Antonio Fanelli, Contro Canto. Le culture della protesta dal canto sociale al rap, Donzelli 2017, pp.218, Euro 25,00

Ecco un libro che conta. Da una prospettiva storica e antropologica con scrittura rigorosa, documentata, lineare e accessibile, Fanelli (membro del comitato scientifico dell’Istituto Ernesto de Martino, docente e ricercatore di demo-etno-antropologia all’Università di Pisa) mette al centro del discorso i linguaggi e le forme del canto sociale e politico in Italia, come affermazione di un soggetto collettivo, ricostruiti soprattutto a partire dal secondo dopoguerra. Mettendo da parte la copertina un po’ accattivante, che fissa un tambureddhu salentino con tanto di taranta effigiata (benché l’autore da subito, nell’introduzione, spieghi tutta la forza emblematica dello strumento, divenuto simbolo feticistico e identitario, nel significare la caduta della distinzione tra forme cosiddette autentiche delle espressioni del mondo contadino e folklorismi), nelle 218 pagine, prefate da Alessandro Portelli, il volume scava nella produzione, circolazione e ricezione di canti e musiche, che hanno accompagnato le trasformazioni sociali ed economiche, quelle dell’industria culturale, la dialettica tra pratiche egemoniche e azioni prodotte dal basso negli ultimi settant’anni di vita italiana per costituire un ‘contro canto’ della storia del Belpaese. In realtà, la vicenda non può che iniziare prima, negli anni tra le due guerre, puntando i riflettori su Raffaele Mario Offidani, alias Spartacus Picenus, «capostipite dimenticato» - lo definisce Fanelli –, figura di militante e autore comunista che componeva canzoni politiche sui motivi di largo consumo dell’epoca. La scelta non è casuale, perché l’analisi del campo di produzione di Offidani, che usa la parodia rileggendo canzoni e arie mainstream del suo tempo, non soltanto sgombra il campo da ogni ipotesi di ‘purismo’ del canto sociale, di fatto intrecciato con i meccanismi della popular music, ma conduce al cuore del dibattito sul rapporto tra intellettuali, artisti e classi subalterne e sulle politiche culturali della sinistra per costruire un’egemonia nella società. Superata la fase del ventennio fascista, che mette sotto controllo il folklore con i suoi apparati dopolavoliristici, il passaggio successivo è nel discutere il portato gramsciano (le analisi sul folklore contenute nei “Quaderni del carcere” e il dibattito che ne segue tra studiosi e intellettuali) ed affondare l’analisi in quei formidabili anni in cui si fonda l’etnomusicologia e l’antropologia contemporanea in Italia con le indagini meridionaliste di Ernesto de Martino e le sue ipotesi sul ‘folklore progressivo’. Con l’ausilio dei recenti contributi di studiosi di popular music (Tomatis, Plastino, Lutzu), che hanno svecchiato una certa idea di folk revival, con la copiosa documentazione dell’Istituto de Martino e, in particolare, grazie alla frequentazione di quel lucido analista e musicista che è stato Ivan Della Mea, Fanelli ripercorre il lavoro di ‘ricerca-intervento’ di Gianni Bosio, la stagione dei Cantacronache e poi del Nuovo Canzoniere Italiano, le produzioni discografiche, il ruolo degli studi di etnomusicologia che si affermano in Italia, l’impegno del “de Martino”, l’influente opera di  Roberto De Simone. È una lettura puntuale e critica, specchio di una più ampia cornice politica ed epistemologica che si interrogava, per l’appunto, sulle forme culturali senza tralasciare il rapporto con l’industria musicale e i media. Superati gli anni Settanta del Novecento, la narrazione del decennio successivo perde un po’ di smalto. Il fatto è che Fanelli aderendo fortemente alla prospettiva documentaristica del “de Martino” (per anni ha lavorato sull’imponente mole di materiali conservati nell’Istituto che oggi ha sede a Sesto Fiorentino), riserva la centralità analitica ai commenti dei padri dell’etnomusicologia, che nel frattempo sono diventati accademia, e che hanno ‘prodotto’ la prima generazione di etnomusicologi-musicisti italiani. Gli anni Ottanta sono tempi di forti mutamenti nella fruizione e circolazione delle musiche folk e popular; si assiste alla nascita delle radio libere con programmi specializzati di musica tradizionale, cresce il circuito dei festival folk europei, nascono riviste specializzate, si costituiscono centri di partica e diffusione della danza popolare in ‘funzione’ antagonista nei confronti del ballo commerciale della discoteca. Riducendo all’osso la riflessione su quella stagione fertile, che porta al prosperare di gruppi e artisti del centro-nord (ma non solo), al raccordo tra revival e comunità locali anche per l’intervento di ricercatori e di musicisti locali (Appennino bolognese, Quattro Province, solo per ricordare gli esempi più noti), si rischia di perdere di vista quei semi di formazione e creatività musicale che esploderanno negli anni Novanta e che si estendono fino ad oggi. Inoltre, se è vero – come riporta Fanelli – che il disagio e l’antagonismo giovanile si incanalano verso altre forme, nondimeno appare riduttiva una lettura che liquida un decennio di sperimentazioni, di nascita di etichette indipendenti, di fiorire scuole di musica popolare, di concerti ai festival folk europei e americani al dilagare delle mode irlandesi e francesi. È innegabile che la nuova ondata folk, meno pervasiva ma anche meno presente nei media musicali mainstream, non sia manifestamente ideologicamente orientata come quella passata, ma musicalmente parlando le stagioni precedenti, oltre alla dialettica tra ricalco, stilizzazione e creazione artistica, non ci avevano portato anche modelli musicali folk americani, degli chansonnier d’oltralpe e brechtiani? Ancora, non c’è ombra nella disamina di un disco seminale come “Creuza de Mä”, pubblicato nel 1984: vero snodo sonoro e culturale, che inventa un’estetica del Mediterraneo in musica e che avrà un valore d’uso esorbitante per le produzioni musicali che seguiranno. Ciò avviene prima dell’avvento di posse e rock band che provano a sposare il folk, assumendo nel proprio sound, soprattutto le prime, dei cliché etnofonici. Insomma, sembra rientrare dalla finestra la cesura tra il tempo rigoglioso dei ’60-‘70 (pure nelle temperie culturali analizzate a fondo nel testo) e il decennio successivo sbiadito e assorbito nella ristrutturazione capitalistica post-fordista, dal cosiddetto riflusso e dalla sconfitta dei movimenti antagonisti. L’analisi riprende vigore con gli anni Novanta, quando sono focalizzate per l’appunto le relazioni tra hip hop e istanze identitarie, con il tentativo di congiungere canto sociale e modelli musicali urbani di derivazione americana e caribica. Si parla dell’avvento della world music (troppo spesso liquidata come epifenomeno commerciale) e lo spostamento della prospettiva dalla dimensione di classe a quella dei revival etnici: in Italia, categorie come etno-beat, musica etnica, roots music vanno a sovrapporsi se non a sostituire a quelle di folk e di musica popolare. La densa trattazione dei nuovi fenomeni riconducibili alla globalizzazione tiene conto, con ottima capacità di sintesi, del ripensamento epistemologico delle scienze sociali e degli studi culturali, che decostruiscono le categorie interpretative (folklore, autenticità, tradizione). Un altro spunto di riflessione proviene dall’affermarsi dei controversi processi di patrimonializzazione, che si intrecciano con le politiche culturali e con le forme spettacolari (esempio più evidente il caso de La Notte della Taranta, rispetto al quale Fanelli riprende le puntuali analisi di Vincenzo Santoro e Gianni Pizza). In conclusione, il cerchio si chiude intorno alla domanda: ‘cosa può significare canto sociale oggi?’, che mette al centro del discorso la figura di Sandro Portelli (autore della prefazione), magistrale nel rinnovare le ricerche sul canto sociale e sulle culture orali non egemoni, che con le sue più recenti analisi sulle musiche migranti sta contribuendo a riformulare nozioni e categorie analitiche della cultura e delle musiche e a tracciare nuovi terreni di studio del canto sociale. 

Ciro De Rosa 


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