Il Buena Vista Social Club non ha bisogno di essere presentato. Tutti i lettori di queste pagine ne conoscono la genesi, lo sviluppo, i riflessi che ha avuto sull’immaginario collettivo internazionale. I riflessi che ha irradiato il gruppo, che si è presentato al mondo prima con il disco e, poco dopo, con il film omonimi (ispessendo la proposta e la sua rappresentazione con Ry Cooder e Wim Wenders), in un frangente storico caratterizzato dai forti cambiamenti dell’industria e del mercato discografico, rappresentano probabilmente l’unico elemento su cui vale la pena indugiare. Perché, nel loro insieme, possono essere letti come una novità, o addirittura come una cesura in un flusso di produzione internazionale che, con “Buena Vista Social Club”, è stato investito da un fenomeno sicuramente trasversale e di grande portata commerciale. A circa venti anni di distanza, da quella fucina straordinaria – composta dai veterani della musica cubana, i quali, nella maggior parte dei casi, sono divenuti star mondiali negli ultimi anni delle loro vite – è riemersa una manciata di brani inediti, che sono stati raccolti in “Lost and found”, il disco uscito poche settimane fa per la World Circuit e ampiamente anticipato da teaser, interviste e dichiarazioni. Innanzitutto diciamo che i quattordici brani in scaletta provengono direttamente da quel momento di fioritura straordinaria: siamo alla metà degli anni Novanta e Ry Cooder arriva a Cuba con Nick Gold della Real World e, in pochi giorni, cuce insieme le musiche suonate da vecchi astri dimenticati della scena locale (le registrazioni durano meno di una settimana). Da quelle session esce un disco complesso ed estremamente piacevole. Complesso perché non è pop. Anzi è suonato (e si sente) in modo profondo, articolato, diverso (non è world music cubana). Non è imbellito ma scarno nelle esecuzioni. Le mani sono vecchie, le dita sono pesanti, battono forte sugli strumenti ma non sbagliano un colpo. Al contrario, danno al flusso musicale un andamento irriducibilmente incoerente ma quadrato, e che diviene subito la caratteristica più distintiva del sound del Buena Vista. Le voci sono basse e roche, appena tremanti ma nette, decise. Tutti questi elementi tornano (come tornano le voci e i suoni delle star del Club ormai scomparse) a farsi sentire. E a farci rivivere lo splendore di quella scoperta. Come detto molti dei brani sono riemersi dalle session di quei giorni. Altri sono stati composti nel periodo di massima fortuna dell’ensemble. Se escludiamo “Bruca Manigua”, cantato da Ibrahim Ferrer (scomparso nel 2005) e proposto in versione live, tutti gli altri brani sono stati registrati allo Egrem Studio dell’Avana. E suscitano le stesse sensazioni – attraverso un suono, forse, più rotondo e più pieno, nel quale si riconosce un lavoro più recente sul piano della produzione – di straniamento e familiarità allo stesso tempo. Ancora una volta, ciò che colpisce è il fatto che, in presenza di questi artisti, la dimensione temporale assume un ruolo del tutto secondario. D’altronde fu così anche nel ’96 (l’anno di produzione del disco “Buena Vista Social Club”), quando ciò che realmente colpì il pubblico fu la percezione di una corrispondenza insolita tra i timbri delle voci e le melodie, tra i suoni dei cordofoni (uno fra tutti il tres di Compay Segundo) e l’andamento flessuoso delle percussioni. “Lost and found” ci propone, per l’ultima volta, gli stessi elementi. Nel quadro dei quali emergono le rinnovate divergenze determinate dalla conformazione dell’ensemble. Di cui rimangono Omara Portuondo ed Eliades Ochoa (impegnati fino al prossimo novembre nell’Adios Tour, la tournee mondiale che toccherà l’Italia a luglio), magicamente accompagnati da Rubén Gonzàles (scomparso nel 2003) in “Como siento yo”, “Bodas de oro” e “Rubens sings!”, Compay Segundo (scomparso nel 2003) in “Macusa”, Orlando López (scomparso nel 2009) in “Black chicken 37” e il già citato Ibrahim Ferrer (“Mami me gusto” e “Como fue”).
Daniele Cestellini
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