Restiamo nella penisola iberica per incontrare Lia Sampai, catalana, cantante e compositrice, attrice e psicologa. Una musica la sua ascrivibile alla cosiddetta “canzone d’autore mediterranea”. Per la label Segell Microscopi nel 2024 ha pubblicato il suo terzo album, “Un delta fràgil”.
Raccontaci del tuo progetto musicale e della tua ultima uscita discografica?
“Un delta fràgil” è ispirato alle Terres de l’Ebre, una regione nel sud della Catalogna da cui provengono i miei nonni e dove mi sento profondamente radicata. L’album parla di libertà, territorio, paesaggio, identità e resistenza. Tutte le canzoni sono scritte e cantate nel dialetto catalano meridionale (quello che parlo a casa). Sono particolarmente felice di questo progetto perché il team si è ampliato. Ci sono più strumenti, trame sonore più ricche e due collaborazioni vocali che ho amato moltissimo.
Che brano presenterai al Premio Parodi?
“La caixeta” è una canzone intima che parla del valore dell’essere accompagnati. Il cammino non è mai lo stesso quando lo percorri da solo (e io non sarei riuscita ad arrivare dove sono senza le persone accanto a me). È anche una canzone per i miei nonni, che non hanno mai avuto l’opportunità di ascoltare la mia musica, anche se mi piace pensare che la musica abbia il potere di cancellare i confini e che in qualche modo possano ancora sentirla. Parla della libertà che ci dà l’arte (“tinc les ales a les mans” – “ho le ali nelle mani”, perché ora Adrià Pagès suona la chitarra) e dell’importanza di essere circondati da persone che rendono possibile suonare, condividere, esistere attraverso la musica. Alla fine, è anche una canzone per il pubblico, perché se non c’è nessuno ad ascoltare, la nostra musica perde significato. Faccio musica per stare insieme.
Pensi sia possibile rinnovare la tradizione con modi vocali e stilistici che non conducono necessariamente verso forme mainstream?
Credo che la tradizione sia viva. E per mantenerla viva, deve essere rivisitata, messa in discussione, guardata da nuove prospettive. Rimanere vicini alle radici tradizionali non significa ripetere il passato, ma ascoltarlo profondamente e permettergli di riemergere attraverso la lente del nostro presente. Anche se questo tipo di musica è spesso messa a tacere nei circuiti globali, credo che ci saranno sempre persone generose che le daranno ascolto, che si prenderanno cura di questi percorsi alternativi e contribuiranno a ridefinire il circuito con impegno.
Il Premio Parodi è un concorso dedicato alla “world music”? Come definisci questa etichetta? Rispecchia la tua cifra stilistica?
Il termine world music è ampio e a volte troppo vago. Spesso raggruppa espressioni musicali molto diverse tra loro semplicemente perché non seguono i modelli dominanti dell’industria. Tuttavia, lo intendo come uno spazio che apre le porte alla musica radicata in territori, lingue e memorie specifiche (quel tipo di musica spesso esclusa dal mainstream). In questo senso, sì, mi sento legata a questa idea: cantare da un luogo, da una lingua, da una memoria culturale ed emotiva. Alla fine, è qualcosa di profondamente umano e universale, e forse è proprio questo il senso del Premio Parodi: onorare una figura che ha difeso questo cammino con convinzione e poesia.
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