Ornella Vanoni, costruttrice di ponti. Quelli giusti

Un ulteriore salto di qualità scatta quando, fra il ‘74 e il ‘75, arriva a cantare due autori eccelsi, Chico Buarque de Hollanda e Vinicius de Moraes, questi grandi poeti e cantautori che scelsero entrambi di vivere e lavorare per qualche tempo in Italia per sfuggire alla dittatura militare instauratasi in Brasile. Più avanti, negli anni ’90, prima con “Perduto”, tenace determinazione a dimenticare un amore finito, a volerlo proprio perdere (è una riscrittura dal repertorio di Marisa Monte), poi con l’album “Argilla”, Ornella affronterà pure il filone più atavico e tribale, quello appunto di Marisa Monte o di Carlinhos Brown, dove la aiuta anche la tromba flemmatica e struggente di Paolo Fresu, che coi suoi lampi metropolitani si presta così bene a illuminare la negritudine più arcaica dei ritmi afrobrasiliani. Sono tutte canzoni che inseguono l’amore in ogni viaggio e in ogni capriccio, in ogni oggetto vicino e in ogni luna lontana, in un saliscendi di partenze e ritorni, di desideri e preghiere, confondendo il reale e l’immaginario. Ma la Vanoni conserva sempre una continuità impeccabile d’alta classe nel non eccedere con una insistita partecipazione sentimentale, bensì con un disincanto quasi severo, fino a interpretare una bellissima canzone erotica di Roberto Carlos come “Naufragio” lasciando il testo al maschile come nell’originale. Ma – sempre in “Argilla” – anche cantando una vecchia canzone napoletana anni ’50 di Tito Manlio, “‘Nu quarto ‘e luna”, la Vanoni immette (del resto accade spesso con il repertorio napoletano classico) una vena brasiliana, malinconicamente accompagnata dal solo contrabbasso, tanto da farla sembrare una canzone uscita all’improvviso dalla
penna di Vinicius de Moraes. Sull’affinità Napoli-Rio Ornella mi fece notare che “come la musica brasiliana va dal popolare, molto popolare, a canzoni sofisticatissime, jazzistiche, difficili, allo stesso modo noi avremmo la canzone napoletana, ma all’estero la portiamo al massimo nelle pizzerie e finisce lì”. Veniamo però ai due “grandi”, Chico e Vinicius. Di Chico Buarque la Vanoni ha cantato negli anni capolavori come “Tatuaggio”, “Occhi negli occhi”, “Tre uomini”, stupefacente quest’ultima per come un uomo sia riuscito a parlare direttamente con la bocca di una donna, cioè a calarsi perfettamente nella protagonista femminile della canzone, a guardare dall’esterno la sfilata dei “tre uomini” che passano nella sua vita ma, come si incarnasse in lei, arrivando a capire e a riferire la natura femminile nello scegliere e accogliere, dei tre, l’uomo giusto, l’ultimo, quello che non chiede e non offre, c’è e basta. E poi “Costruzione”, un pezzo sconvolgente, che poi fece anche Jannacci. La rivista “Rolling Stone” l’ha proclamata la più grande canzone brasiliana di tutti i tempi. La canzone parla di un infortunio sul lavoro, la caduta da un’impalcatura di un muratore che muore nell’indifferenza generale. Ma è fenomenale la struttura del brano: una sequela ripetitiva, ossessiva, di versi che finiscono tutti in sdrucciole e poi si mescolano insensatamente facendo slittare continuamente la logica, come a conferire a quella ripetitiva monotona giornata del muratore un tragico sbocco folle, delirante, come appunto è nella morte. Riguardo a Vinicius de Moraes, Ornella comincia con “L’apprendista poeta”, ma direttamente con lui registra nel
1976 il memorabile album “La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria”, uno dei più bei dischi mai realizzati nel nostro Paese, che subito non entusiasmò né pubblico né critica ma che è entrato nella storia. Il disco, al quale collabora Toquinho non solo come chitarrista ma anche come compositore, segna l’inizio di un sodalizio esemplare con l’indimenticabile Sergio Bardotti, che traduce magistralmente i testi e diventa il suo produttore artistico. Un’alleanza incantata che, a mio parere, ha fruttato i dischi più belli della carriera di Ornella, ovvero, tra il 1980 e l’83, la trilogia “Ricetta di donna”, “Duemilatrecentouno parole” (esattamente il numero delle parole scritte per questo album) e “Uomini”. Davvero una grande impennata. A parte la bellezza delle singole canzoni, molte delle quali firmate nei testi - su stimolo di Bardotti - anche dalla stessa Vanoni, questi lp non sono semplici raccolte, ma album molto omogenei, sia in sé sia tra di loro, che rispondono a un progetto preciso e meditato. Quando, a metà anni ’90, trascorsi tre mesi a contatto con Ornella per raccogliere, su sua richiesta, la sua biografia (è tutta registrata e scritta ma – incredibile a dirsi – non l’abbiamo mai pubblicata, se non in parte), tra le mille cose lei mi confidò che “La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria” era l’unico suo disco che si azzardava a riascoltare. Così mi disse: “Io non mi ascolto mai. Ho il terrore di farlo perché poi non mi piaccio, ho sempre la sensazione che potevo fare di più. Quando entro in un ristorante e tutti ammiccano e mettono subito un mio disco, io chiedo sempre di toglierlo se vogliono che riesca a digerire senza vomitare. Se allungo l’orecchio è rarissimo che mi riconosca come vorrei riconoscermi. L’unico disco che posso
ascoltare tranquillamente è quello che feci con Vinicius de Moraes e Toquinho. Quella volta sono entrata in un altro mondo con un rispetto, un filo di voce, una grazia, per cui non ero nemmeno me stessa ma la proiezione di qualcosa d’altro”
. E poi ancora: “L’album che ho fatto con loro è stata una cosa che mi ha portato via l’anima. Sono rimasta così triste quando sono partiti tutti. E adesso cosa farò? pensavo. Quell’anno loro erano qui apposta per questo lavoro, per cui eravamo sempre insieme. Era come stare dentro una bolla. Toquinho poi mi guardava appassionato suonando la chitarra... Ho preso una cotta tremenda per lui, anche troppo; e pure lui per me. Grandi disperazioni, ma tutto è finito nel nulla. È partito con la sua valigia. Quando se ne sono andati ero sfinita, svuotata. Un’esperienza che non si ripeterà mai più: troppo bella. Cosa pagherei per poter ancora vivere un mese in una di queste bolle con un gruppo così, magari di jazzisti. In effetti un domani potrei scegliere la strada del jazz, ma non in maniera noiosa: con questo jazz c’è sempre il rischio di essere un po’ freddini. Io magari porterei un po’ di calore”. Ornella mi tratteggiò anche un confronto tra Vinicius e Chico: “I due sono diversi. Vinicius ha un modo più diretto di arrivare alle cose. Chico è molto più intellettuale. Però una volta con lui ci siamo dati un appuntamento per programmare qualcosa
insieme, ma poi abbiamo bevuto troppo, io sono andata via di bolina e non ci siamo detti niente. Io non sono una bevitrice, ma in questi casi divento vorace e con tre bicchieri non capisco più cosa mi succede. Vinicius invece è la versione brasiliana di Hugo Pratt. Sono uomini molto simili, che hanno vissuto tante vite, e le hanno cantate o scritte o disegnate. Anche lui amava le donne più di ogni altra cosa al mondo. Era un uomo di enorme fascino. È sempre stato vecchio. Toquinho racconta di averlo conosciuto già con i capelli bianchi”
. “La voglia la pazzia l’incoscienza l’allegria” si qualifica subito presentandosi esemplarmente fin dalla prima traccia, che è “Senza paura”: un testo deliziosamente musicato da Toquinho, assai rappresentativo della poetica di Vinicius, il cui filo costante è la compresenza di felicità e dolore, separati da un confine labile, cantati con naturalezza e persino humour, in toni colloquiali e confidenziali, privi di ogni retorica. Qui, per esempio, la paura che, col sorriso sulle labbra, Vinicius invita a non avere nell’affrontare la vita e tutti i suoi accadimenti minacciosi, grandi o piccoli che siano, è la stessa che non è il caso di avere nemmeno nell’affrontare… la morte. La collana di gioielli – per lo più firmati dalla triade Bardotti-Vinicius-Toquinho – si sviluppa poi con “La rosa spogliata”, “Samba della rosa”, “Samba in preludio”, questo con la musica di Baden Powell (Bardotti ne parlò come di “una composizione fantastica, praticamente due canzoni in una, un canto e un controcanto, una forma estremamente colta di canzone”). Poi “La voglia la pazzia”, “Semaforo rosso” (e qui l’autore originale è il
solo Paulinho da Viola), i due omogenei formidabili parlati di Vinicius su “Assenza” e “L’assente”, “Io so che ti amerò”, “Un altro addio”, “Accendi una luna nel cielo”, e per finire il “Samba per Vinicius” a lui dedicato da Chico Buarque sempre su musica di Toquinho, nella tradizione di saravah che costellano la storia di questi brasiliani, benedizioni e saluti reciproci che con nomi e cognomi si scambiano in musica. A questo, per esempio, Vinicius e Toquinho fecero seguire un “Samba para Endrigo”, Bardotti con Endrigo e Baden Powell un Ciao poeta dedicato ancora a Vinicius, e, nel nostro piccolo, un “Samba per Bardóci” dedicatogli dal Club Tenco. Se della collana mi chiedeste qual è la perla che rifulge sopra ogni altra, lasciatemi dire che risponderei “Io so che t’amerò”. E qui il musicista che si eleva su tutti è Tom Jobim, in una delle primissime composizioni create con Vinicius: disarmante dichiarazione d’amore che sfida il tempo, l’assenza, la lontananza, sempre e comunque. Nel disco Bardotti l’ha concepita come un magnifico duetto tra Vinicius e Ornella, tra maschio e femmina, in una dialettica mozzafiato per fatalistica definitiva tenerezza. Il cerchio si chiude se si pensa che ne esiste una recente intensa versione, su YouTube, di quella stessa Nathalia Sales che canta Gino Paoli. Adesso Ornella Vanoni non c’è più, ma la musica non è finita. Resta per sempre la sua incontenibile presenza di energia animale e di fragilità femminile, pur nell’affermazione costante di una femminilità indipendente, libera, attiva; dosaggio imponderabile di incertezza interrogativa e di allusività vaga, con gli improvvisi guizzi ironici e provocatori della sua natura selvaggia, della sua pazzerella impreve-dibilità, della sua superiore trasgressività. Come se nella gran donna della borghesia milanese, nel-l'intellettuale elegante cresciuta tra collegi svizzeri e inglesi, spuntasse pur sempre, di continuo, la com-pagna di scuola o la ragazza della porta accanto. 


Enrico de Angelis

Foto 1 di Alberto Benciolini: Enrico de Angelis, Amilcare Rambaldi, Ornella Vanoni, Verona, Teatro Romano 30.08.1989
Foto 2 di Tiziano Malagutti: Sergio Bardotti, Ornella Vanoni, Enrico de Angelis, Verona, Teatro Nuovo, 07.03.1988 

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