Questo album – il numero 17 della carriera solista di Gorka, indiscusso rappresentante del New Folk Movement americano – è talmente bello da ricordarci la grazia piena che alcuni fortunati e predestinati artisti riescono a raggiungere. Al punto che, senza evidenti sforzi, il chitarrista e songwriter del New Jersey riesce a cantare del suo stesso processo creativo, descrivendone lo spirito e aprendo, così, una specie di metanarrativa che non può che solleticare la nostra voglia di scrivere: ovviamente oltre la bellezza, come dicevamo, dei dodici brani che racchiude (torneremo sull’argomento). C’è anche un altro paio di aspetti che non possono essere non citati. Il primo è “Harris and The Mare”, la sola cover presente in scaletta, che si configura come un eccezionale tributo al genio di Stan Rogers, sfortunato e talentuoso cantautore canadese, scomparso a poco più di trent’anni nel 1983. Qui la voce soffice di Gorka è profonda come non mai e, allo stesso modo, la sua chitarra – sempre cristallina e perfetta – ci fa comprendere quanto questo strumento possa essere pieno e orchestrale. Quanto addirittura possa abbracciare un’intera orchestra, sorreggendone il peso con armonia e raffinata delicatezza. Qui l’orchestra non c’è – non serve. Ma l’andamento del brano, con tutti i suoi elementi di evocazione, richiama un senso di soddisfazione, di perentorietà, che proviene diretto dalla metrica, dalla cadenza, da una direzione e un’impronta orchestrale, che porta con sé la sensazione della perfezione, dell’appagamento (“Harris, my old friend, good to see your face again”). Gorka sa chiederci di ascoltare, fermandoci il tanto che basta (e non è poco) ad assumere in pieno lo spessore del suo canto. D’altronde la sua storia, che rimane ben piantata nella tradizione folk americana, ci insegna che il messaggio e la voce con cui lo si veicola necessitano di essere continuamente lavorati, cesellati. Non perché ciò che contiene questo album abbia l’impronta perfetta di un cantautorato aureo, ma perché allaccia tutti gli elementi più significativi, li ordina e li condivide con maestria, tralasciando ciò che non serve, o che non serve più. Qui risiede tutta la bravura di Gorka, nel farci pensare che stiamo ascoltando un lavoro sviluppato dentro uno scenario di equilibrio, di riflessione, di benessere e consapevolezza non tanto tecnica o esecutiva (è incredibile a dirsi al cospetto di tanta perfezione) ma di pensiero. Insomma di organizzazione di tutte le parti significanti che lo compongono. Come si diceva, questo è il momento di tornare sul suo cantare di come scrive e, quindi, di come canta e di come suona. Imprime questo suo processo – in cui sono presi, certamente con approcci e assetti differenti, tutti i compositori, i narratori – nella canzone “Favorite Place”, che descrive così: “I am happiest when I'm working on a song, or better yet, in the middle of several songs. I love the place when the code is cracked and the song passes the point of inevitability”. Il brano apre il disco. Ed è tutto dire: “My favorite place to be is before the story ends”. Lo spazio in cui ci troviamo non è del tutto chiaro ma neanche del tutto sbagliato, ci dice l’autore: siamo sulla soglia dello svolgimento, aperti a quelle correnti che gradualmente fanno ordine. Non a caso, l’andamento del brano è ascendente, lanciato su un’armonia pacata ma inesorabilmente progressiva, che ci guida verso lo stadio del compimento, dell’ordine auspicato. Concludiamo con l’ultimo aspetto, molto presente nelle numerose recensioni dell’album e nelle note che ne hanno accompagnato l’uscita. In un certo senso chiude un cerchio di “forza silenziosa”, che ci procura un ulteirore elemento di fascino: “Untitled” è il decimo che Borka pubblica con la Red House Records, uno dei caposaldi della musica indipendente e roots americana, fondata da Bob Feldman nei primi anni Ottanta a St. Paul, Minnesota e oggi inglobata nel Compass Records Group di Nashville.
Daniele Cestellini
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