Musiche popolari nello spoletino e nella Valnerina

Questo scritto si propone di presentare le musiche di tradizione orale dello spoletino e della Valnerina attraverso una duplice prospettiva. Da un lato ricostruendo la cronologia delle ricerche che hanno interessato i repertori etnomusicali dell'area e, dall'altro, avanzando alcune osservazioni teorico-metodologiche sul fenomeno della "riproposta". 
Un ideale punto di raccordo tra le due prospettive può essere Canto e ricanto e lu mi' amor nun zente, il disco de L'Altra Spoleto, un gruppo costituito da cantori e ricercatori della zona, pubblicato nel 1975 dalla Fonit Cetra a cura di Otello Profazio .
Il disco è interamente costituito da brani del repertorio di tradizione orale della zona, raccolti e riadattati dai membri del gruppo e riproposti, secondo una diffusa standardizzazione "folk", con voci e chitarra.
Come dice Tullio Seppilli nel saggio di presentazione e di analisi critica del progetto e del disco, "le canzoni qui 'riproposte' rappresentano abbastanza bene la varietà tipologica del patrimonio musicale contadino di questa zona, ove si consideri, tuttavia, che non vengono dati documenti delle forme più arcaiche (i canti 'a vatocco' per la mietitura, ad esempio) e delle 'passioni'".

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Si possono individuare tre fasi nella storia degli studi sulle musiche di tradizione orale delle aree in esame. La prima risale alla metà dell’800 ed è caratterizzata dall’interesse di ricercatori e intellettuali che si avvicinano ai repertori popolari con uno spirito romantico e positivista, il cui scopo primo è di rilevare gli elementi costitutivi della poesia popolare, attraverso la raccolta dei testi dei canti di tradizione orale. La seconda fase è rappresentata dalle ricerche scientifiche intraprese nel dopoguerra da vari studiosi che coprono buona parte delle regioni italiane. La terza e ultima fase si sviluppa negli anni Sessanta e Settanta e si protrae fino ai nostri giorni. È principalmente caratterizzata dal fenomeno del revival, che si configura come espressione di un’attività di ricerca finalizzata non solo, o non tanto, al recupero dei repertori di tradizione orale, ma soprattutto a una loro riproposta in chiave moderna.

Le ricerche ottocentesche
La prima fase di ricerca sulle musiche popolari delle aree dello spoletino e della Valnerina si è sviluppata nella seconda metà dell'Ottocento, in una temperie romantica prima e positivistica poi, che ha spinto molti intellettuali e studiosi a documentare e pubblicare le produzioni "poetiche" delle classi popolari e subalterne . Sebbene abbiano un indubbio valore storico, i documenti raccolti in questa fase, quasi esclusivamente riferiti ai testi verbali, non solo non sono inquadrati in una riflessione etnomusicologica, ma sono praticamente privi di note antropologiche ed etnografiche che permetterebbero di connettere i canti e le musiche di tradizione orale al contesto socio-culturale dell'epoca .
Nel 1841 nasce a Spoleto la rivista La Rondinella. Strenna umbra, diretta da Gioacchino Pompili, medico e intellettuale di Giano dell’Umbria. La moda delle strenne letterarie, importata dall’Inghilterra e dalla Francia, si era andata diffondendo anche in Italia nel 1832 con l’uscita del Non ti scordar di me dei fratelli Vallardi . Nel 1844 la strenna diretta da Pompili ospita un articolo di Nazareno Sebastiani, dal titolo Canti popolari umbri con prosette varie. Dalla citazione in esergo «… altri da altre parti d’Italia raccorranno simili tesori (i canti popolari), né li ratterrà falso pudore della stranezza del linguaggio, e della semplicità dell’immagine, che questa e quella sono altresì documento di storia prezioso» possiamo riscontrare che si richiama direttamente all’opera di Niccolò Tommaseo Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci del 1841. L’idea romantica di popolo come «poeta e ispiratore di poeti» (p. 5) rappresenta il filo che connetteva tutte queste raccolte di canti popolari della prima metà dell’Ottocento. In questo quadro, come sopra accennato, i testi assumevano un’importanza di primo piano, nella misura in cui tra gli studiosi era diffusa l’idea che non solo rappresentassero il carattere generale (e “genuino”) dello strato popolare e contadino della società di allora, ma che soprattutto potessero rappresentare una nuova componente “spontanea” attraverso cui integrare il panorama della letteratura colta del tempo . Questo presupposto è evidente nel seguente passo dello scritto di Sebastiani: «[i canti popolari] ringiovaniscono la letteratura col darle immagini fiorenti colte dalla parete viva e cara a tutti» (p. 92).
Nel 1845 lo stesso Gioacchino Pompili pubblica nella sua strenna Canti popolari umbri, una raccolta di testi documentati, come egli stesso specifica nell’iniziale dedica al Tommaseo, «nelle colline dell’Umbria - i più entro la periferia del territorio spoletino». Dall’analisi dei cinquantanove testi verbali trascritti nelle raccolte di Pompili e Sebastiani, emerge che si tratta, nella quasi totalità, di canti lirico-monostrofici, in alcuni casi, soprattutto per quanto riguarda i distici di endecasillabi, collegati in serie. Molti sono gli stornelli, spesso presenti nella forma del “fiore”, cioè di una terzina composta da un quinario e due endecasillabi, con il primo e il terzo verso rimanti e il secondo con consonanza atona. 
In pochi casi, dai documenti riportati da questi autori, è possibile risalire alla tipologia dei canti. Ad esempio dal testo riportato da Pompili e contrassegnato con il numero 30 (p. 305), che recita «me ne voglio ji tanto lontano che più nova da me non s’ha d’avè», possiamo dedurre che si tratta di un canto alla fargiatora, in quanto il modulo verbale è tipico di questo repertorio (cfr. Palombini 2005, 23-24). O ancora, dal testo riportato da Pompili al numero 7 (p. 299), lo stereotipo verbale «tutta la notte abbio camminato, a lume d’una stella so’ venuto; davanti a casa tua me so’ trovato: oh! Dio che paradiso ch’o veduto» è lo stesso che ritroviamo nei canti rituali del Maggio del nord-est dell’Umbria. Possiamo ipotizzare che questi due repertori ormai spariti nella zona dello spoletino, verso la metà dell’Ottocento, vi erano invece attestati.
Se si escludono pochi esempi come questi, non ci è possibile sapere come tali canti venissero utilizzati, a quali moduli musicali fossero associati e quali fossero le occasioni reali di esecuzione: potevano essere canti di lavoro, canti rituali, oppure cantati su altre arie. Alcuni probabilmente erano eseguiti sul lavoro, come canti a vatoccu, altri nelle serenate, oppure in occasioni rituali, quali il Maggio. Mancano inoltre i riferimenti agli esecutori e alle località di rilevamento. Infine, riguardo ai testi, possiamo dire che questi non erano specifici di una località, ma diffusi in un’area molto più ampia che poteva comprendere anche tutta l’Italia centrale. Difatti, la circolazione di questi moduli verbali, che non possono essere considerati come esclusivamente umbri, era favorita dagli spostamenti delle donne in seguito al matrimonio, dei braccianti o dei lavoratori stagionali . 
A convalidare questo processo si possono citare come esempio i versi riportati da Sebastiani alle pagine 99 e 100: 

«Passo passo e la finestra è chiusa
La dama mia non la vedo affacciare
S’affaccia la sua madre in cortesia,
ma quel che cerchi tu l’ho data via:
s’affaccia la sua madre addolorata
ma quel che cerchi tu l’ho sotterrata
se tu ‘n ci credi va a Santa Maria
da quella porta alla prima ‘rivata,
alza una pietra di quel marmo fino
la troverai di vermini murata.
Poneti a mente ch’era tanto bella,
era di carne è diventata terra:
poneti a mente ch’ella era sfigurata,
era di carne e terra è diventata»

Come sottolinea Albero Maria Cirese nella presentazione di N. Sebastiani e G. Pompili, Canti popolari umbri, Ediclio, Foligno, 1978 (ristampa anastatica delle edizioni degli scritti dei due autori), questa è la prima attestazione a stampa del celebre canto Fenesta ca lucive e mo’ non luce e dell’altrettanto celebre storia della Baronessa di Carini: «mi induco a credere che la rilevazione sul campo di Passo (ri-passo) e la finestra è chiusa, effettuata da Sebastiani, preceda tutte le altre effettuate da raccoglitori di poesia popolare, per il motivo che segue. Dalle note degli studiosi ottocenteschi che si sono occupati dell’argomento (Casetti e Imbriani nel 1871-1872 alle pp. 253 sgg. del vol. II dei loro Canti popolari delle province meridionali; Salvatore e Salomone-Marino nei suoi studi del ’70 e del ’73 sulla Baronessa di Carini; Ermolao Rubbieri nel 1877, alle pp. 337 sgg. della sua Storia della poesia popolare; Alessandro D’Ancona, già nell’edizione del 1878, poi alle pp. 232 sgg. della seconda edizione del suo La poesia popolare italiana; più specificamente in Umbria, poi, Giuseppe Mazzatinti nel 1883, nei suoi Canti popolari umbri, ecc.), dalle note di tutti questi studiosi, dunque, risulta che le varianti di più antica pubblicazione prese in considerazione sono quella umbra e quella picena che Marcoaldi inserì nel 1855 alle pp. 58 e 114 dei suoi Canti popolari inediti; ma la lezione umbra recata da Marcoaldi non è altro che la ristampa del testo già pubblicata da Sebastiani nel ‘44». A proposito di questo testo, Sebastiani afferma: «fatto accaduto alla Bagnaia sei miglia da Perugia. Una vecchietta rubizza dopo avermi detto il canto, e raccontato il fatto pianse: ché quella povera ciuca (come diss’ella) era la santolina della mia comare, ed io le volevo bene come ad una figlia» (nota 2, p 111). 
Accade spesso, nella ricerca sul campo, che alcune storie molto diffuse siano sovrapposte, dagli informatori, a fatti realmente accaduti, di cui sono personalmente a conoscenza o di cui portano testimonianza diretta. Crediamo, per questo, che la dichiarazione riportata da Sebastiani possa non essere del tutto veritiera. Comunque, oltre alla primogenitura del testo a stampa, ciò che è importante sottolineare è l’ampia circolazione di testi come questi in un’area molto vasta che dalla Sicilia arriva fino alle Marche e all’Umbria.
Molto più localizzati erano invece i moduli musicali, i quali caratterizzavano ognuna delle occasioni di canto a cui si è sopra accennato e ne condizionavano anche la struttura metrica, che poteva in qualche caso venire del tutto stravolta da ripetizioni di emistichi o interi versi e dall’inserimento di sillabe eufoniche (ad esempio -ne, -la, -e) o di altri termini, anche incongrui.

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