Le novità che si porta dietro “Amuri luci” sono diverse e tutte ci sono sembrate dei buoni motivi per parlare del nuovo album di Carmen Consoli, vellutato e graffiante, morbido e spigoloso, tagliente, profondo e diretto, cantato in dialetto e dentro riferimenti alla storia della musica siciliana, intesa però come stratificazione sonora, politica, culturale. La stampa ne ha ovviamente parlato moltissimo e con grande riguardo, a partire dai fattori più tecnici: l’album è uscito lo scorso tre ottobre in digitale e sarà pubblicato fisicamente in diversi formati solo fra un paio di settimane. La sensazione è che la cantantessa non si sia messa in mostra – direi affatto. Ma il solo fatto di aver di nuovo messo mano alle sue musiche, alle sue chitarre, alle sue lingue (che qui comprendono il dolce stilnovo federiciano, il greco antico di Teocrito, il latino di Ovidio e il siculo- arabo) e ai suoi cuori (ha dichiarato che questo è il primo di una trilogia, che sarà seguito da album rock e da un altro cantautorale), è stato percepito e rappresentato come un evento a cui non capita più tanto spesso di assistere. O meglio, non capita più sufficientemente spesso di assistere alle nuove forme che le grandi voci riescono a dare alle proprie esperienze e ai propri pensieri. Saranno i tempi feroci e veloci, voraci a cui ci abituano i musicisti mainstream. Saranno le capsule in cui sono rinchiusi tutti i giovani musicisti, il labirinto del business, dei singoli di successo, del mercato dei concerti – insomma la sempre presente mercificazione. Sarà anche un po’ di nostalgia e di meraviglia nel sentire la voce da soprano della Consoli misurare la poesia di Ignazio Buttitta, ripercorrere la figura di Rosa Balistreri o di Giuseppe Impastato e riflettere sulla storia, la scrittura e la figura di Ibn Hamdis, assurto a simbolo della migrazione di ieri e di oggi: forzata, violenta, sprezzata (a la Repubblica Consoli dice “parliamo di qualcuno che è stato cacciato da casa sua, perché quella terra l’ha presa qualcun altro… gli arabi in Sicilia furono illuminati e tolleranti ma, all’arrivo dei Normanni, molto meno indulgenti, dovettero andarsene”). La nascita dell’album – composto da undici brani, tre dei quali cantati in collaborazione con Jovanotti, Mahmood e il tenore Leonardo Sgroi – va probabilmente ricondotta a due macro elementi. Il primo è più concreto, operativo e ha due titoli: “L’amuri ca v’haju”, la colonna sonora di “Lamore che ho”, film di Paolo Licata dedicato a Rosa Balistreri, e “Terra Ca Nun Senti”, l’album che raccoglie lo spettacolo con l’Orchestra Popolare Siciliana, sospeso tra brani del suo repertorio e popolari siciliani, con omaggi a Rosa Balistreri e Peppino Impastato (insomma un moto ciclico che punta su alcuni elementi fissati come cardini e che la Consoli continua ad approfondire). Il secondo elemento a cui potremmo ricondurre l’album è la nostra contemporaneità. In un’intervista Carmen afferma che, a differenza dell’italiano che asseconda la sua parte più “introspettiva, sussurrata”, il dialetto è come il blues e sa esprimere il disagio, “tira fuori in me uno spirito critico, mi permette di mostrare l’anima più impegnata socialmente e politicamente”. Ecco che l’album – bello, perfetto, organico in tutte le sue componenti: dalla musica alla metrica, dagli arrangiamenti al suo timbro generale – diviene, grazie a questi elementi di struttura, un urlo di protesta, da cui emerge la necessità di parlare delle storie (siciliane nel caso specifico) che strappano il velo della dimenticanza (nella title track, posta in apertura della scaletta, è Giovanni Impastato che parla di suo fratello) e di quelle a cui va incardinato il presente: attraverso le quali ci si guarda dentro, si accoglie il senso di abnegazione e si scansa il passivismo. Scorrendo l’album si scoprono, poi, le trame di un racconto non solo raffinato nella forma ma soprattutto elaborato con meticolosità nel suo svolgimento generale. I temi – opportunismo (“Unni t'ha fattu 'a stati”), violenza, guerra (“Mamma tedesca” di Buttitta), migrazione (“La terra di Hamdis”), amore (“Γαλάτεια”), ribellione (“Parru cu tia”), falsità (“Comu veni, veni”) – non potrebbero rappresentare meglio il nostro presente. Anche quando, con “Nimici di l'arma mia”, la Consoli ci lascia alle ingiuriose pene d’amore di Graziosa Casella, poetessa catanese dimenticata e mai riconosciuta ma irriducibilmente passionaria, sanguigna e femminista.
Daniele Cestellini
