Tarantolati di Tricarico – Terra che trema (CNI, 2016)

Un nuovo album dei Tarantolati di Tricarico vale sempre la pena ascoltarlo. Perché tra le migliaia di parole che riescono ad articolare in una canzone, oppure tra gli incastri sempre lineari e cadenzati delle percussioni (loro dicono “strumenti arcaici”), si trova sempre qualcosa che vale la pena riascoltare. Si tratti di un passaggio, di un asciugatura del suono da cui emergono le voci in modo più netto e “libero”, di qualche strumento piacevole, come il mandoloncello, l’ukulele o il bouzouki. “Terra che trema”, recentemente pubblicato da uno tra gli ensemble musicali più longevi del nostro paese, non tradisce queste aspettative: è particolarmente articolato sul piano degli arrangiamenti, il suono e il timbro generale dei dieci brani (più tre bonus tracks) è curato e organizzato con coerenza, il ritmo (manco a dirlo) è forte e deciso. Inutile soffermarci sugli elementi che meglio si conoscono dei Tarantolati, a eccezione di una nota sull’uso delle percussioni che, senza volere per forza fare retorica, è uno degli aspetti più entusiasmanti del programma in questione. È vero che non è una novità, ma questo nuovo album lascia emergere una forma di appropriazione del suono, che diviene nel suo insieme e in particolare dentro l’incedere dei cupa cupa una grande onomatopeica. Che si sviluppa senza sosta e permeando ogni parola e ogni passaggio, come l’elemento più significante della narrazione. Come la soluzione più necessaria e inevitabile. Ciò premesso, come sa bene chi segue il gruppo-icona della Basilicata, album dopo album non ci si sposta molto dalla visione che i Tarantolati hanno avuto ormai molti anni fa. Ma, nonostante questo (che, beninteso, è sia una zavorra che un salvagente), ogni volta il gruppo riesce ad alleggerirsi con maestria: quasi a librarsi in un’atmosfera che a me appare sempre più nettamente inverosimile e onirica, perché è implementata e ricreata da una costanza espressiva ed esecutiva che spinge il flusso musicale fuori dal tempo. Chiunque direbbe che questa potrebbe essere sia una critica che un complimento. Ma d’altronde – e questo è solo un complimento – se di musica popolare parliamo, se è questa la nostra e soprattutto la loro cornice di riferimento, fin dove dobbiamo pensare di poterci spingere? Direi senz’altro che i musicisti devono seguire l’ispirazione (“visione” ho detto prima, pensando a un insieme più vasto e articolato, o a riferimenti probabilmente più profondi) che, nel bene e nel male, avvolge e riflette la narrativa e l’immaginario popolare. Quindi i suonatori e i cantanti che riescono a interiorizzare, e di conseguenza a riprodurre con naturalezza e schiettezza, il linguaggio, il racconto e la musica orale sono, a mio modo di vedere, sempre interessanti da seguire. Perché loro stessi sono avvolti da un flusso pieno di significati, addirittura estetici e non solo storico-culturali o politici. E quei flussi, nei casi migliori, riescono a rifletterli con coerenza, dentro cioè un quadro di pensiero che aderisce, forse più di quanto siamo disposti a credere o a teorizzare, a ciò che immaginiamo come popolare o folclorico o chissà che. Chi invece prova ad analizzare i risultati, o meglio la parte hic et nunc di questi processi, può certamente auspicare di incontrare una compiutezza estetica e progettuale mai vista. Ma nella maggior parte dei casi rimane a bocca asciutta, perché o si accontenta della musica popolare – che è tanto più popolare quanto più risponde ai criteri di cui sopra – oppure è destinato alla ricerca di una trama che non ha fine (questione non da poco e ricca di stimoli: le pagine di questa rivista sono scritte spesso dentro questo solco). Ora, chi scrive si riconosce come sospeso tra questi due poli e crede anche che non sia poi tanto male. I Tarantolati pendono senza dubbio sul primo versante, quello del popolare più o meno netto e maturo, come tante formazioni che trainano il peso di forme espressive “locali”, le quali da punto di partenza sono diventate l’orizzonte a cui si guarda, con riverenza mista a curiosità, con partecipazione piena e spesso esclusiva. 


Daniele Cestellini

Posta un commento

Nuova Vecchia