Luciano Ceri, Giorgio Gaber. Sette Interviste e la discografia commentata. SquiLibri 2018, pp. 304, Euro 25,00

Dopo il Teatro Canzone arrivò a convertirsi per un po’ alla recitazione pura, mettendo da parte la musica. In una intervista radiofonica dice di sentirsi più attore che cantautore. 
Questo successe alla fine del primo grande periodo del Teatro Canzone, dopo “Polli di allevamento”, dove venne molto contestato, ne uscì stremato e per un po’ non ne volle sapere. Si lanciò in nuove avventure, scrisse spettacoli per altri e arrivò alla recitazione pura con “Lo strano caso di Alessandro e Maria” - che interpretò insieme a Mariangela Melato - e poi con “Il Grigio”. 

Però poi tornò all’ovile…
Ma sì, perché si accorse della forza formidabile della canzone. Raccontava che quando proposero “Qualcuno era comunista”, che non era propriamente nemmeno una canzone in senso stretto, da sola riuscì a coinvolgere il pubblico molto più che due ore di recitazione. Così tornò al Teatro Canzone, fino a quando le forze e la salute glielo consentirono. 

Cosa accadde esattamente con “Polli di Allevamento” per farlo reagire così?
Era uno spettacolo molto provocatorio, che debuttò nel ’78: i polli di allevamento erano i protagonisti del Movimento del ’77, che significò molto in Italia. Gaber e Luporini però non vedevano l’originalità di quei ragazzi, che sembravano adattarsi a un ruolo e non aver la stessa rabbia sincera di quelli del ’68. Naturalmente era una visione estremista e, a mio parere, un po’ forzata. Nel finale partiva un j’accuse molto violento, quello di “Quando è moda e moda”, che non lasciava alcuna via di uscita e bollava il Movimento come un’espressione non genuina. 
Il pubblico raccolse la provocazione e i contestatori spesso a quel punto interrompevano, andando sotto il palco. A volte lo spettacolo non riusciva ad arrivare alla fine. Saltarono anche delle repliche. Io credo ci siano molti modi di contestare: si può non andare, non applaudire, gridare il disappunto alla fine. Ma non si può impedire all’artista di portare a compimento il suo lavoro. Gaber ne rimase scioccato e per un po’ non ne volle sapere. 

Bene. A questo punto torniamo al libro. Abbiamo detto che è diviso in due parti. Una metà con la discografia commentata, che è un po’ la tua specialità. 
Sì, già c’è stata quella su Battisti! È che a saperli interrogare, i dischi in tutte le loro parti -  etichetta, copertina, copertina interna, fascicoli allegati - raccontano un sacco di cose che vale la pena ricordare. Io penso che adesso sia ancora più importante farlo, perché i dischi in vinile di quell’epoca non esistono più. Se ne ristampano molti, ma non tutti: la maggior parte no. E anche quelli stampati non sempre vengono riprodotti integralmente. Ecco che allora mi piace molto interrogare i vecchi dischi e ascoltare le loro risposte.

E vediamo quindi come ti hanno risposto questa volta.
Ho preso in esame ogni singola emissione discografica di Gaber, anche quelle più strane e meno conosciute. Come prima cosa ho fornito le coordinate anagrafiche: il disco è un oggetto di cultura e dobbiamo essere informati di che cosa è fatto, esattamente come un libro. Nei cataloghi cartacei di una volta, nelle biblioteche, in una scheda trovavamo molte informazioni: che il libro era formato da X pagine di cui Y di introduzione; che c’erano illustrazioni a colori o in bianco e nero, che era stato stampato per la prima volta in un dato anno da quell’editore e in quella città, eccetera. 
Ecco: in una discografia si fa la stessa cosa. Si danno le informazioni principali di una emissione: il numero di matrice, che identifica quel fonogramma e soltanto quello e poi le altre informazioni utili. Per esempio partecipazioni a film o a sigle di trasmissioni televisive ecc.. Dopo la scheda anagrafica c’è un commento sul disco: ci si ritrova chi ha suonato dentro se si riesce a saperlo o a quale manifestazioni ha partecipato. Io cerco di dare soprattutto delle informazioni tecniche. Nel caso di Gaber abbondo in informazioni per i dischi degli anni Sessanta, perché sono stati presi meno in considerazione nel corso del tempo. Entro poco nel dibattito sul significato degli spettacoli del Teatro Canzone, perché ci sono già stati tantissimi altri studi in materia. Di quegli spettacoli quindi riporto soprattutto le informazioni che si ricavano dai dischi, le introduzioni, le presentazioni, quando ci sono dei libretti allegati. Sul primo periodo ho cercato di arricchire con ricerche fatte per identificare quelle strane canzoni che Gaber incise in inglese nei primissimi anni. È stato un lavoro curioso e divertente.

Delle storie che racconti per i dischi degli anni Sessanta ce n’è una che mi ha colpito per la sua ingenuità. La Ballata del Cerutti e il finto furto della lambretta.
Vero. Sul retro di copertina della “Ballata del Cerutti” c’è una foto che mostra Gaber mentre parla con una persona di spalle e si racconta che il cantautore aveva subìto il furto della sua lambretta, che poi era stata ritrovata; si era scoperto che il ladro lo aveva fatto per gravi difficoltà economiche e che quindi Gaber gliela aveva regalata. Solo che non era vero niente: era una invenzione dell’ufficio stampa. 
Una cosa singolare e assurda. Una delle tante cose che Gaber e gli artisti allora dovevano subire. 

Certo: accadeva in un mondo dove l’attenzione era tutta per la canzone e molto poca per i cantanti. È sufficiente pensare al numero industriale di cover di un brano di successo - senza che questo creasse alcun problema - per capire come stessero le cose. Con la nascita dei cantautori l’attenzione si spostò… 
Esattamente! Proprio così! Episodi come questi sono gli ultimi retaggi di un certo modo di pensare. Bisognava vendere 100, 200, 300 mila copie di quel 45 giri e succedeva di venderle, perché quei supporti costavano poco ed erano alla portata delle tasche di tutti. 

E qui parliamo pure di etichette discografiche. 
Il percorso artistico di Gaber è documentato da ben sette diverse etichette e le più importanti  sono state la Ricordi e la Carosello. Alla Ricordi, Gaber approdò su invito di Mogol ed è alla Ricordi che imparò il mestiere di cantante di musica leggera, trovandosi al posto giusto nel momento giusto, quando cioè si fecero conoscere una serie di artisti che oltre a cantare scrivevano pure le cose che cantavano. Gaber arrivò invece alla Carosello nel 1970 e lì ebbe la possibilità concreta di compiere il passaggio decisivo della carriera, puntando sul Teatro Canzone, che la Carosello documentò per tutti gli anni Settanta. Questi dischi non andarono in classifica pur vendendo moltissimo, perché la maggior parte delle copie del classico doppio lp di ogni nuovo spettacolo si vendeva soprattutto nei foyer dei teatri. 
Alla Carosello Gaber tornò più volte anche negli anni Ottanta e Novanta, con qualche episodico approdo ad altre etichette; alla fine decise però di vendere i dischi degli ultimi spettacoli unicamente nei foyer, tramite una sua etichetta personale, Giom, controllando fino in fondo il suo processo artistico.

In conclusione, abbiamo parlato del libro, di Gaber, dei suoi dischi, dei suoi collaboratori. Abbiamo conosciuto il Signor G. Ora tocca a te. Quale è stato il primo disco che hai avuto di Gaber?
Risale agli anni Sessanta. Molto probabilmente fu la “Ballata del Cerutti”. Io avevo dieci anni più o meno. All’inizio veniva anche citato Davy Crockett, che era un personaggio popolare presso l’infanzia. 

E il tuo incontro professionale? Che impressione ti ha fatto la persona?
Erano gli anni Novanta. Lui era in tournée a Roma, al Super Cinema, che allora era diventato il Teatro Nazionale. Era la prima volta che lo incontravo dal vivo da vicino e l’impressione fu straordinaria. Era una persona amabilissima nella conversazione e molto ricca di contenuti. Ero accompagnato da una coppia di amici che, uscendo, espressero la loro meraviglia per lo spessore morale e culturale dimostrato.

Però hai cominciato a vedere gli spettacoli del Teatro Canzone molto prima, vero?
Ho cominciato da “Far finta di essere sani” e accadde in maniera strana: con un gruppo di amici eravamo in vacanza in un paese dell’Appennino. 
Un giorno un’amica tirò fuori questa cassetta con, appunto, “Far finta di essere sani” e in molti drizzammo le orecchie. La tournée era già passata per Roma ma per fortuna nel maggio del ’74 tornò al Teatro Tenda a Strisce. Andammo e fu un’esperienza bellissima. A ogni nuovo spettacolo per noi andarci era diventato un rito. Anche fare la fila per poter prendere i biglietti. Il momento clou era quando finiva lo spettacolo e Gaber usciva fuori urlando e facendo un gesto di vittoria a pugni chiusi e braccia piegate, come quando i calciatori segnano. Poi si faceva portare da dietro le quinte la sua chitarra spalla mancante e ci regalava almeno quattro o cinque bis con le sue canzoni più classiche. Una volta ne fece sette: una mia amica ed io eravamo degli ultras: non smettevamo mai di applaudire. Alla fine era madido di sudore con la sua camicia di popeline celeste e quasi implorava la “liberazione”. Indimenticabile.  

Chiudiamo con una sua canzone che ami.
A me piace molto “Un’idea” perché racconta la difficoltà e la differenza tra la teoria e la pratica; “se potessi mangiare una idea avrei fatto la mia rivoluzione” diceva Gaber nel 1973: è la cosa più difficile da fare. Per tutti…



Luciano Ceri, Giorgio Gaber. Sette Interviste e la discografia commentata. SquiLibri 2018, pp. 304, Euro 25,00
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

C’era una volta il disco. E i negozi di dischi, dove li si poteva ascoltare, scegliere e valutare. E poi c’erano gli impianti stereo, ma anche i mangiadischi. E a un certo punto anche le musicassette. I riproduttori. I primi walkman che pesavano otto chili. Qualcuno portava i dischi a casa, strappava gli involucri con i denti, metteva le mani sul vinile, buttava sul piatto il 33 (anzi, 33 e 1/3 per la precisione) e faceva andare la puntina con malagrazia. Altri invece maneggiavano con cura, carezzavano le copertine e i libretti. Tiravano fuori con delicatezza il supporto, lo guardavano in controluce per essere sicuri che non vi fossero rigature o impronte moleste. Poi lo adagiavano delicatamente sul piatto e, controllato che sulla puntina non vi fosse traccia di polvere, le permettevano di poggiarsi sui solchi. E il disco suonava. Perché quando pensiamo a un disco, noi lo immaginiamo sempre così: nell’atto di suonare. Alcuni appassionati, collezionisti e maniaci dell’oggetto, ossessionati dai flexi, dalle lacche, dai vinili, dalle etichette e dai numeri di matrice, quegli stessi dischi li hanno sempre studiati. Li “sanno” a memoria come alcuni di noi da ragazzi sapevano  “La nebbia agli irti colli piovigginando sale”, eccetera. Insomma: conoscono tutto quello che in quel disco viene riportato. Questi appassionati i dischi semplicemente li leggono. Poi c’è Luciano Ceri. Che è davvero un bravo giornalista, come quelli di una volta, e che quindi i dischi li sa far parlare. Li intervista. E quelli raccontano tutto quello che sanno e che ricordano, o che è stato concesso loro di dire. Le sue discografie commentate si leggono come romanzi e risolvono mille dubbi, spiegano mille passaggi, aiutano alla comprensione di una storia umana e artistica, molto più che centinaia di note biografiche. Chi scrive sinceramente non si emoziona di fronte agli aridi dati di archivio e di catalogazione, ma ha una vera passione per ogni ricerca ispirata da quei cataloghi. Le ricerche – tutte le ricerche – racchiudono la poesia dell’ignoto. Per questo sono così importanti i cataloghi bibliografici e le discografie. E il modo in cui Luciano Ceri sa far domande ai dischi - ottenendo quasi sempre risposta - è davvero affascinante. C’è un precedente straordinario: un volume edito da Coniglio che si intitola “Pensieri e Parole”: si tratta di una discografia commentata di Lucio Battisti che racconta la vita artistica del cantautore di Poggio Bustone con leggerezza e piacevolezza. Ogni libro ben fatto deve suscitare nuove curiosità ed è questa la dote principale delle discografie commentate di Luciano. Il volume su Giorgio Gaber è molto particolare. Si potrebbe pensare che sia stato un mettere insieme cose all’apparenza non omogenee tra loro. Ma è un abbaglio di chi affronta i libri in modo ortodosso e convenzionale. In realtà, come dicevo prima, è un libro di lunghissime e approfondite interviste. Tre sono a Giorgio Gaber (due di Luciano e una di Gianni Martini), una a Maria Monti – a testimoniare gli anni degli esordi artistici e discografici – una a Giorgio Casellato - a raccontare la prima fase del Teatro Canzone del duo Gaber Luporini - una allo stesso Gianni Martini - il chitarrista della seconda età del Teatro Canzone - e una a Gian Piero Alloisio, col quale ha realizzato tanti progetti per altri artisti, soprattutto per Ombretta Colli. Sette interviste per coprire nel tempo e nello spazio la carriera di Gaber, senza annoiare con mille aneddoti citati, ma permettendo alla parola scritta di mettersi al servizio di quella parlata. E infine una ottava intervista: una immensa lunga conversazione con i dischi di Giorgio Gaber. Con tutti. Ma specialmente con quelli della prima parte della carriera di un artista che, prima di diventare il Signor G, ha fatto tutta la trafila di un cantante degli anni Sessanta. In una Milano straordinariamente ricca e fertile culturalmente, circondato dai suoi amici cantautori, ma anche autori, attori, scrittori; una Milano fatta di Riccardo e Cerutti, ma anche di Simonetta e Jannacci.  Ne esce fuori un affresco, una immagine che si muove - senza aver l’ambizione di definire contorni – e che, appunto, suscita mille altre curiosità. Questo è un libro fatto con molta serietà eppure ha la leggerezza di un gioco. Approfondisce ma lo si legge in un soffio. Si possono saltare le righe e le pagine. Ci si può perdere nelle immagini colorate delle copertine (complimenti all’editore) e impazzire dietro ai dati anagrafici del disco, magari andando a scovare le cover nelle appendici del libro. Oppure ci si può lasciar coinvolgere dai mille racconti, dalle introduzioni ai dischi fatte dagli stessi intellettuali che poi Gaber non dimenticava di fustigare nei momenti più graffianti dei suoi spettacoli e delle sue canzoni. Che, va detto, anche quando sono dure, ciniche, scettiche, disperanti, non perdono mai l’umanità dell’uomo che – malgrado tutto – sa che la vita è bella e si ritrova magari tutta nel soffio che appanna gli occhiali in una mattina fresca di inizio inverno. Ceri ama Gaber come artista, ma anche come modello culturale e umano. Si vede e si capisce dalle domande che ha scelto di fare nelle sue interviste. Si è preso cura dei suoi dischi e senza dare giudizi ha lasciato che fossero loro stessi a raccontarsi. Naturalmente lui sa che nulla esiste davvero di oggettivo e che ogni ricerca, nella sua poesia, è indirizzata a stanare quello che abbiamo sperato di trovare e riconoscere. Si tratta dell’immagine di una verità personale. Luciano ci ha regalato la sua. E c’è davvero piaciuta molto al punto da farla nostra.


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