resistenza anti-nazista fino alla sua cattura ed esecuzione da parte della polizia fascista.  Abbiamo raggiunto Paolo Fresu, che racconta come si è originato questo secondo lavoro, condiviso con il fido Daniele Di Bonaventura e le voci corse di A Filetta. (Ciro De Rosa)

Dalla sacralità di "Mistico Mediterraneo" alla connotazione politica di "Danse Memoire, Danse" dedicato ad Aimé Césaire e a Ghjuvanni Nicoli. Come mai questi due intellettuali sono stati ispirazione per il vostro sodalizio?
Devo dire che, questa volta, è stata un'idea dei nostri amici corsi, perché Aimé Césaire in Italia non credo lo conosca nessuno o quasi, così come Ghjuvanni Nicoli, che è stato un modestissimo maestro di un piccolo paese nel centro della Corsica, dove abbiamo fatto anche un concerto ed è proprio un buco. Sono due figure di intellettuali diverse, comunque note, nel caso di Césaire in Francia, mentre per quel che riguarda Nicoli in Corsica. L’idea è di raccontare in musica attraverso una commistione originale, sia compositiva che di testi, queste figure che avevano dei punti in comune, nel senso che Nicoli era un maestro che aveva vissuto nell’alto Senegal prima della Seconda Guerra Mondiale ed entrambi erano legati dal concetto di "negritudine" e da una battaglia contro il colonialismo. 
Aimé Césaire è stato, invece, un intellettuale a tutto tondo, essendo stato anche un politico importante, veste nella quale ha fatto una grande battaglia per l’annessione della Martinica alla Francia. Sono due figure molto interessanti e, per certi versi, anche poetiche, e sono state raccontate in musica attraverso una serie di brani di Daniele Di Bonaventura, di Jean Claude Acquaviva e di alcuni compositori corsi, ai quali si aggiungono anche due brani firmati da me. L'aspetto più importante è che abbiamo dato i testi di questi brani nelle mani di alcuni scrittori e poeti corsi. Il risultato è un disco completamente in lingua corsa che abbiamo dovuto tradurre nel libretto interno prima in francese, poi in italiano e inglese. Gli stessi francesi non capiscono il corso. Insomma, è un lavoro spurio dalla forte valenza politica e contemporanea alla luce di quello che sta accadendo in questo momento anche nel nostro mare. C'è questa idea dell'Africa che si muove, di un’Africa imposta e di un’Africa da ridiscutere, non solo sul concetto della "negritudine", ma anche proprio sulla storia del colonialismo. Ci è sembrato che questo tema fosse caro a tutti e “Danse Memorie, Danse” non è casuale che segua "Mistico Mediterraneo": con questa idea di Mediterraneo mistico che continua ad evolversi in un dialogo che si rivolge all'Africa. Non dimentichiamo che Sardegna e Corsica sono due isole incastonate nel Mare Nostrum, seppure con due storie politiche diverse ma, alla fine, nemmeno poi tanto. Sono due isole che, in realtà, idealmente fanno da ponte tra l'Europa e questo Mediterraneo in crisi.

Che cosa differenzia sul piano musicale questo incontro tra te, Daniele Di Bonaventura e A Filetta?
Non ci sono grandi differenze, quello che cambia è sostanzialmente il repertorio e l'approccio. Dal punto di vista musicale la dinamica è sempre la stessa con il coro, originariamente composto da sette uomini, mentre attualmente è formato da sei persone, poi noi – tromba e bandoneon – che sono viste come due voci sonore in più. Tutto ciò è molto importante perché c'è un’idea di vera collaborazione. Non siamo né un corollario da un lato né siamo noi alla guida del progetto ma, nell'insieme, è tutto molto condiviso. Nel primo disco c'erano tutta una serie di brani che erano nati un po' dal fatto che ognuno aveva portato delle cose, non era stato scritto quasi niente appositamente. C'erano dei brani che erano stati già scritti e sono stati riarrangiati per l'occasione e poi c'erano i brani di Bruno Coulais, grande compositore di musiche da film come “Les Choristes” e “Himalaya”, che aveva offerto dei brani, che A Filetta aveva già registrato. Il primo disco è nato, insomma, non dico casualmente ma da questo incontro folgorante che c'è stato tra noi e che ci ha dato l'input per registrare. In “Mistico Mediterrano” abbiamo lavorato su materiali che erano già nell'aria, mente in “Danse Memoire, Danse” abbiamo composto ogni brano da zero. Si tratta di un opera commissionata da noi stessi. Credo che questa sia la differenza sostanziale.

Parlavi di fiati e mantici come voci aggiuntive. Come sei riuscito a trovare l'equilibrio tra queste tre voci?
Di base una grande intesa c'è già tra me e Daniele Di Bonaventura, con il quale suono in duo da tantissimo tempo e abbiamo fatto, qualche anno fa, anche un disco per la ECM e diversi altri lavori insieme, tra cui “Vinodentro”, che è la colonna sonora del film omonimo  di Ferdinando Vicentini Orgnani con I Virtuosi Live. 
Poi “ll laudario di Cortona”, che pubblicheremo per la mia etichetta a breve e del quale a marzo è uscita una prima versione dal vivo per la rivista “Amadeus”. Il duo con Daniele è nato grazie ad A Filetta. Ci conoscevamo da tanti anni, ma non avevamo mai suonato insieme. Ci invitarono in Corsica per suonare e da quale momento abbiamo dato vita al duo. Sia in “Mistico Mediterraneo” che in questo nuovo disco ci sono brani che suoniamo in duo. È molto facile lavorare con A Filetta, perché c'è una grande capacità di ascolto e c'è un grande interplay. Quando ci si ascolta molto, anzi, quando ci si vuole ascoltare molto, e si mettono insieme i suoni su un piano comune, diventa tutto molto semplice. Quando c'è questo punto di partenza, la strada è spianata per andare avanti, quando invece manca questo dialogo e questa voglia di ascoltarsi reciprocamente, che io ritengo una sorta di forma di rispetto, allora tutto può diventare difficile.

Che cosa ti "prende" della polifonia di A Filetta?
La cosa più affascinante è non solo l’intonazione e la qualità delle voci ma anche la loro grande apertura. In passato spesso ho lavorato con vari cori della Sardegna, in progetti come “Ethno Grafie”, “Sonos 'e Memoria” e “Il rito e la memoria”.  Come certamente saprai sono straordinari. La differenza tra la polifonia di A Filetta e quella dei cori sardi è che questi ultimi non hanno quell'apertura così ampia. Non è una critica questa, ma semplicemente è una modalità diversa in quanto lavorano su un repertorio codificato. C’è proprio una chiusura anche nel modo in cui approcciano il canto. I cori sardi sono, infatti, disposti a cerchio mentre i corsi cantano in formazione aperta. 
Foto di Paolo Soriani
Quello che mi affascina di A Filetta è  il loro percorso: sono nati dalla musica popolare corsa e poi sono andati molto più in là. Nella loro musica si sentono gli echi dei Balcani, delle voci bulgare, dei cori che vengono dal Caucaso, dal Sud America e dal Giappone. Loro, per altro, organizzano ogni anno, alla fine di agosto, un festival di polifonia nella città di Calvi, dove invitano alcuni tra i cori più importanti che vi sono nel mondo e ascoltando queste cose si arricchiscono. Così, quando Jean Claude Acquaviva o gli altri scrivono, producono cose che rasentano la musica contemporanea. Nella loro musica c'è tutto. c'è la tradizione e in qualche modo il jazz. L'unica cosa che non fanno è improvvisare ma gli improvvisatori, in questo caso, siamo noi. È una musica che è molto ricca sul piano armonico e ritmico e ci sono dentro delle sonorità molto diverse. È qualcosa di indefinibile, perché parte dalla tradizione corsa e arriva alla musica contemporanea, non dimenticando poi l'aspetto popolare. Tutto questo permette a noi di entrarvi molto bene e in modo paritario.

Quindi nell'approcciare l'incontro con A Filetta ti sei mosso diversamente da quello che poteva essere il dialogo con gli assetti polivocali sardi…
Assolutamente. Diciamo che quando lavoro con la vocalità sarda sono io che vado incontro a loro perché hanno una struttura che, oserei definire, granitica. La Sardegna è un territorio granitico. Loro hanno una modalità che è quella e in quella si muovono e tocca a noi tendere la mano per aprire una breccia. Con i corsi c'è un lavoro completamente diverso, perché c'è una capacità di recepire la musica che deriva dal loro background, dalla loro storia e dalla capacità di aver approfondito ed ascoltato cose diverse quindi di poter scrivere cose diverse che permette di entrarvi all'interno.

In A Filetta c'è una maggiore capacità di dialogo e contaminazione...
Sia i cori sardi che quelli corsi sono straordinari ma ognuno ha una ricchezza e un unicità che l'altro non possiede, tanto è vero che quando siamo in Corsica ci incontriamo tutti insieme e vengono fuori cose bellissime con i cori sardi che prendono brani del repertorio corso e viceversa. Sono due storie diverse che raccontano due isole molto diverse. Certo è vero che è le due polifonie hanno punti di contatto e alcune similarità, ma andando a vedere nello specifico ci sono delle profonde differenze e questo è estremamente interessante e arricchisce tutto il dialogo e la riflessione sulla musica vocale del Mediterraneo.

Foto di Roberto Cifarelli
Pensi di continuare ad esplorare territori comuni con A Filetta?
Certamente, così come spero di fare anche con i cori sardi, perché sono una realtà molto interessante. Adesso suoniamo molto meno di prima, perché io sono molto impegnato con altri progetti però l'esplorazione delle voci del Mediterraneo è molto in sintonia con il mio pensiero musicale. C'è poi un rapporto di amicizia con A Filetta, come del resto con i cori sardi. Tutto si può dire del Mediterraneo tranne che la musica sia scissa dal quotidiano. È necessario conquistarsi delle cose perché loro sono come delle grandi famiglie dove ci sono delle regole che appartengono alla società. Questa diventa anche una bella scuola per i rapporti, per la capacità di creare e di tessere delle cose. Quando tutto questo accade e si aprono delle porte, si può lavorare insieme e si può andare lontano. Per questo motivo, io spero che questo rapporto possa proseguire anche in futuro. 

Attualmente c'è una polivocalità con cui ti piacerebbe interagire?
Non lo so, certo ce ne sono diverse che mi interessano. Mi appassionano molto quelle dell'Est a partire dalle voci bulgare. Mi appassiona la voce che è molto simile alla tromba. Ho lavorato in Georgia con un coro polifonico locale ed è nato qualcosa di veramente particolare. In quella parte del mondo ci sono delle realtà uniche che sono molto originali nel mettere insieme le armonie, sono molto contemporanee. Si scoprono sonorità ed armonie totalmente nuove. Oltre al fascino del lavorare con la voce c'è quello di suonare con realtà che utilizzano dei suoni inattesi. Mi piacerebbe molto approfondire questi aspetti perché questi mondi vanno verso la curiosità tipica del jazz.

Foto di Jean Louis Neveu
Quest'anno con la Tûk, la tua etichetta, hai messo in fila alcuni titoli di grande pregio da "Oltremare" di Raffaele Casarano a "Madera Balza" di Monica Demuru e Natalio Mangalavite passando per "Rimbaud" di Stefano Bagnoli...
Sono tutti progetti che non nascono per caso. Alla Tûk non interessa il disco tanto per farlo ma quello che ci piace, sin da quando è nata l'etichetta, nel 2010, ci piace investire su un percorso di crescita comune. La scelta degli artisti non è fatta in funzione del buon disco o del cattivo disco ma proprio sull'idea che l'artista si porta dietro come pensiero. Mi piace che sia l'etichetta di musicisti che oltre ad avere talento siano anche dei buoni architetti di musica. Quello che proviamo a fare è proprio investire sugli artisti. A me non interessa il progetto ma l'artista. Quando c'è un musicista che mi interessa, lo invito a fare un disco e gli do carta bianca. Se poi l'artista vuole un consiglio sono sempre pronto, ma non entro nel merito della qualità della musica. Se, infatti, l'artista è giusto, la musica sarà quella giusta. Effettivamente, i progetti che sono nati in questi anni hanno un forte equilibrio tra musica e quello che ci sta intorno. Non parlo solo del disco di Raffaele Casarano, che ha un tema specifico come quello del mare, ma anche di "Madera Balza", che è un lavoro molto interessante e per certi versi nuovo dal punto di vista repertoriale. Altro esempio è il disco che ha fatto Sade Mangiaracina dal titolo "Le mie donne", che propone qualcosa di assolutamente contemporaneo. Credo che dietro la musica ci debbano essere anche altre ragioni, alcune di queste si esprimono in modo più o meno evidente in seno ai progetti. Non ha senso fare un disco fine a sé stesso, che serve veramente a poco. Costruire un progetto vuol dire pensare le cose e realizzarle in un certo modo. Progettare vuol dire essere architetti, fare prima un disegno, poi un esecutivo, posare una pietra e poi ancora un'altra, per fare un palazzo che può essere anche molto alto. Quello che proviamo a fare noi, con l'etichetta, consiste nel prendere un artista e attraverso un progetto, che non è un semplice disco ma un insieme di azioni, prenderlo per mano e condurlo verso il lavoro. 
Devo dire che non a tutti serve questo e non tutti sono musicisti sconosciuti ma, attraverso l'etichetta, alcuni sono diventati delle punte di diamante del jazz in Italia. Penso, per esempio, a Luca Aquino che adesso non registra più per l'etichetta ma che, ad un certo punto, ha cominciato a collaborare con Manu Katché e ha avuto una dimensione di professionalità a livello europeo. Lo stesso Raffaele ha fatto un eccellente percorso. Siccome Tûk non è nata per finalità economiche, non ci preoccupiamo in alcun modo delle leggi di mercato. Facciamo uscire i dischi quando vogliamo. Costano molto di più in fabbricazione perché sono più grandi del normale e non c'è un grammo di plastica. Abbiamo stampato anche i vinili che sono bellissimi. Abbiamo fatto la riedizione del disco di Ornella Vanoni, che ha aperto la nuova sezione Tûk Reloaded. Mi piace pensare che l'etichetta sia un altro strumento creativo affianco a quelli che già ci sono. Alla fine però bisogna che tutto questo premi.

Recentissima è anche la pubblicazione del tuo nuovo disco “Tempo di Chet”...
"Tempo di Chet" è la colonna sonora di un lavoro teatrale abbastanza importante. È una produzione grossa del Teatro Stabile di Bolzano e che è tutt'ora in scena e prevede tre musicisti: il sottoscritto, Dino Rubino e Marco Bardoscia. Ognuno di noi ha scritto alcuni brani originali: io ne ho firmati sei mentre Marco e Dino ne hanno composti due a testa. Il disco raccoglie il corpus delle musiche dello spettacolo nel corso del quale suoniamo per due ore di fila senza fermarci. Oltre ai dieci brani originali, ci sono alcuni standard, alcuni citati e altri suonati per intero come “My Funny Valentine” e diversi altri. Da questo materiale è nato un CD, che però non è in commercio. Abbiamo deciso di non immetterlo nel mercato discografico ma viene venduto solo alla fine degli spettacoli e ovviamente è presente in rete. 
Proprio sulle piattaforme online è successa una cosa incredibile, perché su Spotify siamo arrivati nell'arco di quaranta giorni ad oltre settecentomila download, che per il jazz sono numeri straordinari. Siamo molto colpiti da questo successo inatteso che fa ben sperare. Trovo interessante quando accade che il jazz riesce con alcuni titoli a superare un po' le barriere, considerando che è una musica di nicchia. 

Proprio pochi giorni fa è uscito anche "Mare Nostrum III"...
Il progetto “Mare Nostrum” è nato dalla collaborazione con Richard Galliano e Jan Lundgren e questo nuovo album è l'ultimo capitolo, che chiude una trilogia che, già all'epoca del primo, prevedeva tre dischi che sarebbero stati registrati nei rispettivi tre paesi di origine. Il primo “Mare Nostrum I” è stato registrato in Italia negli studi Artesuono di Stefano Amerio, dove io avevo già fatto i miei dischi. Il secondo lo abbiamo inciso in Francia, vicino ad Avignone, mentre questo terzo ed ultimo volume è nato in uno studio straordinario, che è a tredici chilometri da Göteborg in Svezia. Come nei precedenti anche in questo nuovo album, in mezzo a tanti brani originali, c'è una rilettura. Nel primo disco c'era un brano di Jobim, nel secondo “Si Dolce È Il Tormento” di Monteverdi, mentre nel terzo c'è “I 'te vurria vasà”. È un disco che ricalca in modo abbastanza semplice quello dei precedenti. C'è molta melodia: sono lavori molto intimi e riflessivi con una grande attenzione al suono e alla registrazione. Nel 2019 faremo un tour abbastanza lungo ma, nel frangente, è uscito anche "Summer Wind", che è l'altro progetto in duo per ACT, che ho registrato con Lars Danielsson, straordinario contrabbassista e violoncellista. Ormai mi muovo tra le mie produzioni che sono ospitate dalla mia etichetta ed, ogni tanto, faccio delle incursioni in altre due label che sono la ACT e guarda caso la ECM.


Ciro De Rosa e Salvatore Esposito


A Filetta, Paolo Fresu, Daniele Di Bonaventura – Danse Memoire, Danse (Tük, 2018)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

“Danse, Mémoire, Danse” è il secondo episodio della bella collaborazione fra lo storico gruppo vocale corso A Filetta, il trombettista Paolo Fresu e il bandoneonista Daniele Di Bonaventura. Dopo il bellissimo “Mistico Mediterraneo”, uscito per ECM nel 2011, l’italianissima Tük si occupa dell’edizione italiana di questo lavoro, già uscito a fine 2017 per la piccola etichetta corsa Deda, marchio di proprietà dello stesso ensemble corso che festeggia quest’anno i quarant’anni di attività. “Danse” è un concept-album che ruota attorno alle figure del poeta, scrittore e patriota martinicano Aimé Césaire e del capo della resistenza corsa Ghjuvanni Nicoli, ucciso dalla polizia Fascista nel 1943 e già dagli anni trenta a fianco dei moti anti-colonialisti nell’Africa equatoriale francese. Un disco militante, meno immediato e coinvolgente del precedente, ma non meno affascinante, cantato come al solito divinamente dal gruppo della Balagna, ben assistito da un misuratissimo Fresu e da un solido Di Bonaventura al bandoneon e al piano nell’evocativa “A Mio Penà s’he Mondu”; i due strumentisti si ritagliano anche un notevole episodio in duo “Humans”, oasi strumentale in un disco dominato dalle voci, in particolare da quella del carismatico leader Jean Claude Acquaviva. A Filetta sono nel meglio della loro forma vocale e performativa, con un’intonazione sempre perfetta e il ricorso a figure corali sempre più mutuate dalla musica colta, come l’hochetus dell’iniziale “I Vostri sguardi”. Fra i brani migliori “Africa”, affidato alla voce di Stephane Serra, “Quellu chi”, dove l’introduzione del bandoneon fa pensare ad un organo a canne, “Sciume”, e la swingante “U Viandante” armonicamente ardite e interessanti, grazie anche ai suoni modificati dei due strumenti. Ben figurano nel contesto generale anche le due lettere (rispettivamente di Cesar e Nicoli) “Da a Pieve di Carbini” e “Fiori d’Algeria” lette da Jean Claude Acquaviva. Di grande effetto la confezione con la bellissima illustrazione di copertina di Antonello Silverini.



Gianluca Dessì

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