Lou Dalfin – Musica Endemica (Marduk/Self, 2016)

Quando ci si mette nella scia dei “delfini” guidati Sergio Berardo, ci si ritrova a fare i conti con la storia dell’antica civiltà d’òc. Emersi oltre trent’anni, quando lo stesso Berardo fu tra gli artefici, con pochi altri musicisti in Piemonte, della rinascita della ghironda, nella loro longeva attività su disco e live, i Lou Dalfin hanno reiventato la musica occitana, in primis quella delle valli italiane, ma hanno sempre proiettato il loro orizzonte musicale a tutto l’antico territorio considerato occitano, dalla Provenza alla Guascogna e fino alla Spagna. Sempre in movimento, attaccati alla loro terra, ma non in senso passatista, ci hanno abituati a srotolare in maniera vivida ed emozionante – come se quello che raccontano in parole e musica fosse accaduto proprio ieri – piccole e grandi storie di soprusi e di lotte, di sconfitte e di riscosse. Le loro sono utili lezioni di storia locale, cronache da un passato che porta insegnamenti per il presente. Né rinunciano allo sguardo critico (sempre condito da ironia) sulle nefandezze di oggi, ponendosi sempre dalla parte a chi si batte in difesa delle vallate violate dai grandi interessi politici ed economici. Lo fanno con strumenti della tradizione in divenire: ghironda, musette, fifre, organetto diatonico, armonica a bocca, violino, chitarra acustica, bouzouki, banjo, basso, chitarra elettrica, batteria ed elettronica. Per questo nuovo album, al timone della produzione i Lou Dalfin ritrovano Madaski, a venti anni dal precedente incontro discografico, quel “Gibous, bagase e bandì”, al quale, in un certo senso, il nuovo lavoro è più prossimo, se confrontato con la più precedente incisione in studio “Cavalier faidit”, per disposizione strumentale, per qualità sonica, ma anche per tematiche. Così Sergio Berardo – raggiunto al telefono tra una lezione e l’altra con i suoi giovani allievi – racconta la scelta del producer: 
«La primavera scorsa, pensando al disco da realizzare, dovevo scegliere un produttore. Sono andato a vedere il Toro che giocava contro l’Athletic Bilbao. Lì, ai tornelli, ho visto Madaski. Ci siamo salutati, ma non ci siamo parlati per almeno cinque minuti. Avevamo molti ricordi in comune: un’origine generazionale molto vicina, una certa contiguità C’era la necessità di dirsi qualcosa… e questo mi ha incuriosito. Quando ci siamo ritrovati, era come se vent’anni non fossero passati, lo erano per le cose positive come le esperienze maturate, una certa calma che viene dall’età con cui affrontare le cose. Noi che proveniamo da esperienze apparentemente differenti: io alle prese con strumenti antichi e con la musica popolare, lui dal dub e dal reggae, abbiamo trovato un terreno comune su cui si è sviluppato il lavoro. Insomma, è stata una scelta pensata. Madaski ha potuto permettersi di fare il vero lavoro del produttore. Siamo arrivati con il disco arrangiato: melodie, ritmi, arrangiamenti. Lui ha lavorato sui suoni, sulla lunghezza di un pezzo, su uno stacco; ha potuto concentrarsi sul lavoro concreto del produttore. Si sente la presenza di un grande produttore: è il suono della generosità, di un lavoro fatto insieme, è lo scambio di energia e di emozione». La copertina ritrae un comodino da notte con tutta una serie di oggetti; è l’immaginario di qualcuno che è legato alla propria terra, ai propri gusti: 
«La conchiglia di San Giacomo, il trattore che ti porta alla dimensione di lavoro, alla terra. Sul trattore è seduta una bella ragazza valligiana (è Lisa Isoardi, nativa della Val Grana, ndr). Forse, è un ricordo del lavoro agricolo, associato alle mie memorie cinematografiche puberali della Silvana Mangano di “Riso Amaro”». Ancora, nella foto sono raffigurati un flauto, un’armonica a bocca, il ponticello della ghironda, pezzi di organetto, un bicchierino di Moscato (si racconta che le dame piemontesi ne tenessero un bicchierino sul comodino in caso di… necessità, durante la notte, ndr). Insomma, oggetti che riportano alla “Musica endemica” del titolo (davvero indovinato): «Come un fiore, come una malattia. È la musica che trova una profonda ragione di esistere nel legame con una terra, una storia, una cultura, una lingua. Che ti tiene attaccato a una terra che ami, non perché sia migliore o peggiore delle altre, ma perché nella cultura della terra: annusandola, ascoltandola, vivendola, trovi gli elementi per guardare avanti». L’ottetto occitano (Berardo, Tron, Serra, Gosmar, Poletti, Cesano, Revello, Bruna, più alcuni collaboratori), presenta dieci canzoni e quattro strumentali: un combat folk elettrificato (e qui si avverte una certa reiterazione di schemi), fatto di ballate danzanti, di canzoni costruite su moduli coreutici della danza tradizionale. 
Courenta, giga e rigodon combinati con stilemi rock, dalla ritmica potente e arrembante: nella visione dei Lou Dalfin la storica forma popolare della canzone a ballo si è tramutata in danza-canzone. Il fatto è che, con il passare degli anni, il ballo è diventato fenomeno centrale e massivo ai concerti dei Lou Dalfin. «Quella delle feste, del divertimento, della socializzazione del ballo è sempre un aspetto importante: per conoscersi, per rimanere insieme in categorie trasversali dal punto di vista socio-culturale e anagrafico. Alle nostre feste trovi le tipologie umane più disparate: è un elemento che dal punto di vista antropologico è interessante, soprattutto in un tempo in cui si vive sempre più in tribù separate. O in cui i giovani che non vogliono stare con i vecchi…». Quelle di “Musica endemica” sono canzoni-danze che raccontano storie, ciascuna canzone è la tessera di un mosaico, un paradigma della musica popolare. A partire da “Glòria al Dètz-e-seten”, che racconta la storia di un’insubordinazione, quando – era il 1907, in Linguadoca, durante una rivolta capeggiata da un socialista occitanista, Ernest Ferroul, contro l’importazione di vino, che comprometteva gli interessi dei coltivatori locali, i soldati del 17° fanteria rifiutarono di fare fuoco sulla ‘loro’ gente e si unirono alla protesta, per poi morire sui fronti della Prima Guerra Mondiale. Dai drammi di ieri all’oggi: con l’ironia di “I vilejants”, che mette alla berlina, con l’apporto di una sezione fiati, quel turismo fatto di villeggianti che cercano la pace partendo dalla città, ma è una pace tra le valli «che ricorda la pace dei cimiteri: non c’è allegria, non c’è festa, non c‘è vitalità, ma paralisi». Dalla battaglia di Muret – combattuta nel 1213 e decisiva per le sorti della crociata albigese – arriva la vicenda de “Lo negat” (“L’annegato”), muro ritmico per una ballata tirata, in cui i Delfini occitani ci infilano anche un inserto rappato. Invece, “Provincia clandestina” ci porta a Cuneo al concerto di Manu Chao: «È un poema del provincialismo, quella di manu Chao è stata vissuta come una visita nell’approccio degli autoctoni in maniera non dissimile da quelle di un tempo, del re o… del duce. Con il promoter che per il compleanno … si era procurato una festa di con Manu Chao. Noi abbiamo suonato prima, ma ubriachi com’eravamo gliel’abbiamo un po’ rovinata»
Canta Berardo: “Sull’altopiano della Granda soffierà il vento ribelle/ Con l’aiuto della Cassa di Risparmio e degli occitani che hanno bisticciato come dei poveri cristi per suonare prima”. Si rallenta per “La beata” (che è la ghigliottina, su cui finiranno nel 1868 i protagonisti della canzone). Qui si parla di una gang di piemontesi reduci da Solferino, nella II guerra d’indipendenza risorgimentale, che non riesce ad accettare la condizione borghese; all’incirca in parallelo con quanto avveniva oltreoceano con Jesse James, che non si era adattato al nuovo status, dopo la guerra civile americana diventando un bandito. Si danza con “Brandi di cavals”, prima di tuffarsi nel traffico di Barcellona, nel viaggio transfrontaliero in Catalogna di ”Los Taxis de Barcelon” (che è anche un video diretto dal torinese Davide Borsa). “Gigants” sono i giganti Ugo, montagne umane, che divennero fenomeno da baraccone ai tempi della Belle Époque, originari di un frazione di Vinadio nella valle Stura cuneese. Su un incedere solenne, si ritorna a puntare il dito sulla scellerata crociata contro gli Albigesi, che significò la distruzione dell’utopia religiosa, culturale e sociale catara. Dopo due magnifiche bourrée (la prima tradizionale alverniate, la seconda firmata Berardo), ecco giungere a passo furente, condito da sferzate di chitarra elettrica, il noir valligiano de “Lo darrier gardian, l’ultimo abitante di una borgata, un serial killer che uccide i turisti per avere compagnia e li mette al fresco in una grotta: «Una storia inventata. Non siamo tra i più accoglienti, ma non arriviamo a tanto…». Un altro strumentale, “Roccerè”, ci fa raggiungere la val Maira, accompagnati da flauto armonico, ghironde ed elettronica, mentre la suadente valzer-canzone che chiude il disco, “L'Angel de Serrabona”, è in catalano, un omaggio ai “potenti” cugini del Sud. Ben trovati, Lou Dalfin, arrembanti trovatori nel nuovo millennio. 


 Ciro De Rosa

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