Dimenticate (si fa per dire!) Tamikrest, Tinariwen e Bombino! Gli Al Bilali Soudan, gruppo familiare maliano di Tombouctou, presenta il takamba, musica popolare Kel Tamasheq (Tuareg) del deserto, nella sua forma più diretta, senza orpelli e “manipolazioni” post, imperniando il suo suono ruvido sull’incedere intrecciato dei tehardent (il liuto a tre corde, altrove chiamato ngoni) sostenuti dal ritmo del calabash e da forme di canto call&response.
All’origine del nome della band è Bilal ibn Rabah, contemporaneo del Profeta. Bilal era un ex schiavo apprezzato per la sua voce, Maometto lo scelse come primo muezzin. Si dice che uno dei discendenti di Bilal sia emigrato in Africa occidentale nella regione a sud del Sahara, che secoli fa era denominata dagli arabi “Soudan”, la terra dei neri.
Gli Al Bilali Soudan appartengono a una discendenza di artigiani che da generazioni sono anche musicisti. Li guida Aballou Yattara, accompagnato dallo zio Aboubacrine Yattara (tehardent basso); i due suonano insieme da decenni e rappresentano il nucleo base del gruppo a cui si uniscono i rispettivi figli, Mohamed Abellaw (tehardent) e Ibrahim Ag Aboubacrine (calabash), mentre un cugino, Hama Oumar, canta e suona anche lui il calabash.
Dopo l’eponimo esordio con “Al Bilali Soudan” (2012), cui hanno fatto seguito “Tombouctou” (2020) e “Babi” (2023) e dopo importanti partecipazioni festivaliere (dal WOMEX a Rudolstadt, solo per citarne due manifestazioni di caratura mondiale) pubblicano l’album “Chez Aballou”, registrazione casalinga, come allude lo stesso titolo, masterizzato a New York e prodotto da Chris Nolan, titolare della label statunitense Clermont Music per la quale sono stati incisi anche i dischi precedenti.
Registrate durante session informali, le quattro tracce di “Chez Aballou” sono essenzialmente strumentali, attitudine che il gruppo sta assumendo in forma più accentuata. Dai quasi quindici minuti della prima traccia, “Sibo Adare Niba”, ai poco di più di tredici di “Kandjai Mali”, passando per i quasi cinque di “Bangui” e i brevi due della conclusiva “No.27”, l’album è un abbraccio totalizzante e avvolgente con il mood incessante e il groove scanditi dall’iterazione delle corde e dal ritmo sorretto dalla zucca percossa.
L’iniziale “Sibo Adare Niba” è un’improvvisazione strumentale (la voce che si ascolta fissa un dialogo in studio finché i musicisti non trovano la giusta intesa sonora) derivata da un brano tradizionale che parla del deserto del Teneré e di chi viaggia lungo quelle rotte. “Bagui” è un canto di lode in cui un griot canta per ringraziare Samba Bagui, che fu un re Peul, per la sua benevolenza. Segue “Kandjai Mali”, interpretato frequentemente nelle cerimonie nuziali. Infine, “Number 27” è uno strumentale composto a partire da un brano chiamato “Koudeidja”, in cui si tessono le lodi di ringraziamento per una nobile donna che invitava i griot agli eventi di famiglia.
Senza concedersi nulla di superfluo, “Chez Aballou” seduce l’ascoltatore con l’inebriante interplay tra corde e percussioni cucurbitacee. Gli Al Bilali Soudan ribadiscono da dove tutto nasce e trasmettono la tradizione takamba senza compromessi, consegnando un lavoro che è al tempo stesso dichiarazione artistica e testimonianza di continuità intergenerazionale.
Ciro De Rosa
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