Kreiz Breizh Akademi – #10. Mémé K7 (Musiques Têtues, 2025)

Senza dimenticare Albert Bolorè, nato nel 1924 a Saint-Nicolas du Pélem (Cantone di Saint-Nicolas-du-Pélem, ex divisione amministrativa dell’arrondissement di Guingamp, oggi soppresso) in gran parte grazie al quale il compianto Yann-Fañch Kemener deciderà di intraprendere la professione di cantante. Molti artisti bretoni contemporanei, Alan Stivell in testa, hanno fatto le loro fortune partendo da queste basi. Il kan-ha-diskan ha sempre rappresentato la storia dei tempi, dalla visione conservatrice del repertorio radicale antico fino alle moderne rivendicazioni sociali, l’idea del contro-canto è venuta a trasformarsi nel corso dei secoli, in una scelta di contro-campo. Questo energico e meticcio disco “Mémé K7” è stato registrato dal vivo (ma gli applausi sono udibili solo episodicamente: tra il primo e il secondo brano e nel finale del decimo) a metà maggio di quest'anno all'Ippodromo di Lorient e nel Morbihan, allo Spazio Koed Noz di Ploërdut "("plou" sta per "parrocchia" e Ildut è un santo britanno vissuto a cavallo tra il V e VI secolo). I dieci musicisti-studenti coinvolti, ancora sconosciuti, sono in ordine alfabetico: Iwan Audran: batteria e percussioni, Raphaël Dubert: lavta, chitarra elettrica, Léo Fuster: violino, Maiana Lavielle: violoncello, voce, Eliaz Le Bot: sax alto, bombarda, biniou, Mathias Le Gall: contrabbasso, Klervi Piel: controfagotto, bombarda, Elise Rens: violino alto a cinque corde, Anna Suignard-Bouliou: voce, Sterenn Toscer: voce, violino. Certo, le atmosfere sono molto cambiate da quando a Stivell bastava cambiare in “rivendicativi” i connotati di una comune laridé marinara bigouden del Quiberon (“Tri martolod yaouank”) per popolarizzarla e trasformare il suo attacco “Tre giovani marinai tra-la-la la di-ga-tra, tre giovani marinai partono in viaggio” in un successo planetario. La tradizione vivente di questa regione d’Europa lascia stupefatti per longevità, duttilità e qualità, è in continua trasformazione generazionale, musica e canti, un tempo così vilipesi dalla Francia parigina, sono diventati, in qualche decennio, parte integrante dei meccanismi funzionali e produttivi. La rotazione estetica dei continenti e le affascinanti maternità oceaniche offrono detonatore ai suoni bretoni attraverso formicolii e folgorazioni di memoria collettiva. Grazie alla tenacia e all’agitarsi vigoroso di spiriti perennemente aperti come quello di Erik Marchand si sono animate le menti creative a venire. Il brano d’apertura incorpora accenni balcanici sotto il titolo “Ar gwall deodoù”: è un plinn che raggruppa “An tad moualc’h kozh” (Il vecchio merlo), già reso celebre dalle tre Sorelle Goadec e “Ar gwall deodoù” (Le male lingue) in un insieme di kan-a-boz. Il testo afferma come sarebbe preferibile avere a che fare con cani rabbiosi o pestilenze piuttosto di incappare in chi parla seminando angosce pure tra padre e figlio, fratello e sorella, marito e moglie. A seguire “Me monet un deiz d’ar c’hoad” (Un giorno andai nel bosco), canto di una fanciulla alla ricerca del tempo perduto.  La strofa finale dell’originale testo di Marie-Louise Le Pallec viene riscritto per l’occasione da Véronique Bourjot nel tentativo di attualizzarlo ("...Mai più, mai più tornerò nel bosco”). Un melodioso sassofono introduce “Teir flac'h yaouank” (Tre giovanette), già presente nella precedente formazione dell’anno 2019 (Hed, vol. 7). Si tratta di un tradizionale che narra di tre sorelle che si incamminano verso una passeggiata al porto di Lorient, scorgono un’imbarcazione militare sulla quale la più giovane decide di avventurarsi ma inizia subito a piangere comprendendo che sarebbe stata violentata. Su una ritmica araba (e scampato il pericolo) la sorella maggiore conclude che è “meglio restare unite che farsi maltrattare”. Un marinaio in differenti ruoli, è invece il protagonista delle due parti in francese di “Siamo tutti rossi rossi” dove un intermezzo di voci tipiche delle cantanti tradizionali di scuola ungherese, le separa. La seconda più lunga e musicalmente corposa va sotto il titolo di “Holl ‘sambles ‘eneb d’ar
faskourien” (Tutti contro i fascisti). “An dragon yaouank” (Il giovane dragone) fu precedentemente interpretato da Annie Ebrel e Nolùen Le Buhé in forma di spartano kan ha diskan (in “Tre ho ti ha ma hini”, 1996) ma in questa occasione le sonorità aggiungono un’ambientazione quasi cinematografica che incorpora una suggestiva scena recitativo-descrittiva in francese. Questa canzone d’amore bilingue narra dei sospiri d’amore di una ragazza: “Se avessi avuto un po’ di tempo, un po’ d’inchiostro, un po’ di carta vi avrei composto una canzone adatta a proposito di due giovani dal cuore spezzato…Madeleine, figlia mia, vi trovo molto cambiata, avete il viso bianco come il sapone…non ho bisogno di medicine ma di un ragazzo delicato, di un certo dragone partito per l’Italia…figlia mia, sono sorpresa di vedere che siete così sconvolta, non avete che quindici anni, non ancora sedici…” Il brano seguente “Son ar mezvier” (La canzone dell’ubriaco) su un ostinato iniziale di contrabbasso, esorta le giovani a non maritarsi mai con un ubriacone che sprecherà inevitabilmente qualsiasi fortuna gli capiti fra le mani. Il gruppo Skolvan propose una versione strumentale di quest’aria di marcia anche la sera del 26 giugno 2003 al Teatro della Rocca Viscontea di Ostiano (Cremona) (concerto registrato nel doppio cd “Live in Italia”). La corta “Ur ganaouenn da dremen ma anken” (Una canzone per farmi passare l’angoscia) viene interpretata a cappella in forma tradizionale dalle due voci femminili e proviene dal repertorio di Marie Goavec (l’originale è ascoltabile nel doppio cd: Various - Pays Montagne, Dastum, 2017): “Vorrei dal fondo del cuore cantare una canzone per dimenticare il mio dolore di amare una ragazza che non posso avere…” “Ar vilinerez” (La mugnaia) si deve invece alla penna della sarta Philomène Cadoret (1892 - 1923) ed è tratta dalla raccolta di poesie del 1912 scritte sotto lo pseudonimo di Koulmig Arvor e titolata “Mouez Meneoù Kerne” (Le Voci dei Monti della Cornovaglia). Peccato che il testo non sia inserito in nessuna lingua all’interno del libretto, comunque narra della gioia prima e dello strazio poi, di una vita vissuta dall’autrice all’interno di un vecchio mulino bretone chiamato “Gwrac’hig an Draonienn” (La Vecchietta della Valle). La disperazione d’aver perduto prematuramente, in un giorno di primavera, sia marito che figlioletta “…spariti come la luce, il mulino nido di gioia, ora è rifugio di tristezza, il crepuscolo della mia vita è arrivato, il sole getta i suoi ultimi raggi, tranquillamente attendo la sera ascoltando il tic-tac del mio vecchio mulino”. In effetti anch’ella morirà giovanissima a Rostrenen nelle Côtes-d'Armor e da allora riposa nel piccolo cimitero adiacente alla cappella di St-Jacques (a Nantes, Kemper e Daoulas le sono state titolate tre vie cittadine). Dopo un inizio parlato, la canzone si dipana zigzagando verso vari generi musicali, con vocalizzi e respiri sassofonistici dilatati; una canonica versione folk-acoustic ballad è però udibile nel disco “Kanaouennou Breizh-Izel” di Paul Huellou (padre) pubblicato in Bretagna nel 1979
dalla mitica Disques Velia. Il cd della Kreiz Breizh Akademi si conclude con “Ar bambocher” (Il festaiolo), proposta in due parti (in entrambe protagonista una cornamusa, nella seconda accompagnata dalle voci). Una canzone che riflette sui vantaggi (pochi) e le delusioni (molte) di un buontempone che beve in una locanda dove niente può inquietarlo, ringraziando Dio per avergli concesso una donna bella e paziente. Fu precedentemente incisa nel 1992 dal trio Barzaz del compianto Yann-Fañch Kemener (assieme a Jean-Michel Veillon, Gilles Le Bigot, Alain Genty e David “Hopi” Hopkins). Unica eccezione linguistica presente è la lunga “Xarmangarri but badut” (Amo un tipo fascinoso) cantata in basco e composta dalla cantante popolare Maddi Oihenart, originaria di Barkoxe, comune di Iparralde nel territorio di Zuberoa (Pirenei Atlantici, Nuova Aquitania). Il brano musicalmente unisce canto tradizionale a sonorità avanguardistiche nelle quali echi lontani di cornamusa fanno da contraltare a fiati contemporanei di rara efficacia. Un meticciato di corde basse, arpeggi etnici, soli violinistici e coralità vocali finali che miscelano i suoni in un gioco di simmetrie e contrasti, contribuendo a creare un'atmosfera di rara profondità emotiva. A sottolineare la natura continuamente mutevole di questo disco ai confini di cammini tra tradizioni regionali e sonorità globali, tra testi antichi e parole dai soggetti attuali: lotte sociali, diritti delle donne, difesa delle minoranze, resistenze. 

Flavio Poltronieri 

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