Polistrumentista, compositore, regista ed etnomusicologo, Luigi Cinque è uno degli artisti più radicali e poliedrici della scena musicale italiana e non solo. Dalla gloriosa esperienza con il Canzoniere del Lazio alla Hypertext O’rchestra ha attraversato generi, culture e linguaggi differenti, oltre ogni schema, animato dalla costante tensione verso la ricerca e l’esplorazione di nuovi territori sonori. Il suo nuovo album “Kromosoma Maris” è film sonoro affascinante e insieme un diario di viaggio tra Mediterraneo, Sudamerica, Africa e Asia. Un disco che intreccia memorie personali e collettive, antiche tradizioni e visioni postumane, rielaborazioni di archivi e improvvisazioni rituali. Abbiamo intervistato Luigi Cinque per farci raccontare la genesi e il senso profondo di un’opera che parla del mare come principio cosmico e politico, metafora di un mondo interconnesso in cui la musica diventa linguaggio aurorale, ponte tra culture, strumento di resistenza e di conoscenza. Un dialogo che attraversa le tappe di un percorso artistico visionario e che rivela, ancora una volta, la vocazione di Luigi Cinque a “tradire per tramandare”, a cercare sempre un altrove, un nuovo orizzonte sonoro.
Partiamo da lontanissimo come si è evoluta la tua ricerca musicale dai gloriosi giorni del Canzoniere del Lazio alla Hypertext O’rchestra?
Mi è capitato un paio di volte di scrivere del Canzoniere del Lazio. Qualcosa si trova su Academia.edu. È il capitolo iniziale di un mio libro di tre o quattro anni fa. Il Canzoniere del Lazio a suo modo è “leggenda”. Molto è dovuto, oltre che alla pervicace assenza dai media salvo qualche passaparola e due richiami editoriali, al periodo storico in cui si sviluppò; in quel continuum interconnesso di coscienza politica, di giovinezza vera (vent’anni), di democrazia speciale delle arti e degli artisti. Le città italiane nel ‘74 erano fucine inesauribili di pensiero e pratica artistica. Il Canzoniere del Lazio è figlio di quelle
situazioni: cinque ragazzi, musicisti né più né meno di altri, con il merito di trovarsi nel posto giusto al momento giusto nella storia di quella che poi sarebbe stata (impropriamente, dico io) la world music. Non mi dilungo. C’è tuttavia un punto che interessa il nostro dialogo. Mi richiamo alla bella definizione che arriva dal Festival di Loano: la “tradizione aumentata”. Sintagma interessante. Parafrasi della più nota “realtà aumentata” ma in questo caso con una marcia in più, un ossimoro forte: aumentare ciò che per antonomasia è statico vuol dire totalizzare il villaggio da cui si proviene e aumentarlo e tradirlo al ritmo filosofico del tempo in cui si vive. Ed è proprio questo che inaugurò (per primo, possiamo dire) Il Canzoniere del Lazio: aumentare la tradizione, tradire per tramandare. Il repertorio del Canzoniere relativo ai due dischi “Lassa sta la me creatura” e “Spiritu bonu”, non prima né dopo, con il live che ne derivò, ha rappresentato proprio questo: iniezioni di blues, sperimentazione contemporanea, zappismo, jazz modale, prog sound metropolitano in una cultura contadina già allora in buona parte defunzionalizzata e in preda alla più selvaggia omologazione, “pasoliniana”, per intenderci. Fu anche – last but not least – un gesto politico anti-colonizzazione anglofona. Così… rispondendo alla tua domanda, la mia ricerca continua, concettualmente, in quella direzione… meglio, per evitare confusioni: l’orientamento della bussola è sempre lo stesso. Solo quello, sia chiaro. Oggi poi, la mia Hypertext O’rchestra è un progetto poetico, una factory virtuale, è un rituale di musica quantistica a varie aggregazioni e intensità.
Se guardi indietro al tuo percorso, quali elementi di “Kromosoma Maris” consideri eredità del tuo viaggio musicale, e quali invece sono aperture radicalmente nuove?
La memoria ha una sua autonomia. Compare e scompare nei luoghi più improbabili. Fa azioni di
guerriglia. In questo disco che ha il codice emotivo di un abbandono di luogo, di un attraversamento, la memoria mi ha teso vari agguati creativi “costringendomi” a citazioni del lavoro passato, a recuperi dal mio archivio. Persone, personaggi, fantasmi, imprese musicali inedite. Alcuni, diciamo così, sono riapparsi al momento giusto e li ho inseriti nella composizione. In “Kromaris – C’è un solo mare” - che è il secondo brano del disco ed è l’incipit di un Requiem per Gaza che stavo scrivendo per il Museo d’arte Moderna di Tokyo - in questa versione (più pop diciamo così) ho messo accanto a me, al mio pianoforte e fiati e alla mia voce, al cello di Giovanna Famulari, alla batteria di Ascolese e le percussioni di Lo Cascio e Sanjay, una registrazione fatta in passato da Jivan Gasparyan, al douduk ovviamente. Ci sono nel CD brani d’archivio riprocessati e magari rigestiti da stomaci digitali in forma di campionamenti e preparati per suonarci sopra.
Definisci “Kromosoma Maris” “un lavoro concepito come un film”. In che senso la scrittura musicale si è avvicinata al montaggio cinematografico?
Non ho lavorato solo mixando le singole tracce ma richiamando e montando scene intere già mixate. Come si fa generalmente nel montaggio ellittico di un film o nelle partiture sinfoniche in cui, per esempio, se hai scritto e messo da parte una cadenza per coro e fiati la riprendi così come è e la inserisci nella nuova tessitura che stai scrivendo. Insomma, per farla breve, in questo modo si è delineata una geografia emotiva, un mare simbolico che unisce mondi diversi e li riassetta in un unico respiro. Il brano “c’è un solo mare” si chiude con una scena di canto e clarinetto che registrai nei deserti del Marocco nel 2000. In tutto il CD, la narrazione che riceve l’ascoltatore non si interrompe ma passa da un brano eseguito in rituale con gli Gnawa alla tangueira della Boca di Buenos Aires o a una melodia del Pollino (d’altra parte
una delle ‘inventore’ del tango fu Rosita Melo, un’immigrata lucana a Montevideo), al canto “carretteri”, nel brano “Blù Siciliano”, che ho imparato nella mia infanzia, alle “Bnet Houaryat”, alle varie ballad che ci sono nei settanta minuti del disco. Nella parte più sudamericana, affiora, ci tengo a sottolinearlo, un lavoro di canzone con quel tono un po' guevarista, quel “senza perdere la tenerezza” che è un sapore presente in tutto il continente, dalla Colombia all’Argentina. Grazie per questo a Nicole Ewang (africana) che ci canta una tanguera desolata da barrio porteño di Buenos Aires e a brani come “Soona”, “Luna reverse” o una ballad come “Frygian Train”.
Il titolo rimanda a una ricerca quasi genetica e spirituale: cosa significa per te “il cromosoma del mare”?
“Kromosoma Maris” vuol dire, filosoficamente: alla ricerca del principio del Mare, della sua essenza primaria, l’archè di questo liquido amniotico, di questa vibrazione galattica che ci accoglie e ci circonda come un poema universale, come una preghiera indiana shivaitica. È ovvio che questa è una semplice considerazione mistico/filosofica. Ne deriva tuttavia, come spesso succede con la mistica, un comportamento etico che è l’unico che deve avere un musicista vero al di là della sua tecnica.
Scrivi che non è più tempo di regionalismi e che “il mare è ormai uno solo”. Quanto questo disco nasce come manifesto politico oltre che musicale?
Il tempo nuovo che si sta profilando è quello di una postumanità (non più antropocentrica) unica davanti al suo unico mare, “il grande mare”, “il solo mare” che ci circonda e ancora ci abbraccia. Sono pensieri arcaici e attualissimi. La questione oggi - come vediamo - è planetaria e interconnessa in modo assolutamente quantistico. Dobbiamo tornare alla saggezza aurorale, cosmogonica. In questo senso è chiaro, hai ragione, che affermare che “C’è un solo mare” finisce per essere il dettaglio logaritmico di una intenzione politica. La stessa tua osservazione mi è stata fatta in una Radio di Tokyo dove in occasione di un paio di concerti giapponesi, ho presentato “Kromosoma”. Mi hanno anche edotto – io sconoscevo – che nel Kojiki, poema cosmogonico giapponese, si delinea una situazione in cui per gli uomini il mare è insieme “la grande madre e il padre”, ed è esso stesso “preghiera degli uomini” che altro non sono, in
In questo lavoro il sax soprano e il clarinetto basso sembrano diventare protagonisti, quasi due voci narrative. Che ruolo hanno avuto nella costruzione del disco?
Tra molti amici che affiorano, io ci sono con pianoforte, electronics, fiati, trumpet elettronico, guitar, e un sax soprano soprattutto. Il mio clarinetto basso è sulle tracce di Eric Dolphy. E poi la voce, in questo caso una voce che rielabora formule magico/sonore dagli angoli di uno stesso, unico, mare: dal Caribbe dove viaggia l’Ulisse nell’Omeros di Derek Walcott poeta, dai nostri mari del sud Italia o dai Barrios di Baires e le onde Carioca o da Bahìa, di Iemanjà la dea Orishà del Mare, o gli shaman d’Etiopia.
Come hai lavorato nella costruzione e nell’arrangiamento dei brani?
Sono brani diversi tra loro. Ne ho scritto interamente qualcuno, ho disegnato improvvisazioni su rituali suonati dal vivo in passato con gli Gnawa e le Bnet Houaryat a Marrakesh, ho richiamato, da documenti passati, solisti come Gasparyan, ma anche Fausto Mesolella, Balanescu, ho remixato un brano che amo molto Saturnia Silent, che è un quartetto con un’insuperabile Urna Chahar Tugchi e David Fiuczynski straordinario chitarrista sperimentale di New York e Sal Bonafede pianista specialissimo. Nei feedback (il cd è distribuito fisicamente in Europa, Giappone e Brasile ) che mi arrivano, qualcuno dice che “Kromosoma” assume un carattere emotivamente speciale se lo si ascolta tutto di seguito in modo immersivo. È il suo pregio. L’ascolto oggi è spesso frettoloso. Ma per chi vuole, l’ascolto continuo per
Come si manifesta la tua “musica transgenica” in "Kromosoma Maris"?
Il termine fu coniato da Ernesto Assante in una presentazione del mio CD “Passaggi”. L’ho fatta mia perché da sempre lavoro con un concetto di drammaturgia delle arti. Le anime del cinema della poesia e della filosofia, nel mio caso, ma anche della danza, sono sempre presenti a influenzare, geneticamente, il fatto musicale. In altre parole: il futuro è un fiore che canta ci dicono i fisici. Transgenica non è una commistione di stili musicali diversi. Ma di arti e tecniche differenziate : suoni o componi come se stessi dietro macchina da presa o recitando Beckett o danzando. Miles Davis nella sua biografia ci racconta che aveva incrociato i suoi assoli sui ritmi delle tecniche pugilistiche ch’egli studiava e praticava. I suoi assoli sono sequenze pugilistiche.
Nella presentazione citi il tuo rapporto con il canto come “voce arcaica” e “valigia di memoria”. Come nasce la tua lingua vocale, che unisce rosari siciliani, Corano, Dhrupad?
È cominciato come un controcanto, come una nenia personale ed è diventato e diventerà sempre più una specie di esercizio medianico dalle mie esperienze o di altre vite magari. Nasce come meditazione. In parte l’ho imparata da Demetrio Stratos con il quale condivisi un corso al Conservatorio Verdi di Milano. Insegnavamo etnomusicologia comparata e lui ci fece più volte provare questa tecnica di meditazione sonora. L’ho fatta mia e ora, dopo un grave lutto familiare, mia madre (senza scomodare per questo Lacan e compagni ) ne ho fatto una mia via performativa. Fonemi e frammenti di carrettieri e minatori, essendo io siciliano del centro, ma sono anche accenni animisti africani e candomblè brasileiri, brani di poemi. Ora
ci sto lavorando con le mie poesie e sarà appunto “Fragmentos”, il mio live in essere già dal mese di ottobre. Con qualche ambizione profetica.
La poesia ha un ruolo centrale, con i testi tuoi e quelli di Lello Voce. Come dialogano parola e suono nella drammaturgia del disco?
Lello è poeta importante, compagno di molte stagioni di poesia. I suoi testi sono straordinari. Nel brano “Poetry Masaba” le nostre letture si incrociano e mi sembrano molto significative del periodo che stiamo attraversando. Si innestano su uno schema ritmico che chiamo Masaba e che uso in forme diverse con titoli diversi da molto tempo. Qui è “Poetry Masaba” con la voce – sempre evocativa - di Urna Chahar Tugchi.
Nel disco compaiono presenze “vive e fantasmatiche”, da Jivan Gasparyan agli Gnawa di Marrakech. Ci puoi raccontare di questi dialoghi in musica?
Dicevo prima… il dialogo virtuale con personaggi a cui in un modo o nell’altro sono stato vicino. Di Gasparyan ho già detto e scritto anche qui su Blogfoolk. La sua presenza recuperata dal mio archivio impreziosisce “Kromaris” che, ripeto, è un Requiem Ritmico, per i bambini di Gaza. Un pensiero speciale va comunque a Fausto Mesolella. Il disco si conclude con “El quinto regimiento” originariamente un canto delle brigate internazionali della Guerra civile spagnola, più noto come Olè Coltrane perché ripreso e magistralmente suonato dal grande John. Qui in due, io e Fausto, da un live a Roma della Notte dei Musei del 1916 con percussioni sovraincise magistralmente (per “Kromosoma”) da Giovanni Lo Cascio. I rituali suonati con gli Gnawa, invece, sono concerti dal vivo registrati a Marrakesh e sui quali ho risuonato
in occasione di questo CD. Una curiosità!!! L’andamento e il modo ritmico, il ribattuto tradizionale del basso del Guimbrì, cordofono che qui è nel brano “Ritual 1 Gnawa” impressionò moltissimo Charlie Mingus che – detto da lui – si adoperò molto per imitare quella tecnica misto/percussiva sul suo contrabbasso. Tecnica che conobbe dall’esperienza in disco fatta da Ornette Coleman proprio con gli Gnawa di Tangeri.
Cosa ha rappresentato per te l’appellativo brasiliano “a ciaramela de deus” che Armandinho Macedo ti ha attribuito?
Un piccolo grande onore. Premia un’intenzione di studio che ho condotto sul soprano fino a un mio stile personale (discutibile se volete e ancora da studiare molto, si capisce) che cerca di accordare – umilmente – l’amore per sopranisti come Sidney Bechet, Coltrane, David Liebman, Steve Lacy alla grande tradizione etnica modale come lo shennai di Bismillah Khan (mio amico in India) o il “grandifuori” etnico delle doppie ance e il clarinettismo greco/bulgaro/macedone. Nel giro dei miei amici musici brasiliani rimango “A ciaramela de deus” che si pronuncia così (e questo è il bello) a “ciaramèla ggì ggièus”. Un gioco che mi da allegria. Da questo punto di vista il CD è un piccolo catalogo da “ciaramela de deus…”.
Hai incrociato il tuo percorso con musicisti provenienti da tradizioni e geografie diversissime. Come riesci a mantenere unità senza cancellare le differenze?
Basta essere non arroganti e dichiarare i propri limiti. Allora si trova una centralità. I maestri vari che ho conosciuto facevano valere la curiosità piuttosto che esibizioni di tecniche sulle quali molto spesso (visti dalla mia angolazione) erano ben superiori. Con loro per imparare, in definitiva… I maestri del suono che ho incontrato hanno sempre avuto una speciale percezione del tuo status etico. Il bianco, non c’è niente da
fare, è visto come colonizzatore e in ultima istanza come un provinciale imbroglione, un “babacùl” dicono in Senegal e Guinea Bissau, che si fa bello (e si arricchisce) per i suoi rapporti con il buon selvaggio. Combini se sei pulito senza altri scopi funzionali. Prima l’etica. La tecnica viene dopo. Su questa in molte culture musicali c’è democrazia e rispetto. Nel Raga indiano, per esempio, i più bravi vanno più veloci e i meno bravi suonano più lenti. La tecnica è solo un aspetto. L’insieme è composto da molte altre parti. E poi, i musicisti in tutte le culture e tradizioni hanno miti comuni. Le cose stanno cambiando velocemente al ritmo della luce.
Scrivi che per salvarci “dalla peste degli uomini” serve un ritorno a una poesia aurorale e un’improvvisazione che sorprenda persino l’intelligenza artificiale. È anche una critica al nostro presente tecnologico?
La Filosofia occidentale, e dunque i valori condivisi, da Platone in poi – sostiene, non unico, Heidegger – si è occupata degli Enti ovvero delle cose materiali. L’Essere ovvero i valori dello spirito, dell’anima, dell’intuito salvifico è stato ampiamente trascurato. Oggi abbiamo dimenticato quel linguaggio che si occupi dell’Essere. Le tecnologie applicate sono tutte basate su ordini materiali delle cose. Quel linguaggio per parlare dell’Essere – dicono sempre gli Esistenzialisti del ‘900 – permane nella Poesia e nella Musica. Il discorso si fa complesso. Ma certamente queste due arti e tutte le loro ibridazioni, possono svolgere un compito speciale e salvifico.
Il mare come immagine ricorrente sembra legare mitologia, spiritualità e globalizzazione. In che modo pensi che la musica possa farsi “mare unico”?
Il mare è primigenia metafora di meditazione e alterità. La musica è vibrazione molecolare e cerca di fare la sua parte.
Nel booklet parli di “Posthuman Circus” come serie di lavori futuri. Cosa significa per te “postumano” in termini artistici e filosofici?
Il postumano prevede e già considera che gli uomini non saranno più al centro dell’universo… non più, dunque, una realtà antropocentrica ma condivisa con gli altri esseri viventi e anche la Materia (quantistica) e per di più contaminati e innestati in modo irreversibile dalla ipertecnologia. “Posthuman Circus” è un ciclo di diversi Cd (e non solo) che sto progettando con amici musicisti, già compagni di avventure musicali, e di cui vado eticamente fiero. Saremo in zone meno prendibili dall’AI… una di queste è l’improvvisazione, la musica intuitiva, l’interplay, la scrittura aleatoria etc.
Come si evolverà “Kromosoma Maris” sul palco?
In quartetto… ma intanto approfitto per ringraziare chi ha poi partecipato in questa ultima fase di registrazione, in particolare Giovanna Famulari al cello, Urna Chahar Tugchi alla voce, un intrigante cameo di Riccardo Tesi all’organetto, la batteria di Giampaolo Ascolese, le percussioni di Giovanni Lo Cascio, le tabla di Sanyai oltre a Efren Lopez, Alex Balanescu, Armandinho, Sal Bonafede, Nicole Ewang e non ultimo Walter Rios, il mio amico di Baires cui Piazzola donò, per meriti, il suo Bandoneon.
Dal punto di vista produttivo ora siamo liberi di dirigere il timone dove sentiamo che il vento parla. “Kromosoma” è un punto di svolta. Sono ripartito con la mia vecchia etichetta. “Kromosoma” è targato con tutti i crismi dell’ufficialità (fino al Qr code) MRF5/luigicinquemusic&art che torna a essere una label musicale d’eccellenza. Abbiamo trovato per “Kromosoma” distribuzioni in Benelux, Francia, Germania ed Est Europa, Giappone, Arabia Saudita, Brasile. Già 2000 CD spediti con un buon 80% in vendita più presenza worldwide su tutto il web. Questo naturalmente influenzerà le prossime produzioni. Se non altro perché torniamo a essere padroni nel nostro villaggio con la possibilità di “coniugarci semmai ma non declinarci”. Inizieremo la serie “Posthuman Circus” che vedrà una bella teoria di artisti, musicisti, poeti, animali, boschi, folletti e scienziati a ragionare sul nuovo mondo. Molta “tradizione” (non solo musicale”) dunque e… molto aumentata.
Salvatore Esposito
Luigi Cinque Hypertext O’rchestra – Kromosoma Maris (MRF5 music&film/luigicinque music&art, 2025)
Molto di “Kromosoma Maris” – questo nuovo album che annuncia, anticipa e partecipa del progetto "PostHuman Circus", di cui avremo modo di parlare in queste pagine appena assumerà la sua forma – è nella ricca intervista che precede queste note. Chi è arrivato a leggere fin qui avrà compreso quanto profondo sia il mare che Luigi Cinque attraversa, assorbe e travasa nella sua musica e, in modo precipuo, in questa drammaturgia di suoni, in questo diario, viaggio, insieme di appunti e rivelazioni, montati con un occhio avanti e indietro nel tempo, ma sempre puntato al cuore del mare: al perno di una riflessione ampia che va molto lontano. Appunto, è Luigi che ci spiega cosa ha visto, cosa vede e come la sua musica lo rappresenta: il jazzista, l’esploratore postmoderno delle musiche tradizionali postmoderne, che lavora fuori dagli spazi dei generi musicali e fuori dall’umanocentrico, che infila le mani sottopelle e tende i nervi, come un circense tende le funi, di ciò che può assumere ogni forma, sia attraverso l’abbaglio sia attraverso la ricerca. Ci auguriamo, poi, che abbiate letto con attenzione l’intervista non tanto per condividere (consolandoci) un ordine esplicativo – che poi è un ordine di pensiero, anche se potrebbe sembrare solo un capriccio redazionale – quanto per poter poggiare sulle articolazioni del pensiero espresso dall’artista, concedendoci, in queste poche righe, di sorvolare sui dettagli e (provare a) ragionare sul discorso di un musicista ipertestuale, che è anche poeta, scrittore, regista, etnomusicologo e via discorrendo. Ecco, l’ipertesto cinquiano – stampigliato nel nome della sua orchestra – sembrerebbe proprio un fatto di natura, cioè un cardine del suo movimento narrativo: l’assetto ci riconduce alle note a piè di pagina in alcuni esempi di letteratura postmoderna, dove c’è sì la frammentazione ma prima ancora c’è un ordine diverso, nuovo, che nasce proprio lì dove finisce la modernità. La quale (semplicemente) viene compresa, riconosciuta, elaborata proprio nella sua nuova dimensione storica, cioè in parte passata e in parte limitata dalle circostanze che l’hanno generata. Oltre la modernità vi è una contemporaneità finalmente (attraverso gli occhi di qualcuno) decompressa, che si spiega (per fortuna e grazie a qualcuno) agli occhi di molti, rivelando la congruità di un approccio espressivo non più e non solo lineare, la ragionevolezza di un processo di decostruzione che porta alla nuova impronta del linguaggio posttradizionale (azzardiamo noi): a questo punto meno diritto ma ugualmente rigoroso, meno evidente ma ugualmente e forse più coerente, meno essenziale (qui si scivola un po’, ma lo spazio è quello che è) e più semanticamente ambiguo. Dall’altro lato però, questo album ci appare delicatissimo ed equilibratissimo (lo è anche quel mare di note a piè di pagina, in cui ti perdi ma che poi ti sollevano di nuovo fino al testo). E i tanti elementi – musicali, poetici, ritmici – che lo compongo non ne determinano una forma scomposta e difficilmente afferrabile. Perché – abbiamo compreso dopo qualche ascolto, dopo aver scandagliato le note di copertina, i testi dei brani, le note di presentazione – la frammentazione, intesa un po’ forzatamente come il contrario della linearità (che poi tante “letterature” lineari o non le capiamo o non ci piacciono lo stesso), viene espressa attraverso una visione precisa, ordinata, filmica. Che rinviene sia nell’assetto di partenza sia nella rappresentazione di tutto il sostrato che lo sottende (qui torna la cultura musicale popolare, la sperimentazione jazzistica, l’impianto sperimentale che dal Canzoniere del Lazio arriva fino a parte della musica indiana, brasiliana, africana): è proprio qui che, pur nella postmodernità postumana di una visione narrativa (non dimentichiamo l’AI e le sue applicazioni musicali, già diffusissime in tutte le piattaforme), riconosciamo il rigore musicale, la chiarezza ininterrotta di una scrittura orizzontale, che spazia come è necessario fare, se si vogliono coordinare le voci e, con esse, le possibilità e le necessità della nostra contemporaneità. Se, quindi, Luigi Cinque ci insegna (di nuovo) con “Kromosoma Maris” come si indaga il corpo complesso di cui tutti siamo una particella (una goccia, data la metafora), ci suggerisce anche quanto lo sguardo debba essere determinato per dare conto della complessità dello scenario e, in buona misura, quanto affascinanti possano apparire le possibilità di comprenderlo.
Daniele Cestellini









