Alonisma Vtet – Çekirdek (ZKalan, 2018)

Quintetto interessante imperniato sui suoni vellutati dei flauti ma, allo stesso tempo, bene piantato nel dialogo tra gli altri strumenti. L’ensemble Alonisma sembra prendersi il tempo necessario per organizzare una visione musicale distesa e a tratti tesa, densa e mai rigida, generalmente in armonia con una serie di elementi che possono ricondursi a una world music raffinata ed eclettica, sebbene spesso aderente a un’estetica abbastanza riconoscibile. Non è un difetto. Anzi, si potrebbe dire che, in considerazione del contesto in cui quei suoni si sviluppano e sono espressi, questa world music è decisamente rassicurante. Per due motivi principalmente. Innanzitutto perché, sebbene il quintetto non si adagi esplicitamente sulla retorica che la rappresenta, sembra fin dal primo ascolto implicita una sua accoglienza, dentro una trama musicale molto dinamica e mai scontata. In secondo luogo perché questa tensione all’etnicismo ricercato e raffinato, procura una importante sensazione di distensione, che abbraccia l’ascoltatore in tutti i brani. In coincidenza con questi elementi vi è, poi, un’attenzione estremamente coerente sia alla timbrica che alla costruzione di una narrativa musicale indubbiamente jazzistica. E questo definisce, da parte sua, uno spazio morbido, ancorché multiforme, entro il quale (lo ripeto) si ha tutto il tempo per godere della maestria di questi cinque musicisti. D’altronde, ai più accorti potrebbe essere sufficiente scorrere le pagine del libretto allegato al disco per comprendere la prospettiva che definiscono i suoni inclusi in questo “Çekirdek”, il primo album dell’ensemble guidato dal flautista Andrea Romani. Innanzitutto vi si leggono gli strumenti: flauto e ney (Andrea Romani), piano (Estreilla Besson), sassofono tenore e soprano (Tamer Temel), percussioni (Izzet Kizil) e contrabbasso (Apostolos Sideris). I quali configurano una formazione vicina al jazz, ma che – grazie alla preminenza del flauto e, ancor più, alla voce del ney – si affaccia con disinvoltura su un panorama sonoro più ampio e profondo, in cui si scorgono molte figure, sagomate in maniera diversa ma attraverso uno stesso principio: andare avanti, sporgersi e non fermarsi davanti a ciò che si conosce. Buona parte di questa tensione sperimentale può essere ricondotta alla compresenza degli strumenti. In alcuni casi si ha la sensazione di essere trasportati in uno spazio piacevolmente primitivo, sebbene si finisca sempre per lacerare, con l’aggiunta di suoni nuovi, tutto ciò che riconduce, più o meno direttamente, a una forma di consapevolezza. Nel brano “Patrounino”, ad esempio, questa divergenza è tanto allarmante quanto piacevole, liberatoria. La batteria sostiene un fraseggio di flauto molto ritmato, mantenendo un andamento cupo e diritto, modulato rigidamente dall’ingresso del sax soprano, che apre temporaneamente una traiettoria diversa, poggiata anche su alcune note del pianoforte. Tutto si richiude, dopo ciò che sembra un breve interludio, nella fermezza del tema dell’inizio del brano, che si conclude con un unisono a dir poco straniante. Il brano successivo si lega, sul piano timbrico, a quella chiosa, attraverso un fraseggio solitario del contrabbasso, che si configura come l’incipit di “Song for Nicola”, uno dei momenti più belli dell’album, in cui si incontrano compiutamente tutti gli strumenti e si definiscono figure melodiche più ampie e liriche. Il brano in chiusura, “Napole”, ha una forma più compatta, un ritmo più complesso, un tempo più lungo entro cui sviluppare i temi e far interagire gli strumenti. Ma, in generale, ha la forza della chiusura, dove si condensa buona parte degli elementi qui brevemente descritti. E dove si configura un ottimo contrappunto con il punto di partenza, cioè il brano intitolato “Çekirdek” (più disteso e soffuso), posto in apertura della scaletta. 


Daniele Cestellini

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