PJTRIO Pino Jodice Trio – Infinite Space (Cose Sonore, 2018)

Formazione dalla ormai ventennale esperienza, il PJTRIO Pino Jodice Trio è ben noto per essere stato l’asse portante di una delle orchestre jazz nazionali più importanti come la PMJO Parco della Musica Jazz Orchestra, nonché per le tante collaborazioni messe in fila negli anni da Mike Stern a Dick Oatts, da Tommy Smith a Paul Mc Candless, passando per Dave Douglas e gli italiani Enrico Rava, Paolo Fresu. A distanza di sedici anni da “New Steps”, il trio è tornato recentemente con un nuovo album “Infinite Space” nel quale hanno messo in fila nove brani, firmati dal leader Pino Jodice ed ispirati studi di Stephen Hawking e Margherita Hack. Abbiamo incontrato il pianista napoletano per farci raccontare la genesi compositiva di un lavoro ambizioso quanto affascinante nel quale si mescolano tempi dispari, melodie ricercate ed armonie complesse. 

Partiamo da lontano. Un tuo disco con il trio mancava da “New Steps” del 2002. Nel frattempo, però, hai lavorato con organici differenti dal quartetto al quintetto, passando per le varie esperienze orchestrali…
Si. E’ passato molto tempo “New Steps”, il primo disco in trio e “Infinite Space”, però nel contempo ho scritto e registrato tanti dischi in varie formazioni dal quartetto all’orchestra, tra cui due album in quintetto, uno italiano con Max Ionata e Daniele Tittarelli e l’altro internazionale con la partecipazione di Dick Oatts e Tommy Smith, tre dischi con Maurizio Gianmarco e Megatones e poi diversi lavori con la PMJO Parco della Musica Jazz Orchestra. 
Ed ancora dieci dischi con Giuliana Soscia e gli ultimi “Megaride” con la Orchestra Jazz Partenopea di Pino Jodice e Giuliana Soscia con special guest Paolo Fresu e “North Wind” del Giuliana Soscia & Pino Jodice Quartet meets Tommy Smith. 

Recentemente hai dato alle stampe anche un libro di composizione per orchestra jazz…
La scrittura e i tantissimi concerti come direttore, arrangiatore e compositore con orchestre jazz e orchestre sinfoniche hanno, poi, occupato gran parte della mia relativamente recente attività concertistica (dal 2002 ad oggi) che mi ha permesso di migliorare e perfezionare le competenze in materia. Questa attività è culminata infine con la pubblicazione del libro di composizione per orchestra jazz, che sta andando molto bene ormai alla terza ristampa in uscita a breve anche il secondo volume.

Quali sono le caratteristiche compositive e strumentali che esalta il trio?
Il trio è una formazione che richiede maturità, grande esperienza e inventiva, creatività e gusto. Le composizioni oltre a evidenziare le qualità della scrittura devono dare spazio a tre solisti. Il trio ha bisogno di spazi e di una attitudine all’ascolto reciproco. Tutti e tre gli strumenti, piano, contrabbasso e batteria devono essere oggetto di ispirazione sia per le parti scritte (esecuzione dei temi) che per l’improvvisazione che richiede tantissima “generosità” e rispetto. Solo suonando insieme e soprattutto ascoltandosi si può produrre in trio un suono unico e coeso, vibrante ed emozionante.      

Com’è nata l’idea di tornare al trio?
In realtà non ho mai smesso di suonare in trio, avendo fatto molti concerti con questa formazione. L’idea di registrare un nuovo cd in trio è, però, giunta quando ho ripreso a scrivere per questa formazione e quando ho ritenuto opportuno e valido il materiale compositivo. Non mi piace fare un cd tanto per farlo. Devo essere ispirato e avere a disposizione il materiale giusto che corrisponde al mio stato d’animo del momento e deve essere preceduto da diversi incontri e concerti con le persone con le quali ho deciso di suonare.  In realtà, con Luca Pirozzi e Pietro Iodice, miei attuali compagni di viaggio, suonando insieme da più di trent’anni, dopo un minuto è già interplay.

Come si è evoluta la tua ricerca sonora con il trio?
Quando mio fratello Pietro, ancora adolescente, studiava batteria con il maestro Antonio Golino nel centro storico di Napoli e per me, studente di pianoforte classico, accompagnarlo a lezione era come immergermi nella storia del jazz. In uno di questi incontri, il maestro mi regalò una audiocassetta nella quale era contenuto il disco in cui Bill Evans e il suo trio rileggevano composizioni classiche accompagnati da un’orchestra con gli arrangiamenti di Claus Ogerman. Fu una folgorazione che segnò la mia vita iniziandomi al jazz. In seguito, dopo tantissimi concerti in trio con Antonio Golino all’Otto Jazz Club, uno club storico di Napoli, ho capito cos’era lo swing. 
Il maestro era molto esigente e non esitava ad “urlare” mentre si suonava in presenza del pubblico “…stasera c’è Swing….oppure... mi dispiace stasera non c’è swing…” e questo suo “grido di gioia o dolore” per noi giovani studenti, “musicisti in erba”, è stato uno straordinario insegnamento. Erano praticamente delle lezioni di swing vere e proprie sul campo. Così io ho imparato a suonare in trio e a capire quali erano gli elementi fondamentali che ti permettevano di suonare insieme e di raggiungere il climax giusto nel momento giusto con swing. Lo swing è qualcosa che non puoi imparare studiando da solo ma lo capisci proprio con un batterista “modello”. Pietro ha imparato la lezione e quando suoniamo insieme mi ritornano in mente tutti i concerti fatti in quel periodo storico fatto di sogni, di esperienze e incontri indimenticabili. Per me quindi la ricerca del suono del trio parte assolutamente dal trio di Bill Evans e attraverso il suo insegnamento ho avuto poi l’esigenza di studiare Bud Powell, Thelonius Monk, Chick Corea, Keith Jarrett, Harbie Hancock, McCoy Tyner il cui “Inception”  ho praticamente consumato in tutte le sue forme, vinile, cassetta, cd.

Veniamo più direttamente a “Infinite Space”. Riferimenti ispirativi importanti sono stati Stephen Hawking e Margherita Hack. Ci puoi raccontare com’è nata l’idea di questo disco?
Quando scrivo musica ho bisogno di una ispirazione, di una emozione che possa dare l’input giusto per la creazione. 
In questo caso questi due scienziati hanno dedicato la propria vita alla ricerca della verità nel Cosmo. La loro passione e la loro capacità di divulgazione sono per me diventati un modello da seguire nella musica. In particolare Hawking nonostante la sua disabilità, ricoprendo la cattedra universitaria che era stata di Newton, è diventato un punto di riferimento per la ricerca scientifica. Il Cosmo è una “infinita” fonte di ispirazione per tutte le Arti. Uno spettacolo incredibile, affascinante e misterioso, che non finirà mai di stupire. Non è un caso che proprio da questa ispirazione hanno attinto musicisti del calibro di John Coltrane, Wayne Shorter ecc. Questo per me è solo il primo lavoro e credo continuerà ancora ma, per ora, voglio divulgare questo mio primo “contatto” con il Cosmo del quale sono molto soddisfatto. Nei concerti mi sta dando molte emozioni sia dal punto di vista della risposta del pubblico che della critica e, soprattutto, a noi stessi impegnati a creare queste fantastiche immagini sonore. 

Ci puoi raccontare come si sono svolte le sessions di registrazione?
Le sessions di registrazione si sono svolte in due giorni consecutivi nello studio di registrazione Groovefarm di Roma. Prima di registrare abbiamo fatto diversi incontri per suonare ed abituarci allo spazio acustico a disposizione. L’album è stato registrato da Davide Abbruzzese mixato e masterizzato da Roberto Guarino. Sono, inoltre, state fatte le riprese in video di tutte le registrazioni a cura di Paola Immordino.

Mi ha colpito la ripresa del suono. Ci puoi raccontare come avete lavorato alle riprese audio?
Tecnicamente le riprese audio sono state fatte in questo modo: Pianoforte: microfonazione (Wide) AB sopra la tastiera (uno a sinistra del leggio e l’altro a destra)- 2x DPA 4006 - microfonazione (Close) XY - 2x schoeps CMC5-U MK4; Preamplificatori 4x millennia HV 3D; Convertitori 4x Apogee Rosetta 800. Contrabbasso: Neumann U87 puntato sul corpo e Neumann Km84i puntato sulle dita; I due microfoni sono posizionati con le capsule coincidenti per evitare problemi di fase una sorta di xy modificata,  per poter dosare il fuoco sulle dita e il fuoco sul corpo dello strumento; Preamplificatori 2x Amek 9098; Convertitori 2x Apogee Rosetta 800. Fender Rhodes: diretto su pre via DI Radial passiva JDI; Preamplificatore Harrison 3232; Convertitore Apogee Rosetta 800. Batteria:Cassa in - Electrovoice RE20; Cassa out - AKG 414 XLS; Rullante sopra - AKG C414B-ULS TLII; Rullante sotto - AKG C480B - CK 63ULS; HiHat - Neumann Km84i; Floor Tom - Sennheiser MD 421; Tom - Sennheiser MD 421; Over Head L C R - 3x Neumann KM 184 (configurazione tipo AB con aggiunta di un centrale - Nota bene i microfoni sono equidistanti da un punto centrale che sta tra la cassa e il rullante in modo da poter rifasare facilmente)Preamplificatori:  Cassa in e rullante sopra 2x API 512; Tutto il resto Harrison 3232; Convertitori AVID. Live Electronics: Max msp e Ableton Live.

In “Infinite Space” sperimenti le connessioni tra elettronica e jazz. Quanto c’è ancora da scoprire in questo senso?
Non si può oggi non tener conto delle nuove tecnologie. L’elettronica utilizzata nel modo giusto può dare un valore aggiunto alla performance. Le possibilità che gli strumenti tecnologici oggi hanno sono davvero infinite. In digitale e in tempo reale si può interagire, simulando le azioni analogiche dei magici vecchi sintetizzatori con tantissime funzioni avanzate, sia sulle parti scritte che nelle improvvisazioni. Importante è stato il contributo di Andrea Centrella, un giovane talento, batterista ed esperto nel live electronics. Un musicista di raffinata sensibilità che ho utilizzato nell’Orchestra Nazionale Jazz dei Conservatori Italiani, formata dai migliori talenti iscritti ai dipartimenti di jazz e nuove tecnologie di tutti i Conservatori di Musica italiani. Il suo approccio alla musica con le sue macchine ha incontrato immediatamente il mio gusto e le mie esigenze di interagire con l’elettronica. Se utilizzata come generatore di nuovi suoni, di elaborazione di suoni e lavorazione in tempo reale e non come simulazione di strumenti acustici, l’elettronica può arricchire e innovare il linguaggio jazzistico contemporaneo e con la sensibilità giusta si può raggiungere insieme un meraviglioso interplay soprattutto nelle improvvisazioni. Per altro, essendo un batterista Andrea comprende ancora di più il mio linguaggio che si sviluppa spesso su figurazioni ritmiche complesse e su tempi dispari e in questo senso riesce ad inserirsi perfettamente. Le introduzioni di musica elettronica del disco Infinite Space create da Andrea Centrella, sono state realizzate con materiali sonori di repertorio, con suoni campionati appositamente, con suoni di sintesi e con frammenti sonori dei brani del disco. Il tutto è stato suonato e processato (tramite controller midi) in real time con Max msp e Ableton Live. Il concetto seguito da Andrea e da me condiviso, è quello di rappresentare a livello sonoro il concetto di spazio, cercare di creare un'atmosfera sonora immersiva per preparare l’ascoltatore e interagire nelle improvvisazioni suggerendo strade alternative, nuovi stimoli ed impreviste soluzioni sonore, armoniche, ritmiche e melodiche.

Quali sono state le difficoltà nel tradurre in musica i misteri e il fascino dello spazio?
Le difficoltà nell’affrontare la trasposizione in Musica del Cosmo sono da attribuire alla creazione del materiale musicale compositivo. Vista la apparentemente "facile descrittività" dell’argomento in oggetto facilmente si può cadere tecnicamente nella trappola del genere musicale world music e affini. Spero di essermi distanziato da tutto ciò, non per disprezzo del genere ma per scelta stilistica, proprio perché il mio intento era quello di non perdere il senso melodico che mi appartiene profondamente e che non abbandonerò mai. Ho preferito utilizzare tempi dispari, armonie complesse pur mantenendo il concetto di melodia che mi accompagna dalla nascita. Leit motiv, frammenti melodici seriali, come in “The Black Hole”, che si evolvono nello sviluppo compositivo e nelle improvvisazioni.

Il disco si apre con “Polaris” che rimanda al decollo dell’Apollo 11. Dal punto di vista narrativo come si muove il disco?
Per questo album mi sono preoccupato di non essere eccessivamente descrittivo. Mi sono divertito ad inserire degli elementi tecnici per raccontare la mia visione dello Spazio Infinito suggerendo nel titolo di ogni brano l’immagine sonora. Il decollo dell’Apollo 11 è solo un modo per simulare la partenza del mio viaggio sonoro nel Cosmo e questo decollo ha segnato la vita di tutti noi. Mi sembrava opportuno richiamarlo e grazie ad Andrea Centrella è stato comunque rielaborato e personalizzato. 
“Polaris” appunto non descrive la stella polare, ma poiché è una melodia costruita su tempi complessi e con modulazioni metriche continue l’ispirazione è stata quella di immaginare che, per suonare questo brano “a tempo”, ci si possa trovare nella stessa situazione in cui i marinai, in mancanza di strumenti tecnologici in mare, per seguire la loro posizione geografica devono avere la stella polare come riferimento.

“Saturn’s rings” è, invece, caratterizzata da un’atmosfera quasi onirica…
In “Saturn’s rings” ho ritrovato la mia ispirazione in un sogno che avevo da bambino, esperto campione di pattini a rotelle (nella velocità), cioè quello di pattinare sugli anelli di Saturno, una follia visionaria che la Musica mi ha aiutato a realizzare. Bisogna essere abbastanza visionari per descrivere tutto ciò. Spero di aver comunicato questa mia caratteristica che in questo momento storico mi aiuta a fuggire da un mondo reale che l’uomo sta piano piano distruggendo e allora cerco di guardare in alto. Purtroppo stiamo lasciando un brutto futuro ai nostri figli. Spero che si cambi direzione il più velocemente possibile. Questa società poco attenta alla cultura, incurante della storia e dei danni provocati dall’imbarbarimento culturale in atto non mi piace affatto. Per ora viaggio nello spazio infinito, ma con i piedi per terra cercando attenzione da parte dei giovani dei quali ho estremamente fiducia. Spero che la scuola di ogni grado e genere possa attivare uno studio “Serio” della Musica per formare le sensibilità di ogni individuo e che indipendentemente dalla professione possano essere meno “ignoranti" in musica. Questo permetterà loro di comprenderne le qualità e le caratteristiche principali della musica che si sta ascoltando. La Musica ci salverà…ne sono certo.    

Quali sono le traiettorie e le coordinate che percorre “Infinite Space” dal punto di vista delle influenze musicali? 
Le influenze musicali sono sempre quelle dei grandi maestri. Io sono stato allievo dello straordinario pianista jazz Franco D’andrea e ricordo benissimo il suo insegnamento. 
Mi disse: “studia tutti gli stili pianistici del jazz, tutti i grandi pianisti, musicisti di tutte le epoche e da questo “mix" poi troverai il tuo stile”. Solo con la conoscenza e lo studio si può diventare e “ritrovare” la propria ispirazione e originalità. Il tutto avverrà in maniera naturale e graduale. Ho sempre rispettato e seguito questo suo insegnamento e ancora oggi nei miei studi continuo a seguirlo anche per quanto riguarda la scrittura orchestrale. Sicuramente John Coltrane e Wayne Shorter sono stati i miei riferimenti, in termini di influenze legate alla composizione, in questo lavoro.  

Quali aspetti delle fascinazioni del cosmo hai cercato di far emergere nelle tue composizioni?
Sicuramente il concetto di Infinito. La presa di coscienza di quanto siamo piccoli nei confronti dello Spazio Cosmico. Abbandonare la presunzione di essere gli unici esseri viventi e amplificare la curiosità. Lo spirito di ricerca che ogni uomo dovrebbe avere nel rispetto del prossimo e nella tolleranza del “diverso”. Segni di “Civiltà" che sulla terra stiamo perdendo.

Quanto spazio c’è nei vari brani per l’improvvisazione?
Ampio spazio è dedicato all’improvvisazione direi al 50%. Il Jazz è improvvisazione in qualsiasi forma di contaminazione si presenti e l’idea di interagire anche con l’elettronica lo trovo molto stimolante e innovativo. L’improvvisazione è il mezzo che ti permette di rendere unica ogni performance magica ed emozionante. 

Concludendo, come sono i concerti di “Infinite Space”? Cosa devono aspettarsi i nostri lettori che verranno a vedere i concerti del trio?
Ogni concerto risente dello spazio in cui viene fatto e dell’energia che il pubblico naturalmente ti ricambia. Mi piacerebbe, in futuro, registrare in tempo reale ogni performance e regalare al pubblico la registrazione di quel concerto che naturalmente è sempre diverso. Un ricordo emozionale.  Il disco è solo un aspetto di un momento vissuto comunque diverso dalla performance successiva e il concerto potrebbe anche essere migliore del cd, per questo vale la pena sempre andare ai concerti per tutti. Trent’anni di concerti fatti insieme con Luca Pirozzi al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria rappresentano per noi vite vissute da raccontare, interplay da condividere. Andrea Centrella con il suo mondo elettronico e il suo gusto musicale innovativo rende ancora più eccitante la performance perché inserisce elementi originali che generano ogni volta sempre nuove soluzioni impreviste perché imprevisti sono gli algoritmi generati dalle sue rielaborazioni dei vari segnali. Tutto questo è meravigliosamente creativo e di grande ispirazione. Il pubblico che fino ad oggi ha ascoltato i nostri concerti ha accolto con entusiasmo le nostre performance e chi ci ha avvicinato ci ha detto: “ ...grazie per averci fatto viaggiare nello spazio e per averci fatto sognare ad occhi aperti”…direi una gran bella soddisfazione: Missione compiuta. Speriamo di fare molti concerti in futuro e portare “Infinite Space” in tutta Italia e soprattutto all’estero.   



PJTRIO Pino Jodice Trio – Infinite Space (Cose Sonore, 2018)
Dotato di grande talento compositivo e di un raffinato tocco pianistico, Pino Jodice è un artista in continuo movimento in grado di spaziare con disinvoltura attraverso organici differenti dal quartetto al quintetto, fino a toccare la conduction nelle varie esperienze orchestrali, riuscendo ad esaltare tanto le potenzialità espressive di ognuna di esse, quanto la sua originale cifra stilistica e compositiva. Nel suo articolato percorso artistico, di grande importanza è stata anche la dimensione del trio con il quale ha inciso “New Steps” nel 2002 e che, in qualche modo, ha rappresentato la base di partenza delle sue esplorazioni sonore. Sebbene l’attività concertistica di questa formazione non si sia mai interrotta, non ci sorprende il fatto che Pino Jodice abbia deciso di riportare tutto a casa, ritornando in studio con Luca Pirozzi (contrabbasso) e Pietro Jodice (batteria) per registrare “Infinite Space” con la partecipazione di Andrea Centrella (live electronics). Ritrovare questa formazione con un rinnovato entusiasmo e soprattutto la piena maturità artistica gli ha consentito di sperimentare nuove traiettorie musicali e compositive. Si tratta di un ambizioso concept album nel quale il PJTRIO ha raccolto nove composizioni, firmate dallo stesso musicista napoletano, ispirate dalla capacità di scienziati come Stephen Hawking e Margherita Hack di riuscire a divulgare al grande pubblico i loro studi sul cosmo. Allo stesso modo Pino Jodice è riuscito ad imprimere a queste nuove composizioni un taglio comunicativo sorprendente cogliendo in modo impeccabile “lo straordinario spettacolo del cosmo”. Nel suo complesso il disco, infatti, si muove su diversi piani espressivi ora evocando un viaggio in musica tra galassie, asteroidi e pianeti, ora perdendosi nel buio dei buchi neri, ora ancora abbandonandosi alle fascinazioni dello spazio infinito. Fondamentale in questo senso il perfetto interplay tra il pianoforte e la sezione ritmica, in cui si inserisce il determinante contributo all’elettronica di Centrella dando vita ad continuo susseguirsi di immagini sonore dalla prepotente forza evocativa. Dal punto di vista prettamente compositivo, l’album si presenta assai omogeneo non senza regalarci una bella varietà di timbri, melodie ed armonie, il tutto impreziosito da ricercati tempi dispari. L’ascolto è un invito al viaggio interstellare che parte dai suoni elettronici che rimandano all’approdo sulla Luna dell’Apollo 1 con cui si apre “Polaris” e nella quale il pianoforte di Jodice si muove attraverso una complessa struttura ritmica. Si prosegue prima con le fascinazioni siderali che permeano la trama elegante di “Galaxies” e poi con la trascinante progressione melodica e ritmica di “Gravitational Waves”. Se “Melodia Infinita” e la title-track colpiscono per la potenza immaginifica della scrittura e dell’esecuzione, “Stratosphere” vede le tre voci strumentali del trio rincorrersi tra dialoghi e soli fino a ritrovarsi nel brillante finale corale. Vertice del disco è certamente “Saturno (Saturn’s Rings)” per solo piano in cui Jodice si diverte ad evocare il sogno ricorrente della sua infanzia di pattinare sugli anelli del pianeta Saturno. Completano il disco la misteriosa “The Black Hole” e la blues ballad “Weightlessness” che dal vivo promette di essere la base di partenza per improvvisazioni a tutto campo. Insomma “Infinite Space” è un disco pregevole nel quale si coglie tutta la maturità artistica della scrittura di Pino Jodice, ma è anche l’occasione per ritrovare una delle formazioni di punta del jazz in Italia. 


Salvatore Esposito
Foto 1-5 di Marco Neugebauer

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