“Questo è il male che mi porto da trent'anni addosso, fermo non so stare in nessun posto”, così Vinicio Capossela cantava ne “Il Ballo di San Vito”. Da allora sono passati vent’anni, dischi sempre di maggior successo, e tanti incontri artistici, che hanno confermato la sua natura di artista in continuo movimento e dalla tensione costante alla ricerca di nuovi sentieri da intraprendere. Dopo l’incursione nel rebetiko greco con il gustoso “Rebetiko Gymnastas” di tre anni fa, lo ritroviamo intento a rileggere, secondo la sua visione e il suo tratto artistico, la musica tradizionale del Sud Italia con “Canzoni della Cupa”, disco del ritorno nella terra paterna, l’Irpinia, nella quale sono nati e vissuti i propri genitori prima di trasferirsi ad Hannover in Germania, dove è nato. Il riportare tutto a casa di Capossela è stato un cammino lungo, lento, meditato, e passato attraverso tante tappe di avvicinamento, dai concerti in cui spesso ci è capitato di ascoltare alcuni dei brani che abbiamo ritrovato in questo nuovo disco, passando per la sua battaglia in musica contro una discarica sull’altopiano irpino del Formicoso, dal successo dello Sponz Fest, al disco de la Banda della Posta di Calitri, fino al libro “Il Paese dei Coppoloni” ed al film omonimo dello scorso anno. Parallelamente e lontano dai riflettori, si sono composti i vari tasselli de “Le Canzoni della Cupa”, le cui prime registrazioni risalgono ad alcune sessions effettuate nel 2003 a Cabras in Sardegna, e che è giunto alla sua piena realizzazione tra il 2014 ed il 2015, dopo una serie di annunci, ripensamenti e rinvii. Ha preso vita, così, un’opera complessa ed articolata, un affresco sonoro, solo in apparenza dai toni monocromatici della copertina, nel quale Vinicio Capossela ritrae l’Irpinia ed in particolare la sua Calitri, attingendo a piene mani dal patrimonio della cultura orale dell’Italia Meridionale tra canti di lavoro, sonetti, proverbi e storie ascoltate dagli anziani.
Il risultato è un atto d’amore ed allo stesso tempo il bottino di un furto con destrezza, lontano da letture filologiche o etnomusicologiche, nel quale l’autore più che tentare di salvare o recuperare la tradizione cerca di trarne da essa ispirazione, tradendola e permeandola con quegli elementi chiaroscurali e a volte grotteschi che da sempre hanno caratterizzato il suo songwriting. Tutto questo si riflette anche nella scelta di suddividere l’album in due parti ben distinte, tanto dal punto di vista concettuale, quanto da quello musicale, con la prima intitolata “Polvere” nella quale è preponderante la matrice tradizionale con canti di lavoro, canti a dispetto e serenate, e la seconda intitolata “Ombra”, in cui trovano posto per lo più brani originali, ma dall’atmosfera oscura e notturna, popolata di fantasmi e creature mitologiche. Ad affiancare Capossela in questa avventura sono un folto gruppo di strumentisti ed ospiti d’eccezione che impreziosiscono i vari brani come Flaco Jimenez, due violinisti francesi scoperti in un circo Fabrice Martinez e Simone Thierrèe, i Los Lobos al completo con David Hidalgo, Corad Lozano, Louie Perez, Steve Berlin ed Ernique “Bugs” Gonzales, i Giant Sand con Howe Gelb e i Calexico, la Banda della Posta, Antonio Infantino, ed ancora le voci di Giovanna Marini ed Enza Pagliara, i quali contribuiscono ad ampliare l’orizzonte musicale con suggestioni ed echi di sonorità lontane. L’ascolto del primo disco “Polvere” si apre subito in modo spiazzante con “Femmine”, riscrittura del canto di lavoro delle tabacchine salentine “Fimmene Fimmene”, appreso dalla voce di una anziana di Patù, Addolorata Lia, che Capossela trasfigura attraverso un tratto blues, unendo idealmente il Nord America e il Tacco d’Italia. Dal repertorio di Matteo Salvatore arriva l’intensa versione de “Il lamento dei mendicati” (“Fate la carità a questi pezzenti/ che quello che ci date noi prendiamo/quello che date a noi va per i morti/rinfrescate le anime del purgatorio”), mentre la successiva “La Padrona Mia” è una riscrittura, con complici i Los Lobos al completo, de “Lu Padrone Mio” sempre dal repertorio del cantastorie di Apricena, nella quale protagonista è una donna dirompente ed inaccessibile. Ancora un personaggio femminile si staglia dall’ascolto di “Dagarola del Carpato” un tradizionale calitrano in salsa country western, cantato in duetto con Giovanna Marini (Irresistibile il ritornello “Non cantate a Dagarola sennò vi sparo con la pistola”).
Se la ballata narrativa “L’acqua chiara alla fontana” si caratterizza per l’eccellente prova vocale di Capossela, la seguente “Zompa la rondinella” è un gemellaggio sonoro tra Calitri e una città del confine tra Stati Uniti e Messico con il sound mariachi. Si resta tra l’Irpinia e il border tex-mex con “Franceschina la calitrana” con lo zampino della fisarmonica di Flaco Jimenez e dei Calexico, ma le vere perle del disco arrivano prima con i “Sonetti” e poi con il canto a dispetto “Faccia Di Corno” che ritroviamo poco più avanti con l’aggiunta, dopo aver ascoltato l’irriverente “Pettarossa”. Si ritorna al repertorio di Matteo Salvatore con la sequenza aperta da “Nachecici” che riprende in chiave country western “I Maccheroni” (ascoltate l’ironia amara con cui Capossela canta il verso: “chi muore muore, chi campa campa e un piatto di maccheroni con la carne”), la toccante “Lu furastiero” e “Rapatatumpa” ovvero “Proverbi paesani” in cui spicca la partecipazione di Antonio Infantino. Chiudono il primo disco “La lontananza” e “La notte è bella da soli”, due ballate notturne che fungono da viatico perfetto per addentrarci nella Cupa, "contrada dove c'è poca luce" cantata nel secondo disco “Ombre”. Sul nostro cammino incontriamo subito il demone meridiano de “La Bestia del Grano” che appare al mietitore quando il sole è alto a mezzogiorno, ci imbattiamo poi nei mulattieri che commerciano di frodo cantati in “Scorza di mulo”, e ne “Il Pumminale”, il lupo mannaro “nato nella notte di Natale, che con la luna piena si trasforma in lupo” che diventa metafora dell’oscurità dell’animo umano. Capossela ci svela poi i misteri de “Le Creature della Cupa” tra masciare e maranchini, prima di raccontarci i presagi delle comparanze de “la Notte di San Giovanni” in cui le ragazze cercano di scoprire chi sarà il loro sposo. La splendida “L’Angelo Della Luce” nasconde nelle sue trame un canto devozionale che i pellegrini cantavano durante il pellegrinaggio al Monte Sant’Angelo sul Gargano. Il vertice del disco arriva con il racconto della Sartiglia di Oristano di “Componidori”, nella quale nella trama tex-mex si nasconde il racconto del sovvertimento dell’ordine tra divino ed umano. Il canto d’amore “Il bene mio” ispirata a “Lu bene mio” di Matteo Salvatore ci conduce ai sonetti di “Maddalena la castellana” nella quale si staglia la terribile figura di una mammana che una volta chiamata “mai indietro fa ritornare”.
La travolgente festa de “Lo sposalizio di Maloservizio” ci conduce verso il finale con la sofferta “Il lutto della sposa” ed il racconto degli emigranti de “Il treno” che culmina nella ghost track finale in cui ritroviamo la Banda della Posta. Per meglio orientarci in questa intricata matassa di personaggi, storie e racconti, Capossela ha inserito nella confezione cartonata del disco ben due booklet, il primo con tutti i testi, mentre il secondo con i suoi commenti canzone per canzone, e gli indici dei luoghi, delle creature citate e dei personaggi. “Canzoni della Cupa” è esattamente quello che potevamo aspettarci da un cantautore e ricercatore non convenzionale come Vinicio Capossela, un disco spiazzante e visionario, ma anche appassionato ed appassionante nella sua epica affabulatrice.
Salvatore Esposito
Foto 1 e 2 di Valerio Spada
Foto 3 di Luca Zizioli
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