Quando lo scorso settembre nel simposio “Ways of listening” di Catania discutevo del tema “Scrivere l’ascolto” non ero a conoscenza di “Suonetti. L’essere che ascolta: brevi racconti del sonoro”. Leggendo poi il libro ho capito che gran parte di tutto quello che volevo dire era già lì, ovvero scrivere in prosa o in poesia l’esperienza dell’ascolto, convertendo il paradigma visivo in quello acustico-sonoro. A dircelo meglio è il primo brano intitolato proprio “Suonetto”: ‘Che cos’è un suonetto? Non è un rombo di cannone, non è clangore di spade né di elmi infranti. Non è fracasso, non è baccano, né frastuono, putiferio o schiamazzo… è questo: una voce che raspa, leggendovi parole, nel numero massimo di centosettant’otto, per dirvi del sonoro. Eh già, perché in fondo le parole per descrivere il suono non sono molte, ma permettono di imbastire numerose storie. Questa nuova forma letteraria sperimentata da Mechi Cena e Francesco Michi (entrambi allievi di Alberto Mayr, e scusate se è poco) sono nati da una ragione contingente in seno alla Rete Due della Radio Televisione della Svizzera italiana. L’emittente stava utilizzando un format radiofonico, fatto da una lettura notturna di un testo della durata di pochi minuti, il tempo di un sonetto, appunto. Dal 2011 al 2012, i 180 “suonetti” sono stati letti a voce alta, e, dall'altra parte, ascoltati abolendo così ogni conflittualità tra oralità e scrittura e ricreando un’oralità secondaria, direbbe Walter Ong. Vista la specifica competenza dei due autori nel campo della musica elettronica e del sound design, oltre che filosofica e letteraria, l’aggiunta della vocale “u” alla parola sonetto, intesa come storica forma metrica, gli ha permesso di raccontare in prosa il suono, senza eludere però la poesia. In ognuno di essi vi è formalmente il narrare quotidiano di un paesaggio sonoro in situazione, che sfocia poi in una riflessione sulle molteplicità del medium sonoro. I due autori fiorentini hanno scritto a quattro mani e in sintonia i singoli brani, senza peraltro attribuirsi la paternità specifica di ognuno di essi ma con la convinzione comune che, se Galileo ha potuto cambiare l’ordine dell’universo osservando le maree, un suono può cambiare una vita umana, come diceva il loro maestro Mayr e si segue così un affascinante percorso tra geofonie, biofonie, antropofonie. Attenzione però a non cadere nella trappola della facilità di lettura poiché in ognuno di essi vi è un substrato teorico che rimanda a quanto la letteratura, ma anche la grammatica del paesaggio sonoro, da Murray Schafer in poi, ha prodotto nel finora nel mondo. Vi sottostanno infatti concetti schaferiani come paesaggio sonoro Hi-fi e low-fi, muro sonoro, schizofonia impronta, segnale e tonica. Insomma sembra di poter applicare a questi brevi ma intensi componimenti i “valori” letterari che Italo Calvino indica nelle “Lezioni americane”. Non è un caso se anche egli è artisticamente toscano. Insomma i due autori hanno creato, non so se più o meno consapevolmente, una nuova forma di scrittura dell’udibile, il che può essere anche uno strumento didattico da praticare tutti e tutti i giorni.
Scrivere l’ascolto è un’esperienza molto gratificante e formativa che ognuno di noi può esperire e soprattutto utile in ambito scolastico. La scrittura dell'ascolto del paesaggio sonoro si può porre dunque come un’attività didattica privilegiata, che utilizzi la memoria procedurale – in questo caso acustica- per un apprendimento in situazione, cognitivo, creativo, critico e inclusivo. Scrivere l'ascolto sarà un'occasione per fare diventare un territorio un ambiente di apprendimento (place-based education) mediante un apprendimento costruttivo, autoregolato, situato e collaborativo. Nella consueta paura difronte al foglio bianco, l’ascolto può essere uno stimolo alla scrittura creativa del mondo, in questo caso sonoro ma che diventa metaforicamente il mondo tout court. Molta rilevanza viene data anche al silenzio, inteso non all’ombra del suono ma come parametro autonomo del sentire e sentirsi. La capacità di ascoltare infatti è inversamente proporzionale al rumore, al chiacchiericcio interiore. Bisogna fare in modo che l’ascolto di un suono non sia ciò che ti capita quando sei occupato a fare altro e che ogni luogo può essere acusticamente interessante, dipende dal modo di ascoltare, “non dimenticando mai che la nostra vita comincia con un vagito e che saremo ciò che ascolteremo nel suo percorso”.
Insomma i due autori ci offrono un esempio di come il mondo si può interpretare come il luogo dell’“acustinario”, come lo definisce Roberto Barbanti, anche autore dell’utile postfazione, oltre che dell’immaginario e che può tendere verso un “bel sentire” oltre che un bel vedere. D’altra parte la vista e l’udito, che da sempre sono i sensi più discussi filosoficamente, operano in sussistenza e se il primo dà la percezione immediata di una manifestazione, il secondo la conferma. L’obiettivo intrinseco in ogni racconto è il ripensare i luoghi e gli spazi per renderli acusticamente migliori e socialmente più condivisibili. Infine, si tratta di un libro che fornisce risposte e pone delle domande ai veloci tempi moderni con una inversione di paradigma verso una dimensione spaziale e temporale degli eventi sonori. La sua la lettura può avvenire in poche fermate di metro per poi concentrarsi ad ascoltare durante il resto del percorso a piedi, oppure leggere qualcuno dei “suonetti” durante le tappe di fermata in un “Sound walk”. Si può scorrere l’indice e scegliere lasciandosi attrarre dagli stimolanti titoli e poi magari scoprire cosa hanno in comune Drupi (si, il cantante) e il gorgoglio del caffè al mattino (p.126) o Aristotele e la carezza (p.36).
Francesco Stumpo
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