La vicenda artistica di Guy One è una di quelle storie che meritano di essere raccontate dall’inizio perché scoprirle è una preziosa occasione di arricchimento umano e culturale. Nato nel 1972 a Nyariga, un villaggio fatto di case costruite in creta situato nella savana all’estremo nord del Ghana, Guy One al secolo Abane cresce lavorando, insieme alla sua famiglia, nei campi ed allevando mucche, ma soprattutto ascoltando le storie dei suoi antenati, fonte primaria di conoscenza non avendo la possibilità di frequentare la scuola, perché troppo distante dal suo villaggio. Guy si appassiona alla musica della sua terra e, dopo essersi costruito uno strumento a corda singola, comincia a cantare le storie che gli erano state tramandate e a raccontare i problemi quotidiani del suo villaggio. Diventato maestro del Kologo, particolare banjo a due corde, Guy One a vent’anni è già noto in tutta la regione, tant’è che la sua musica diventa la colonna sonora di tutti gli eventi civili e religiosi a Nyariga, Namoo, Sambolgu e nei villaggi Frafra del Burkina Faso. Dopo la morte del padre, decide si trasferirsi a Bolgatanga, la metropoli economica della regione e a trent’anni entra in studio per la prima volta per incidere il suo primo album. L’enorme successo riscosso dal debutto lo porta a mettere in fila una lunga serie di dischi e tour e a conquistare nel 2012 il “Ghana Music Award” come miglior musicista tradizionale. A segnare la sua carriera è, però, l’incontro con il batterista e produttore Max Weissenfeldt con il quale prende vita una intensa collaborazione che gli frutta la partecipazione nella traccia di apertura dell’album “Invisible Joy” dei Polyversal Souls e un tour in Europa, culminato con la partecipazione di Festival di Roskilde in Danimarca. L’anno successivo è ancora in tour insieme ai Polyversal Souls e alla cantante Frafra Florence Adooni con i quali attraversa l’Africa per approdare successivamente in Europa. Proprio tra una data e l’altra del tour, vengono finalizzate le sessions del suo primo album internazionale “#1” in parte finanziato dalla Fondazione Culturale Federale della Germania e realizzato in collaborazione con l’associazione Benkadie.V. Registrato tra Berlino e Bolgatanga con la produzione di Weissenfeldt e la partecipazione di Peter Brötzmann, il disco mette in fila otto brani che rappresentano le pagine di un personale diario di viaggio nel quale si intrecciano riflessioni introspettive e il racconto della cultura e del suono della sua gente. Ogni brano è caratterizzato da un approccio sonoro nel quale si riflette tutta la vivacità che permea il senso della vita nella cultura Frafra, i cui suoni tradizionali si intersecano con l’innovazione degli strumenti elettrici, mescolando l’afrobeat di Fela Kuti e l’energia dei Konono n.1, il funk e il soul, il jazz e il rock. Passato, presente e futuro si rincorrono nel dialogo tra fiati, basso, batteria, sintetizzatore ed organo in cui si innestano i cori femminili dando vita ad una cifra stilistica che supera il concetto di world music in senso stretto per approdare ad una visione più complessa di tradizione in movimento. Ad aprire il disco è la programmatica “Po’ore ye La Be De Geta Gurego” il cui titolo rimanda all’importanza delle proprie radici e nella quale le soundscape recordings del mercato di Bolgatanga fanno da sfondo al dialogo ipnotico tra kolongo, faluto e percussioni in cui si staglia la voce della mamma di Guy One. “Bangere Tomme?”, registrata dal vivo al Festival di Roskilde, ci conduce in territori sonori differenti con i fiati a guidare la linea melodica su cui si inserisce il coro e la voce di Guy, ma è con il sofferto blues di “Ete Songo” che il disco entra nel vivo regalandoci un susseguirsi di suggestioni di grande fascino. Se, infatti, “N'yella Be Bobere?” e “Everything You Do, You Do For Yourself” si muovono tra soul e funk, la seguente “Yelmengere De La Gu'usi” ci proietta verso il jazz con il vibrafono ad impreziosire l’arrangiamento. L’invito a lasciarsi trasportare dalla danza del crescendo di “Nongre, Nongre - Sugre, Sugre” ci conduce alla conclusiva e bellissima “Sella N'de Hu Dene” che suggella un disco superbo che non mancherà di appassionare coloro che avranno modo di ascoltarlo.
Salvatore Esposito
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