La Viuleta, Rassegna di canto spontaneo, Viù (To), 13 - 14 settembre 2025

Nel tratteggiare sinteticamente il profilo di un personaggio tanto eccezionale, mi soffermo in particolare sulla sua ricerca pionieristica nel campo della storia orale e dell'etnomusicologia, sul suo ruolo di fondatore di Cantacronache con Sergio Liberovici e Michele Straniero, sul suo precoce interesse per il canto sociale e politico, sulle sue numerose pubblicazioni (libri e dischi) e sui cinque ponderosi volumi scritti negli ultimi vent'anni con la collaborazione di Alberto Lovatto e mia: dai canti delle mondine (2005) ai canti degli operai torinesi (2008), dai canti dei soldati nella Grande guerra (2018) alle due  riedizioni dei “Canti popolari del Piemonte” di Costantino Nigra (Einaudi 2009, Neri Pozza 2020), tutti corredati da cd curati da Flavio Giacchero con registrazioni originali tratte dai nostri archivi sonori. Non potevo mancare di ricordare anche l’opera poetica di Jona, da  “Tempo di vivere”, del 1955 sino all’ultima raccolta, del 2021 (in piena pandemia), dal titolo “Il non più possibile fruscio degli anni”, in cui troviamo passaggi  folgoranti  di dolorosa intensità, quasi presaghi del tempo buio che stiamo vivendo: Quali saranno le risorse dell’io / nel tempo sbandato del raccapriccio / e delle distanze, quando oltre il canto / e l’applauso, ci cominceremo ad odiare? / O abbiamo già cominciato? 
Per sottolineare infine  concretamente come rigore e impegno civile abbiano sempre guidato questa vita piena di ricerche appassionate, faccio ascoltare un brano  registrato da Jona a Torino nel 1959, la “Ninnananna della guerra” di Trilussa (1914), cantata sull’aria di un canto dialettale torinese da un operaio militante socialista, con una carica espressiva che esalta la forza dirompente di una denuncia senza mezzi termini della follia della guerra (Ninnananna tu non senti /li sospiri e li lamenti /de la gente che se scanna / per un matto che comanna.../ Che quer covo d'assassini / che c'insanguina la terra / sa benone che la guerra / è un gran giro de quattrini...).
E qui, al termine della mia laudatio, mentre tutti si sarebbero aspettati un semplice ringraziamento da parte di un premiato quasi centenario, avviene ciò che io immaginavo ma il pubblico non si aspettava: Emilio prende la parola e, nonostante il fiato corto, tiene avvinta la platea per un buon quarto d'ora parlando a braccio, tenendo una vera e propria lectio magistralis sul suo percorso di ricercatore e di studioso, spiegando con ammirevole lucidità cosa significa lavorare sull'oralità e sul canto popolare, su formulismo e ruoli sociali e di genere nel canto epicolirico, nonché sull’importanza dello studio sui materiali dell'oralità in modalità pluridisciplinare.
Subito dopo prende il via la kermesse di canto, ossia la presentazione pubblica dei cori fatta da Giacchero. E qui si assiste all’emozionante passaggio dall'exploit dell'ultranovantenne Jona all'esibizione a sorpresa di un Coro di bambini di Viù, preparato e direi “fatto sbocciare” da Marzia Rey (musicista e cantante, moglie di Flavio), con grande amore e sensibilità, frutto di un progetto in collaborazione con istituti scolastici, Comune e Sportelli linguistici (Chambra d’Oc e Tsambra Francoprovensal, Viù è un Comune di minoranza linguistica storica francoprovenzale). 
Lo straordinario complesso di bimbi (in prima fila Azalais 8  e Giaime 6 anni, figli di Marzia e Flavio), con disarmante simpatia ci canta una filastrocca in francoprovenzale sul pane (il pane sudato, il pane sprecato...) e un antico canto iterativo, Chi ha mangiato il becco dell'anatra,
Sorprendente anche il primo coro esterno (I Ragazzi della Baracchina) proveniente da Reggio Emilia, composto da ragazzini dai nove ai 16 anni, che cantano con passione un testo da loro stessi composto, in uno stile totalmente aderente alla prassi esecutiva dei loro antenati.
Mentre scattavo qualche foto, sbirciavo gli amici musicisti colti (Alberto e Natalie), che vedevo sempre più entusiasti, esterrefatti nello scoprire per la prima volta la profonda carica e la sincerità di un canto sorgivo, senza sovrastrutture e leziosità folkloristiche.
Notevole la forza espressiva e i timbri delle voci del Gruppo Emiliano di Canto Spontaneo, con un canto antibellicista della Grande guerra, sul soldato mutilato dei piedi, che mi rammentava la lezione solista di Giovanna Daffini eseguita nel famoso spettacolo Bella Ciao di Spoleto nel 1964.
Provenienti dalla Val Brembana e Val Seriana (quest'ultima patria delle pietre coti, di cui fanno simbolico
omaggio), i Cantori bergamaschi che, nulla concedendo al colore locale (quantunque vestiti in costume) ci fanno ascoltare il risorgimentale antiretorico O piamontesi mandìm a casa, lamento del contadino di montagna stufo di guerra (E se posso rivare a casa / di capo e piedi io mi laverò / e con l’acqua e col sapone / di capo e piedi io mi laverò...).
È la volta, poi, dei Cantori dell'Oltrepò Pavese, con la tragica ballata dell'infanticida alla forca (“Majulin”), potente squarcio sul destino di donne del popolo disperate, condannate a causa di gravidanze involontarie.
Il gruppo corale di tradizione orale di Mezzenile (To), con “Capelli biondi”, ci rivela che nel repertorio dei gruppi spontanei (in ciò allineati alla pratica in uso da parte delle mondine) non si bada all’antichità del testo e alla sua “nobiltà”, ma si fanno propri anche canti popolareschi e d’autore, talvolta dal contenuto naif, purché “diano soddisfazione” al dispiegarsi delle voci.
Chiudono la rassegna di cori le Corde Locali di Viù, gruppo indigeno (di cui fanno parte gli stessi Flavio e Marzia) con una bella lezione della “Bergera”, eterno motivo della pastorella insidiata dal gentil galant.
Come di consueto, l'esibizione si conclude con un canto eseguito collettivamente da tutti i gruppi partecipanti, e non si poteva meglio concludere il pomeriggio con un altro potente messaggio
antibellicista, “Sento il rombo del cannone”, emozionante per l'intensità delle voci e la fusione delle parti, tra solista, seconde voci e bassi.
Alberto Jona e Natalie, raggianti, non nascondevano l'emozione di avere scoperto questo inaspettato mondo sonoro, tanto variegato quanto insolito nella sua immediatezza e forza comunicativa.
Dal salone polivalente ci si trasferisce nella struttura tensiostatica in piazza, dove Comune e Pro loco avevano allestito una magnifica “merenda sinoira”, che consente a tutti non solo di gustare specialità del luogo, ma di stringere amicizie, fare conoscenze, e ascoltare ancora un continuum di esecuzioni corali vigorose e scoppiettanti di simpatia e convivialità. Dopo la cena, i vari cori prendono posto nelle diverse postazioni distribuite sulla mappa del centro storico, ed Emilio, entusiasta e partecipe a non poche cantate,  avrebbe voluto ascoltare alcune situazioni di canto notturno, ma dopo tante ore si sentiva piuttosto stremato, sempre circondato da amici e persone che si complimentavano con lui.
E così siamo venuti via, mentre il cielo buio sopra Viù vibrava ancora di canti, e mentre in auto noi tutti si commentava questa reviviscenza di canto collettivo, per tanti versi inaspettata e quasi sconcertante, Emilio, nonostante fosse intubato per dare ossigeno ai suoi polmoni, ci esponeva con foga il suo progetto:
“Dobbiamo fare un convegno, discutere di quanto viene fuori da eventi come questo, perché il canto di tradizione orale non si capisce stando in Conservatorio o in Università, ma toccando con mano questa realtà viva, che sebbene di nicchia, è straordinariamente interessante, alla faccia di chi da cento anni e più lamenta la morte del folklore, e così facendo ha seppellito la cultura popolare autentica, perché era ritenuta scomoda, poco garbata, un po' troppo selvatica...”.
Sì, Emilio, proprio così, dobbiamo fare qualcosa, rompendo in qualche modo certi stereotipi sul canto corale e sulle culture popolari in genere, che credo derivino da uno sguardo urbanocentrico  e da una certa supponenza dell’etnoantropologia accademica.
Basti pensare con quanta sufficienza i cori “ufficiali”, quelli strutturati, con divisa e direttore, guardano il pullulare di formazioni corali a orecchio, senza spartito, bollandoli spesso come cori di ubriachi, cantà da ciuc. La risposta a tale sprezzante definizione la colgo nelle parole semplici di un protagonista di questi cori che, senza nascondere la sua appartenenza ad un “coro alpino”, scrive sulla sua pagina Facebook: “Da qualche anno ho riscoperto il canto popolare, se qualcuno vuole sminuirlo, lo si chiami pure cantà di ciuc. Ma sono le mie radici, il canto di mio nonno, contadino del pavese. Il canto di mio padre, emigrato
in città senza mai aver dimenticato le sue origini.  Sarà colpa del genepy… ma io canto anche le mie radici”.
Ecco, questi gruppi corali “spontanei” non cantano per esibirsi, ma cantano per sé stessi, per il piacere di stare insieme, in amicizia, condividendo – assieme al vino e al companatico – una prassi dei loro “vecchi”, secondo una modalità remota di arcaica convivialità, mantenendo modi e stili esecutivi  trasmessi per tradizione orale e gestuale, giocando le voci per terze parallele, la mano a conchiglia vicina all’orecchio, provando una gioia dionisiaca quando l’impasto delle voci si fa organo, con un’energia sonora che fa vibrare l’aria tutt’attorno.
Una volta era l’osteria il luogo privilegiato e canonico di tale pratica, che era una prassi essenzialmente maschile, mentre oggi nei bar o trattorie di paese dove i giovani passano il loro tempo libero, al canto possono partecipare anche le ragazze, e al vino si alterna tranquillamente la Cocacola o la birra. Sempre più di frequente, poi, queste esibizioni “private” e locali, vengono riprese con i telefonini e condivise sui social, creando così un palcoscenico virtuale che in qualche modo funge da filtro e da giuria popolare, facendo quasi le veci di quella “censura preventiva” comunitaria che in anni lontani Jakobson e Bogatyrev avevano diagnosticato per il folklore verbale.
Credo sia tutto da studiare, ma la condivisione in rete delle performances di questi gruppi corali spontanei accresce la loro visibilità, accelera gli scambi e i contatti, favorisce una sorta di emulazione. E c’è chi, come Alberto Gremmi, 84enne pensionato di Piacenza, da anni (dal 2011)
documenta in video questa realtà in movimento, creando un canale Youtube dedicato alla musica dal vivo e ai cori in particolare, che ottiene un incredibile successo di visualizzazioni (almeno tredicimila al giorno!). Per questa appassionata ricerca “dal basso” che ha prodotto un imponente archivio audiovisivo, testimonianza di una realtà tanto interessante quanto sfuggente, due anni fa a Gremmi è andato il premio Viuleta 2023 (anche la Rassegna Viuleta ha un proprio canale Youtube).
Dalle Valli di Lanzo si scende a Torino in poco più di quaranta minuti, sono circa cinquanta chilometri, ma in questo tragitto si misura la distanza culturale tra la metropoli urbana e la valle montana, tra il bon ton della Torino sabauda e la montagna che è sì alle porte della città, ma resta comunque una realtà antropologica  altra, con elementi di specificità inalienabili.
Forse, in questo nostro mondo sempre più globalizzato, permangono spazi che pur essendo ovviamente connessi con la modernità, conservano pratiche e tradizioni espressive di tipo comunitario che resistono
all'omologazione. Si tratta insomma di forme di cultura che, vicine ma distinte dal glocal (termine usato da Zygmunt Bauman per definire la forma con cui singole specificità locali, modellandosi su canoni e forme globalizzate, aspirano ad assumere rilevanza internazionale), tentano di mantenere viva una tradizione e una prassi che contribuiscono a rafforzare il senso di appartenenza ad un determinato territorio. Ricerca di identità, di radici sepolte che sopravvivono o riemergono?  Cosa rappresenta tutto ciò?
Se anche fosse una forma di reazione all'omologazione, non mi pare che vada nel senso di un tentativo di ripristinare il localismo o il nativismo, perché tutto questo non significa chiusura, arroccamento su sé stessi, se pensiamo che proprio qui sono nate originali esperienze di ibridazione, di mescolanza tra cultura popolare locale (piemontese) e cultura musicale dei migranti richiedenti asilo, come l'esperienza del Coro Moro, di cui Flavio Giacchero è stato partecipe protagonista. 
Qualche timore invece mi viene quando, osservando il proliferare di festival e rassegne simili a questa di Viù (sui social leggo di tante Cantavalli, Canti sull’aia, Canti in osteria e simili…..), intravedo il rischio che il fenomeno diventi una moda, perda le sue motivazioni primarie, si logori nella ripetizione di una formula, si spettacolarizzi perdendo di autenticità (l’esperienza delle Notti musicali del Sud, in tal senso, è lampante). 
Per concludere, siamo tornati dalla Viuleta a Torino senza certezze, ma con tante emozioni e soprattutto convinti di una cosa: che l’esperienza vissuta in questo sabato di settembre è stata troppo bella, intensa e suggestiva, che merita di essere ripensata e condivisa. Perché? In un mondo, che dopo una terribile pandemia è precipitato in due guerre mortali, un mondo che sembra aver perso ogni forma di rispetto per le regole del vivere civile, che sembra ogni giorno di più sprofondare nel baratro dell’odio e della barbarie, questo cantare libero in coro, che unisce le generazioni in pace e in amicizia, in nome di una memoria culturale profonda, ci sembra – nel tempo sbandato del raccapriccio - un bel segnale di ritorno ad una dimensione umana autentica.  “C'è speranza se questo accade a Viù”. Mi piace chiudere questa impressionistica cronaca con una sorta di “manifesto poetico” dedicato alla rassegna Viuleta e scritto dai componenti della formazione spontanea di Viù, Le Corde Locali.     
La voce della valle, la voce del tempo

C’è una valle dove la voce non muore.
Dove le parole non hanno bisogno di spartito,
e il canto nasce dal cuore, si intreccia all’altro,
si fa gesto, sguardo, respiro.
La Viületa è l’eco che risale i sentieri,
il soffio che torna a fiorire nei cortili e nelle piazze,
il fiato della montagna che racconta la vita com’era 
tra la gioia dell’innamorarsi
e il silenzio della partenza.
È il canto spontaneo che non si insegna,
ma si trasmette 
di voce in voce, di bambino in bambino,
tra le mani nodose dei vecchi
e le gambe scalze dei giovani.
È memoria, è invito,
è grido di libertà,
è ricamo fragile e potente
che tiene insieme una comunità
e la offre al mondo.
Perché la voce è di tutti, 
ma ogni valle ne ha una sua.
E la nostra si chiama Viületa.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         
Franco Castelli

 

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